lunedì 14 aprile 2008

Conversazione con Antony Sopriano

Seduzioni o maledizioni?

Breve antefatto.

Durante la mia gioventù trascorsi un breve periodo negli “States” a New York.
Lavoravo per mantenermi a Staten Island come operaio al porto. Nei miei momenti liberi facevo visita a mio zio “Pussy” Bonpensiero che abitava nel New Jersey. In una di quelle occasioni mi venne presentato Antony Sopriano, il “Boss”.
Lo incontrai in seguito un pò di volte al “Badabim”, un locale equivoco dove lui e mio zio avevano il loro ufficio e curavano gli “affari di famiglia".
A volte, per sdebitarmi della loro ospitalità fornivo informazioni utili sui container nel magazzino del porto, i quali venivano poi “trovati” dagli amici del mio caro zio, prima che si perdessero.
Grazie a queste mie premurose segnalazioni si creò una familiarità con Antony che altrimenti non avrebbe avuto modo di esistere.
Passati gli anni, ricevetti una sua telefonata che mi informava che era Milano per affari. Ho avuto così occasione di rivederlo per un breve periodo e chiacchierare con lui di varie amenità . Alcuni dei nostri incontri, avvenuti sempre di notte, sono stati molto interessanti.
Ecco la cronaca di una serata di quelle...


La scena.
Casa di Tony, in una località, non meglio precisata del nord di Milano, notte fonda.
L’appartamento è ampio, ridondante con note kicth che punteggiano gli angoli di casa.

Giganteggia sulla parete uno schermo da 50 pollici Samsung (caduto dal camion come ama dire), sul tavolo basso diverse bottiglie di birra e una solitaria di chinotto S. Pellegrino.
Tony è in canottiera, la camicia è appesa all’ingresso sul portaombrelli.
Noto che la canottiera è a costine molto fini, quasi aderente alla figura grossa e in soprappeso, indossa pantaloni grigi di Coneliani stazzonati, è sdraiato sul divano con in mano il suo palmare intento a consultare le puntate sulle corse dei cani.
Pare una mina sul punto di esplodere (spesso gli capita).
Le scarpe sono Church stringate, marroni, di ottima fattura.

Come pensavo, improvvisamente, come un rutto, commenta: “In un noto film, visto molti anni fa, mi colpì in modo indelebile la frase pronunciata da una donna matura, quasi anziana, ad una giovane donna.
Questa frase nella sua profonda saggezza e giustezza, conserva una penetrante malinconia”.

Tony si sporge verso di me e con le dita chiuse a sostegno del nulla, muove la mano avanti e in dietro in un gesto inequivocabile che spesso gli è familiare, mentre così facendo accompagna le sue parole: “La donna dice alla ragazza: -Cara, due cose al mondo non hanno limiti, il potere della seduzione e i modi per abusarne-”.

Visir, vestito come suo solito in jeans scoloriti e maglione blu (inappuntabile nonostante l’ora tarda e il tasso alcolico decisamente fuori norma), :”In effetti, la seduzione è un potere che sembra assoluto. Comincia ad essere esercitato, magari inconsapevolmente, tra i banchi della scuola elementare. E gioca sempre un ruolo determinante nelle relazione umane, non necessariamente equilibrato o democratico”.

Tony, osservando con una smorfia una macchia di sugo all’altezza del petto sulla bianchissima canotta:
“Secondo me è la base di tutto. E’ un potere che sottilmente si insinua nelle pieghe del cuore e della mente e spezza anche le persone più granitiche, come la goccia costante sulla roccia.
A che serve ad un uomo, mi domando, costruire un corpo forte come quello dì un leone, quando basta un piccolo sorriso per fargli cedere il passo ad una bella ragazza. Certo, noi la confondiamo con la gentilezza, ma cosa ci stia dietro, giù, giù nel fondo dell’anima lo puoi vedere anche tu.
Cosa serve, mi domando ancora, ad una donna vivere mille vite di studio e forgiare una mente brillante e tagliente come un serramanico, quando di fronte ad un uomo che suscita in lei certe emozioni resta con l’esperienza e l’ingenuità di una bambina ritardata.”

Visir: “In effetti l‘esercizio della seduzione, che nei rapporti sentimentali sembra essere una prerogativa più femminile, nei rapporti umani prescinde dai generi, dal sesso”.

Tony, con gli occhi arrossati, come da una notte insonne: “Apparentemente uomini forti e donne solide come montagne. Basta trovare in loro un punto d’appoggio e con la leva della seduzione ecco sollevarli come piume insieme al mondo intero con tutti dentro.
La seduzione è un volto con molte maschere, non dimenticarlo mai. Non è da intendersi solo come seduzione sessuale, come tu dici, quest’ultima davvero è la più facile, banale oserei dire.
C’è la seduzione che procura un’ideale, largamente usata in politica.
C’è la seduzione del guadagno, sfruttata dal mondo del lavoro, dall’economia di mercato.
C’è la seduzione di essere nel giusto, abusata dalle chiese, dalle religioni, da tutti i predicatori ispirati, nelle guerre per mandare gli uomini al massacro.
C’è quella della felicità, “la mutanda per tutti i culi” come diceva mio padre Antony senior.
C’è la seduzione più subdola e cioè quella di farci credere di essere una persona speciale.
A nessuno piace essere ordinario, l’hai mai notato? Abbiamo bisogno di sentirci unici, diversi, migliori dell’altro”.

Visir: “Un gioco politico, se lo vedi secondo una prospettiva più generale…”

Tony, con un’espressione indecifrabile, forse di commiserazione: “Molte sono le vesti con cui si presenta questo ospite non invitato ma tutti, e ribadisco tutti, questi giochi di specchi fanno capo ad un bisogno unico, primario.
Questo bisogno è il bisogno di completezza.
L’uomo si sente incompleto, semplicemente perché non si conosce o più semplicemente ancora non sa come costruire per se ciò che gli serve.
L’uomo non conosce se stesso, e in questa ignoranza profonda, atavica, germoglia l’insicurezza.
Ecco che l’uomo per sapere chi sia ha bisogno di conferme, di domandare, di chiedere come un mendicante.
Sente il vuoto in se e chiede ad un altro di riempirlo.
Pare strano che non si veda tutti, come in realtà ognuno giri ramingo per questo porco mondo con la mano tesa, ed i più ricchi sono proprio i più poveri, facci caso.
Vedrai quante manine hanno, altro che dea kali!”

A questo punto si accende una sigaretta, sbuffa un paio di nuvolette azzurre e continua:
“Dammi considerazione! Dammi amore! Dammi sicurezza! Dammi serenità…dammi, dammi, dammi, sembra mia suocera quando apre bocca!
Queste pretese querule ci assordano, ma abbiamo bisogno di giustificare la cacofonia delle nostre e delle altrui richieste con nomi altisonanti, altrimenti sarebbe troppo squallido.
Ecco allora le parole…eh si le parole, gli araldi della seduzione.
Parole come: Amore (tossisce), Amicizia (fa un gesto vago con la mano), Progresso (mulinella il braccio come un vigile), Dio (indica una macchia di umidità sul soffitto), e tutta la sequela di luoghi comuni che, vigliacco se uno si prende la briga di verificare se siano veri, e dove e a cosa si aggrappino queste gramigne rampicanti”

Passano diversi secondi di silenzio. In televisione scorre l’ultima pubbilicità del deodorante Axe, un uomo sulla spiaggia e preso d’assalto da due schieramenti di donne bellissime che provengono dal mare e dai monti, la sincronicità della cosa mi inquieta.

Visir: “Tante volte mi pare di essere un nano tra nani, tanta è la necessità di tirare a campare, riempire il frigorifero letteralmente e spiritualmente”.

Tony (ridendo): “Visto quanto sei basso mi sembra naturale che ti senti un nano! Seriamente, se vuoi la realtà, è che siamo tutti in fila come alla mensa dei poveri per il proprio piatto di minestra sciapa, ma la fame non passa mai”.

La sigaretta di Tony pende dalle sue labbra, è consumata per metà, ma la cenere non accenna a cadere, sembra incollata al filtro, a volte intorno a lui accadono fatti inspiegabili.

Poi riprende: “Come mai? Forse che nello stomaco teniamo un buchino? Magari non abbiamo uno stomaco, mi viene da pensarlo.
Guarda per esempio gli uomini politici, sono o non sono degli accattoni? Non hanno idee, solo sondaggi, delle banderuole, disperatamente attaccati alla sedia come naufraghi, ma si fanno chiamare nientemeno che “onorevoli”.
Però noi tutti non siamo messi meglio, altroché, se proprio ci fa male guardare la nostra vita osserviamo bene quella del nostro vicino e ce ne accorgeremo”.

Visir: vita da nani?

Tony (sembra non aver sentito): “Quale dignità c’è in un vivere così?
Nessuna. Semplicemente.
L’autosufficienza è libertà, cantava Mina nella canzone Il signor Robinson, e continuava, mezza palma vale due città. Illuminante”.

Una sirena ulula veloce sette piani sotto di noi, Tony si ferma come un lemure di sale, poi il suono si allontana, e ricomincia.

“Ora vorrei, solo per sulfureo divertimento, provare con te a immaginare di essere privo di bisogni, autarchico.
Di un’autarchia perfetta, meravigliosa, conchiusa nel perimetro della nostra pelle.
Come sarebbe la nostra vita? Le nostre (parolone) relazioni? Ancora tutto in piedi?
Oh! Mi pare di capire che diverrebbe molto diversa la storia da quella di ora”.

La voce gli si fa chioccia e si dondola con i palmi aperti vicino alla faccia gonfia, le dita brulicano come zampette:
“Manine, manine quante manine tese”.

Poi con nota greve ed ispirata:
“Poveri noi, che ci danniamo senza sapere che nulla si può aggiungere né si può togliere.
Fatemi ridere, stavolta” (ma invece resta serio, la faccia è una maschera Kabuki)
Scandisce le parole come in un soliloquio: “L’altro e il mondo è solo un’occasione.
E’ bello scoprire che quello che cercavamo era semplicemente riposto in luogo che avevamo scordato, dentro di noi magari, ma per edificare questa unità bisogna avere le mani libere, e allora? Basta non tenderle, non chiediamo più l’elemosina, ma usiamo le nostre mani per fare”.

Visir: Che hai detto?!? “ma usciamo i nostri nani per mare”?!? che vuol dire?!

Tony: ma sei sordo?

Visir: no, è che in piscina mi è entrata dell’acqua nelle orecchie.

Tony: “Ma che te lo dico a fare? Con te finisce sempre così…fammi chiamare quelle due mie amiche slave che almeno ci divertiamo un po’, stasera mi sembri una fetenzia”.

Si “attacca” al cellulare ed esce sul terrazzo, la sigaretta è nel posacenere, esala le ultime nuvole di tabacco bruciato è certo presagio di ciò che è stato e certamente sarà…per tutti.

Il brutto, il buono e il cattivo.



Il concetto di cattiveria come quello di bontà, di bellezza ecc. ecc. appartengono alla morale.
La morale non è un dato oggettivo, ma soggettivo.
Per un talebano e un sefardita non vi potrà mai essere un incontro su questo piano.
Il punto di unione tra gli uomini deve essere oltre questo confine, che è di fatto una prigione.
La morale ha sempre diviso.
Il punto di unione quindi può avvenire solo su dati oggettivi, e di dati oggettivi bisogna parlare, se in qualche modo vogliamo capire la natura di cui siamo fatti.
Non dobbiamo fare mai confusione fra ciò che è soggettivo e temporaneo e ciò che è oggettivo ed eterno.

Sulla natura dell'uomo possiamo dire tutto e il contrario di tutto finché restiamo su un piano concettuale, diversamente se andiamo a vederne gli elementi costitutivi dell'uomo siamo tutti d'accordo, ma soprattutto vi è un incontro e una trasformazione.

Per esercitare un diritto (fossanche fare il bene) bisogna essere liberi, lo ribadisco per i più distratti.
Senza questa condizione non vi è vero bene, ne vero male, ma solo fatti che visti da prospettive diverse possono essere giudicate in maniera diversa.

Le cosiddette persone ordinarie o civili, non si conoscono.
Per conoscersi sono necessarie alcune condizioni che a ben vedere nessuno, o quasi, auspica per se stesso.

La condizione principe è la difficoltà.
La seconda condizione è la solitudine.
La terza è la capacità di pensare correttamente.

La difficoltà non deve essere subita, tipo una disgrazia, (ti investe un camion e resti in ospedale per tre mesi, oppure perdo tutto il mio denaro e devo ricominciare da zero).
La difficoltà deve essere scelta liberamente.
Oggettivamente, ad un esame esteriore non cambia nulla, ma interiormente la differenza è grandissima.
Il dolore di una colica e quello del parto sono molto simili, ma lo spirito con cui si affrontano questi due momenti sono molto diversi, e la trasformazione che opera in noi una libera sofferenza va di pari passo con la nostra profondità (qualsiasi madre che ha fatto esperienza di questo mi capirà).

La seconda condizione, come dicevo è la solitudine.
Fa ancora più paura e la si rifugge peggio della scabbia.
Vi sono solo tre modi per essere soli realmente a questo mondo.
Sul campo di battaglia, oppure quando la propria vita è realmente in pericolo.
In prigione.
In meditazione.
Altri modi non c'è ne.

La terza condizione, cioè il pensare correttamente, è ancora più rara e ardua.
Tutti pensano di saper pensare in maniera logica e giusta, ma in realtà non è così.
Per saper pensare correttamente la mente DEVE estirpare da se stessa come un cancro maligno tutti quei processi inutili che non corrispondono a dati reali e soprattutto attuali.
Quindi la capacità di distinguere ciò che è da ciò che appare ma anche da cosa è solo immaginato e ciò che è realmente vissuto. Aprire gli occhi al reale non è mai facile.
Un buon dato di realtà e un ottimo punto di partenza è il tempo presente, se una cosa è accaduta non esiste, se forse accadrà, non esiste lo stesso.
Per realizzare un corretto pensare si utilizzano delle tecniche di respirazione speciali, in quanto mente e pensiero e respiro sono intimamente legati.

Realizzati questi presupposti e grazie a molti sforzi e sofferenze volontarie è possibile cominciare a conoscersi e auto-determinarsi, tutto il resto sono chiacchiere per far prendere aria i denti.


Chi non ha vissuto queste esperienze con totale coinvolgimento non può dire di conoscersi, se non parzialmente, quindi non può dire nulla a proposito del bene o del male.

Fine della storia.

domenica 13 aprile 2008

Le vicende di Zerbinetor (ovvero racconto parziale della vita del bipede palmario su questo pianeta)

Perdita di I-Denti-tà

Parte I - I sogni sono presagi-

Zerbinetor, il solo evocare questo nome gli avrebbe provocato un brivido, se solo fosse stato sveglio, ma ora era al riparo da qualunque rimorso.

La testa appoggiata soavemente sul cuscino candido come neve di febbraio, era in perfetto abbinamento cromatico con il grigio topo dei suoi capelli, irsuti e scarmigliati,

Un leggiadro sorriso accompagnava il respiro rumoroso e baritonale che ricordava un mantice di una fucina medievale.
La stanza era avvolta dal silenzio, un silenzio quasi liquido.
Non solo riposava con una leggera stalattite di saliva all’angolo della bocca, irta di denti numerati, ma sognava.
Fatto inconsueto per lui, o meglio lui sognava sempre, ma mai quando dormiva.

Sognava di lei, l’ineffabile dea malese, che tanto piacere gli regalava nei rari momenti di quiete e ancor più sapeva dispensargli sofferenza negli abituali momenti di furia, per altro ampiamente giustificata ( a detta di lei).
Lui sapeva nel profondo del suo animo che ella aveva su di lui un ascendente ed un potere irresistibile e inconfessabile, tanto da avergli fatto impersonare quel simulacro di uomo che non nominava mai a se stesso: Zerbinetor appunto.

Tali pensieri indistinti non offuscavano affatto la dolcezza del suo sonno che come una lontana bruma mattutina accompagnava il suo sogno e in maniera discreta faceva da contorno al suo viaggio come una musica strana accompagna un film surreale.

Eccolo, nel suo spettacolo onirico, che passeggia seminudo in un campo di grano, un pareo gli cinge i fianchi ancora snelli come un “ciripà” sovradimensionato.
“Sono un Gandhi, un Gandhi alla moda” commenta tra se nel sogno e sottolinea la sua soddisfazione nella realtà con un peto sibilante sotto il piumino caldo ed ora, ancora più caldo.

All’orizzonte, di questo paesaggio morfetico, ma non troppo lontano da lui, appare la sua divinità femminile in tutta la sua orientale bellezza.
Indossa un vestito di foggia cinese in seta marrone “testa di moro” con delicati ricami d’oro che le disegna ancor meglio il profilo aggraziato. I piedi minuti calzano delle babbucce di raso nero con un impercettibile tacco che slancia questa venere bonsai.
Il viso di lei è in ombra, mentre il sole, forte del mezzodì, le fa corona sui capelli corvini che accennano dei riflessi blu cobalto.
Il nostro eroe in un moto subitaneo avverte un sussulto erettile che lo fa scattare come un crotalo alla vista di un topo(a), e gli ricorda che di fronte a tanta bellezza, egli non è che uno schiavo.

Lui, in questo frangente sfiora con la mano le spighe di grano, novello Russel Crowe in Gladiatore, e finalmente la raggiunge.

Come avviene spesso nei sogni, inaspettatamente la situazione cambia, il viso di lei si incupisce e la frase che il nostro amico ode è piena di rimprovero, stridente rispetto al bucolico panorama: “Domani è il mio compleanno” dice lei “e tu dove sarai?”.
Il nostro Gandhi-Prada trasalisce sgomento nella constatazione, ahimè, che la situazione gli è sfuggita di mano ed ancor più è sfuggita alla sua memoria che fa acqua peggio di una sentina di una nave in procinto di affondare.

Vorrebbe giustificarsi, ma non fa a tempo, un frastuono pauroso lo sveglia di sobbalzo e gli fa morire in bocca le poche frasi che ora va a balbettare nel suo traumatico risveglio: Amore…mah, mah, ora arrivo, carta di credito e cialis (parole apparentemente senza senso).
Il boato non è opera di un seguace di Al Qaeda immolatosi con il suo carico di bombe, ma è iniziativa del suo “triolesco” cugino, è un’eruzione di musica “trance”.
Ormai da quando abitano nella stessa casa loro sono sempre più gemelli separati alla nascita. Tendono ad assomigliarsi nella forma, ma la distanza dei cuori appare siderale, non è così per i timpani del nostro conte di Massa, sommerso dalla cacofonia assordante.
I due abitualmente si sfidano come un Giano bifronte che voglia mordere il volto che gli si cela alle spalle, ma naturalmente è impossibile.
Il cugino colpisce alla distanza come un cecchino bolscevico nella battaglia di Stalingrado, con attacchi sonori subitanei ed inaspettati anche nel cuore della notte, il nostro beniamino risponde con compassata signorilità mangiando di nascosto le merendine preferite dell’antagonista pensando così di essere pari.
Ai turbinii della jacuzzi del cugino risponde con lo spazzolino da denti sui suoi nuovi incisivi, una lotta impari che però affronta con stoica determinazione come Leonida alle Termopili.

La curiosa abitudine del consanguineo di stordire i vicini (il più prossimo è a 4 km) e soprattutto lui, con onde sonore partorite dal suo stereo a tutto volume, in verità più simile ad uno “shock device” Klingon che ad un vero e proprio riproduttore musicale, ha accelerato l’inevitabile cesura che porterà questi gemelli siamesi presto ad una dolorosa operazione di separazione.
Questa è la sentenza che appare evidente anche ai frequentatori più distratti della loro villa Balearia.

Tornato in sé, realizza con la velocità di un bradipo sedato che deve partire.
Il suo volo da Ibiza è per Milano e poi per Parigi (residenza della Perla di Labuan).
Scorre mentalmente la sua agenda (inesistente) che scandisce come il ruolino di servizio di un corpo di guardia gli impegni incalzanti.

Denti e pelo, pelo e denti, pensa tra sé, chi ha il pane non ha i denti, chi ha il pelo non ha la voglia, ma chi ha voglia non ha il pelo, alla fine tutto si realizza nel trascendere questa dicotomia odonto-ginecologica della vita, chiosa così parlando a se stesso con questo profondo pensiero filosofico.
“Avrò entrambi” urla dalla sua stanzetta e il cugino dalla “suite” accanto risponde fraintendendo (è quasi sordo): “No, le tue ultime mutande pulite le ho prese io ieri sera, sai avevo un puntello…capirai è stata una nottata!”.
Il nostro eroe sospira come un fachiro trafitto da un letto di chiodi e sentenzia: “Partirò senza”.

La tappa lombarda si rende necessaria per l’ampliamento della sua capacità dentaria che presto raggiungerà la quota di 57 denti installati e perfettamente funzionanti.
Sostenuti dalle famose viti numerate al titanio molibdeno che fanno vanto nelle sue discussioni più appassionate, egli le mostra, sempre più spesso, agli ospiti e agli occasionali interlocutori con orgoglio quasi paterno.
Questa pervicace abitudine non lascia gli astanti mai indifferenti.
“Potrò masticare ogni cosa, anche il mio fegato se lo vorrò”, intona un eco nella sua mente.

Il suo piano prevede l’arrivo ad Orly in calcolato ritardo per la festa della leggiadra pulzella, alzando così il desiderio di Lei, pensa compiaciuto, mentre si osserva allo specchio, ma la sua immagine stranamente non risponde al suo sorriso amichevole.

Gli dei mi amano ancora?
Erompe questa domanda nel suo cervello, ma non ode che uno scroscio di sciacquone dal gabinetto del malefico cugino come risposta, mah!






Continua...

sabato 12 aprile 2008

Parte II Partire è un pò soffrire




Come un vento freddo e inaspettato è foriero dell’inverno, così il nostro uomo scese dal taxi ancora in corsa di fronte all’ingresso delle partenze internazionali dell’aeroporto di Ibiza.

La velocità con cui abbandonava il veicolo pubblico era direttamente proporzionale al suo ritardo, praticamente un lampo nella notte.
Con consumata agilità che faceva intuire un passato recente di stunt-man in qualche film Western riuscì a guadagnare quasi quattro secondi su un normale corpo che si muove alla massima velocità consentita dalle articolazioni, praticamente un miracolo della bio-meccanica
Portava seco il suo immancabile notebook, in sostanza il suo talismano da cui non si separava mai, pena l’angoscia, ed una valigia semiaperta con alcuni effetti personali ed i suoi vestiti (tutti griffati) che parevano chiedere a gran voce solo una stiratura per essere perfetti. Alcune gocce di pioggia punteggiavano le spalle del suo inappuntabile cappotto blu di cachemire con un solo vistoso rammendo sulla tasca destra.
In poche parole rappresentava un’icona.

Il taxista notò che una scarpa sinistra era rimasta sul sedile posteriore dell’auto, certamente fuoriuscita dalla borsa del nostro beniamino, che seminava come Pollicino i suoi effetti personali ad una distanza variabile fra i sette e gli undici metri, entrambi numeri primi, ma notò altresì che non vi era più nessuno cui restituirla.
Il suo passeggero agile come un acrobata bulgaro era già sparito fra la folla frettolosa.
Il traffico caotico dietro l’autista sollecitava con i clacson di lasciar perdere, e così fece.

Dopo le operazioni di rito che precedono la partenza di un volo, restava sempre poco o niente da fare.

Così lui decise, con pigrizia felina, di utilizzare la connessione gratuita dell’aeroporto per farsi i fatti suoi. Nulla al mondo gli dava un brivido di piacere come connettersi ad internet gratis. Mollemente adagiato su un divanetto rosso, con il suo cappotto abbandonato vicino sulla spalliera del sedile accanto, sprofondò come in un limbo nel suo mondo digitale gratuito, cullato soavemente dal ronzio del computer e percependo il caldo tepore dei circuiti elettronici sulle sue cosce slanciate.

Dopo un tempo che parve breve solo a lui il suo occhio rapace colse l’orario che scandiva la sua partenza.
Similmente ad un maratoneta che si slancia oltre il via dopo il colpo di pistola, guadagnò l’ingresso al “check in” superando quasi tutti e si inabissò nel cuore stesso dello spazioporto.

Si sentiva stranamente leggero, scevro da quegli orpelli che di solito fanno da contorno alla vita, un inspiegabile senso di libertà lo sfiorò come un bacio per abbandonarlo, però quasi subito, non si accorse ebbro di questa fugace sensazione che l’alimentatore del suo notebook aveva deciso di staccarsi dal suo computer e riposare per sempre sul pavimento.

Realizzò solo, quando ormai era il suo turno di esibire il biglietto convalidato che non aveva più il cappotto e con esso anche il suo contenuto, ovvero: tutti i suoi documenti, i soldi, le carte di credito, molti dei suoi cellulari e una confezione di “verrucid” scaduta di validità cui teneva moltissimo.
Un’espressione quasi di Califano stupore si dipinse sul suo volto ormai solcato dalle rughe dell’inquietudine.
“Cazzo mi hanno fregato il cappotto” fu il suo laconico commento ad un evento che avrebbe gettato chiunque nello scoramento più totale, ma a lui parve solo un piccolo fastidio.

Inutili furono i suoi sorrisi (con quella apoteosi di denti), le minacce, le adulazioni.
Il personale del aeroporto era irremovibile: non poteva partire.
Come Ulisse prigioniero della maga Circe, l’isola lo reclamava ed ancor peggio esigeva un riscatto che era già stato pagato, anzi era già stato vilmente sottratto.

In un nanosecondo escogitò un piano alternativo. “Userò la burocrazia contro se stessa” proferì con voce chioccia, “Semplicemente geniale” fu il suo modesto apprezzamento a se stesso.
Sun- Tzu che scrisse. “L’arte della Guerra” (insuperato manuale di strategia) avrebbe applaudito ad un simile allievo.

Con le sue falcate lunghe come quelle di un gigante raggiunse il posto di Polizia e li tesse il primo filo della sua diabolica ragnatela, ma stranamente una sua scarpa, già da molto tempo slacciata, decise di allontanarsi dal suo piede e di stabilirsi in via definitiva in un angolo della sala fumatori. Forse per far compagnia all’alimentatore del suo “tamagochi” di silicio? Nemmeno la Sibilla Cumana avrebbe potuto rispondere ad una simile domanda.
Semplicemente accadde.

La sua usuale plastica deambulazione assunse così una curiosa andatura sinusoidale. Probabilmente causata dal dislivello venutosi a creare, ma egli parve non accorgesene. Anzi gli donava, questo suo incedere lievemente claudicante, un certo non so ché di molto sexy, un po’ alla John Wayne in Sfida all’Ok Corall, se si sorvola forse sul calzino liso sul calcagno che lasciava intravedere la pelle rosea che sfavillava come un opale fra le rocce.

Dopo un’attesa lunga come la colonna dei soldati italiani di ritorno dalla campagna di Russia, fu ricevuto da un sottufficiale della “Guardia Civil” che assomigliava in maniera impressionante al sergente Garcia della celebre serie Tv Zorro (quella degli anni 70’ per intenderci).

Grasso e sudato, dall’incipiente calvizie guardava con sospetto questo curioso passeggero che, in uno spagnolo quasi perfetto, enumerava le circostanze sfortunate che lo vedevano incapace di partire verso la patria natia.
Il poliziotto, annoiato dalla routine delle sue giornate sempre uguali, premette con il suo dito grasso il tasto “enter” del suo terminale per identificare questo curioso individuo e verificare il suo racconto sospetto, ma che aveva il profumo della leggenda.

Grande fu la sua sorpresa per gli eventi inaspettati che seguirono.
Una lista di centododici fogli dattiloscritti e fitti come un alveare enumerarono, in un tempo che parve infinito, tutte le cose perse nella vita del nostro eroe.
La prima risultava essere una tessera della Prefettura intestata alla sua persona già all’età di tre anni, questo dato fece un’ottima impressione sul funzionario.
La stampa fu interrotta due volte per la mancanza di carta e si racconta che la stessa stampante continuò a trascrivere anche nei giorni seguenti i documenti smarriti negli anni di beata gioventù del nostro anfitrione, essi erano continuamente aggiornati dal database della centrale.

Una breve digressione su un fatto curioso che occorse a questa stampante, come raccontato in un trafiletto di terza pagina nel giornale locale spagnolo “La Blatta”.
Il congegno, come sì sul dire, continuò a scrivere “a singhiozzo”in una sorta di rigurgito informatico inspiegabile, proseguendo a stampare l’elenco apparentemente infinito dei documenti smarriti dal nostro viaggiatore.
Inutile fu togliere la spina di alimentazione, la stampa continuava anche di notte.

Alla fine dopo otto giorni di agonia solo i cinque colpi di revolver esplosi dal caporale Rejes misero fine alla sua onorata carriera di stampante al servizio del governo spagnolo.


Tralasciando le notizie di cronaca e tornando al presente, Il “sergente Garcia” restò semplicemente a bocca aperta, mai nei molti anni del suo servizio aveva immaginato che un cittadino potesse perdere così tanti documenti.
Il nostro beniamino approfittò immediatamente della bocca spalancata del malcapitato agente di polizia per una veloce visita odontoiatrica e già che c’era, una breve lezione di stomatologia forense con sottotitoli in inglese.
Tenne la conferenza davanti ad un piccolo auditorio di guardie giunte a curiosare per il rumore incredibile della stampante rigurgitante di fogli le quali rimasero veramente entusiaste dell’ammaestramento improvvisato esso, a detta di molti, fu: “Semplicemente perfetto”.

L’apoteosi fu raggiunta nell’esposizione dei molari e premolari del nostro amico precisamente impiantati e numerati, uno show equestre che, senza tema di smentita, poteva essere definito il suo cavallo di battaglia.
L’ovazione dei poliziotti fu unanime e il premio di tanta capacità oratoria fu una carta provvisoria di imbarco.

Mancava meno di una manciata di minuti alla partenza dell’aeromobile.

Strappata letteralmente di mano al graduato la carta per la libertà, raggiunse come un naufrago stremato l’imbarco, curiosamente nel tragitto venero eiettate dal legittimo proprietario (se medesimo) come moduli esauriti di uno Shuttle, nell’ordine: una camicia di popeline nell’ufficio di polizia, una cintura Fendi su una telecamera di controllo, un maglione in cachemire impigliatosi in una pianta ornamentale (forse un potus) vicino al bar.

Giunto finalmente all’imbarco indossava solo un paio di jeans una scarpa, due calze (di cui una ricorderete lisa sul calcagno), una maglietta bianca a maniche lunghe, ma ghermiva come un mediano di mischia degli All Black nella finale di rugby il suo pc portatile (ormai quasi scarico) e un curioso sacchetto arancio gonfiabile (ma bucato).contenente l’ultimo telefono cellulare superstite.
“Tutto sommato non va affatto male” disse una volta a bordo e sedutosi nel posto numero 15 vicino al finestrino, mentre un’indaffarata hostess si domandava chi potesse aver perso una calza consunta nel corridoio dell’aereo.
Nello stesso istante pochi metri sotto una valigia semiaperta cadeva dall’elevatore di carico, rinunciando così per sempre a visitare la stiva dell’aereo.
Giunta al suolo sparse le sue spore griffate lungo tutta la pista oscurata dalle prime ombre della sera e lucida di pioggia leggera.

Il rombo della partenza si confuse con una sua elefantiaca flatulenza liberatoria (ma poco odorosa) che precedette di poco appena il suo sonno. Era completamente esausto. Tutto avvenne sotto gli occhi allibiti del suo vicino, un anziano viaggiatore Azbeko che mai in vita sua aveva udito una tale assonanza sincretica fra un motore a reazione e uno sfintere umano.

Continua….

venerdì 11 aprile 2008

Parte III L'Inizio dell'Ombra










Simile alla mola di un fabbro su di un pezzo di ferro grezzo le ruote dell’aereo scalfirono la pista d’atterraggio, nera come una lapide, sollevando intermittenti nuvole grigiastre.

I suoi occhi si aprirono di scatto nell’istante stesso in cui il velivolo tocco il suolo natio.

Egli era perfettamente riposato e di ottimo umore, diversamente i suoi vicini invece avevano un colorito cinereo e versavano nello scoramento totale.
Loro, avevano dovuto subire diversi suoi attacchi gassosi (simili all’antrace) prodotti da quel meraviglioso laboratorio chimico che era divenuto negli anni il suo intestino, ma purtroppo a causa del Camembert deteriorato che aveva mangiato prima di partire il “laboratorio” non produceva le solite scorie gassose innocue.
A nulla valsero le proteste e le apnee prolungate di questo manipolo di eroi presi d’assedio, solo le maschere ad ossigeno calate dall’alto grazie al “May day” attivato da uno Stuart di buon cuore permisero a quei poveri passeggeri di arrivare a casa.

Si mostravano, però ormai allo stremo, in quanto le bombole erano quasi completamente esaurite.
Il passeggero Azbeko aveva anche cercato di coalizzare la resistenza con una sortita contro il venefico autore di questa atmosfera modificata, ma nel momento stesso dell’attacco, preparato con cura ed armati i compagni con coltelli di plastica e pezzi di ala di pollo avanzata era arrivato l’annuncio della discesa, vanificando il loro colpo di mano. Solo l’apertura dei portelli li salvò da una fine orribile.
Benignamente il fato concesse a loro una nuova possibilità di esistenza.

Incurante di tutto, il nostro claudicante beniamino si diresse verso la soglia dell’aeroporto per dirigersi alla “navetta” di collegamento che lo avrebbe portato nel cuore tentacolare della metropoli lombarda.
Inspiegabilmente giunto quasi all’uscita, alcuni cani poliziotto abbaiarono furiosamente al suo indirizzo, ma bastò una sua semplice occhiata per far cambiare il loro bailamme in un guaito sommesso, era una capacità (unica nel suo genere) che aveva sviluppato nel suo precedente lavoro di import-export e che più volte lo aveva liberato dalle tediose operazioni di controllo alle frontiere.

Finalmente giunse all’aperto. L’autobus di linea muggiva come un Bufalo Cafro nel fango, nella attesa di aggiungere alla sua soma i numerosi passeggeri che cominciavano a salire nonostante l’ora tarda.
Li avrebbe poi trasportati nei vari quartieri di Milano che formavano visti dall’alto dei quadrilateri contigui tra loro come risaie vietnamite.

La notte era senza stelle e senza luna come si dice siano le notti ove si compiono i Sabba.

I passeggeri che si incolonnavano alla volta di questo autobus erano stranamente tutti vestiti di nero, i visi erano pallidissimi ed emaciati se si escludeva il rossore delle cornee degli occhi, occhi che non promettevano nulla di buono, occhi da predatore.
Anche il conducente era affatto stano. Una vistosa gobba campeggiava dietro la sua spalla destra e lo faceva muovere in maniera eccessiva per verificare, con uno sguardo strabico, la disponibilità di posti a sedere alle sue spalle. Ad ogni sbirciata maldestra proferiva la stessa battuta “Lupo ululì castello ululà” e tutti ridevano, inspiegabilmente.
Fra gli ultimi a salire ci fu lui, ma trovo posto comodamente nel centro dell’autobus.

All’interno un odore di incenso ammuffito si attaccò ai polmoni e alle nari comunicanti del nostro anfitrione che però rimase apparentemente immune al senso di soffoco.
La nera compagine dei passeggeri era stata perspicacemente valutata dal nostro viaggiatore come “ Una compagnia teatrale gotica di passaggio”.
Questo perché I suoi pensieri vagavano altrove.

Una volta accomodatisi egli già pensava alla sua Dea Malese e in quel istante una vistosa protuberanza si gonfiò come un “air bag” che esplodeva dopo un tamponamento, deformando i jeans ora insufficienti a contenere tanta mascolinità.
La cosa non era sfuggita allo sguardo attento e lievemente osceno di una giovane ragazza punk seduta nell’altra corsia di sedili che ne era come ipnotizzata.
Questa biondina con capelli corti e irti come aculei indossava un collare di borchie che accarezzava il suo collo diafano. Vestiva una minigonna di tessuto scozzese bianco e nero che le copriva appena le cosce stranamente ben tornite rispetto al corpo magro inguainato in un giubbotto di pelle. Calzava due piccoli anfibi che facevano intendere piedi perfetti.
Il viso regolare e le labbra vermiglie aperte in un’espressione di stupore facevano da contorno ad un nero mascara che le disegnava gli occhi ancora più neri.
Lei fece in modo, quasi ingenuamente, che l’occhio indugiasse su questa pulsante mostruosità, ma badando che la cosa fosse notata da lui (la zoccolina) e, in maniera impercettibile, lasciò trasparire cosa desiderasse aggiungere a se stessa in quel momento.
Solo una dilatazione della pupilla in perfetto sincrono con il guizzare della sua lingua appuntita fra i denti, lunghi e bianchissimi, sottolineò il suo invito quanto mai esplicito.

“L’affare si ingrossava” come si usa dire a Wall Street.

La convocazione però fu prontamente disattesa come lasciò intendere un sospiro mal celato della giovane che segui allo sguardo di lui che si posava ostentatamente altrove, egli resisteva come novello Ulisse alle prese con il richiamo di questa Sirena Punk.
“Fra le tante virtù mi doveva capitare la più indecente?” Si domandò il nostro Lombricone fra se, “Ma io me la tengo, ben contento…” sentenziò soddisfatto nella sua mente e chiosando con un’espressione dialettale massese a mezza voce disse:” Gabisci!”.

Ignorando così definitivamente la procace giovinetta guardò oltre il finestrino e se possibile oltre se stesso.
I suoi pensieri furono nuovamente interrotti dalla partenza del mezzo pubblico che già sfrecciava verso la città e fendeva il buio rapido come una coltellata in un vicolo.

Ebbe modo di notare (distrattamente) che le tendine di questo autobus erano di raso nero, mentre i sedili, di un viola quaresimale, si abbinavano molto bene con la moquette grigio scuro che copriva i pannelli laterali e il pavimento,
Un vistoso crocifisso rovesciato campeggiava appena sopra l’uscita centrale.
Mah!? Fu il suo commento deciso.

La musica che era diffusa dai piccoli ma potenti altoparlanti sistemati sopra ogni posto era Metal molto duro, con testi incomprensibili probabilmente di una lingua primordiale forse foggiano, cantati con voce baritonale da Leone di Lernia.
Solo il suo orecchio addestrato a carpire suoni interessanti (come una particolare suoneria di cellulare) all’interno di una cacofonia assordante gli fecero decriptare alcune frasi.
La sua era un’abilità che lo aveva salvato molte volte dall’isolamento in casa di suo cugino (il sordo malefico) consentendogli di rispondere almeno al telefono.
Il testo della canzone diffusa, di sapore oscuro, era un requiem, ma le parole erano pronunciate al contrario.
Sollevò, come il signor Spok della serie Star Trek, un sopracciglio di ineffabile constatazione.
La velocità dell’autobus aumentava proporzionalmente al volume di questa preghiera satanica in una folle corsa verso il mistero, forse verso gli inferi.
“Ummmm?” solo questa annotazione usci dalle sue fauci numerate.

Il suo respiro rimase, però calmo e il suo animo quieto come quello di Attilio Regolo di fronte ad una ferramenta.
La sua mano però sfiorò i genitali in un attimo di debolezza, in un gesto apotropaico.

Giunti in prossimità di Piazza Croce avvenne quanto sto per raccontarvi, ma al solo descriverlo provo un brivido di sudore freddo sulla fronte e in altre parti del corpo che non nomino per educazione.

Continua…

Parte IV L'Araldo del Male








Prima è bene che ci si prepari al peggio conoscendo gli antefatti.

Il nostro mentore, viveva un momento di confusione.
Le neuro-tossine contenute nella porzione di Camembert deteriorato che aveva ingurgitato prima del viaggio cominciavano a procurargli un effetto sedativo ed a sprazzi allucinogeno.
Chiuse per qualche istante gli occhi in cerca di lucidità, ma dovette immediatamente riaprirli. Un passeggero dell’autobus aveva deciso di accomodarsi vicino a lui.

“Posso?” chiese questo uomo di bel aspetto e dai capelli neri.
Il sorriso lasciava intravedere un diamante falso incastonato nell’incisivo sinistro.
Dicendo così si accomodò senza attendere il suo consenso.
Una rapida scansione fatta dal nostro “matre d’elegance” confermò che anche questo personaggio era completamente vestito di nero, ma fatto originale, indossava sopra l’abito un curioso accappatoio azzurro svolazzante e senza cintura.

Come per risposta al suo esame autoptico questi si presentò stingendogli la destra.
Al contatto questa mano risultò essere caldissima e sudata oltremodo.
“Mi chiamo TanKredi” disse con voce lievemente nasale “Sono il truccatore, parrucchiere e fotografo di questa allegra combriccola” e accompagnò la sua presentazione mostrando il resto dei passeggeri con il palmo aperto rivolto al corridoio come a sostenere un inesistente vassoio.
Tutti gli occupanti si voltarono all’unisono mostrando dei canini insolitamente sviluppati e aguzzi e piegando appena la testa con un ringhio di saluto.
Lesto come una zingara che sfila un portafoglio il nuovo vicino estrasse dalla tasca del suo accappatoio una macchina fotografica digitale e scatto alcune istantanee al volto del nostro campione, ma con un flash accecante.

“Già mi sta sul cazzo” pensò il nostro sommo intenditore a causa di un simile comportamento, ma da buon viaggiatore lasciò aperto uno spiraglio di comprensione nei confronti di questo adrenalinico personaggio.

TanKredi, nello spazio di dieci minuti (che parvero interminabili) con logorroica ed instancabile rapidità raccontò tutta la sua vita dallo stato neo-natale sino all’età adulta e indugiò almeno tre volte sull’evento topico della sua esistenza, ovvero la storia del suo grande amore ora (ahilui) non più corrisposto.
Questa vicenda, tristissima, lo aveva addirittura portato fin nel cuore dei Carpazi in quella terra che una volta era chiamata Transilvania, nel disperato quanto inutile tentativo di riconquistare la sua bella gitana, in quelle terre desolate si era compiuta la sua trasmutazione di cui, però non fece che un lieve accenno.
Questo artista dell’immagine si intestardì poi, per tagliare i capelli al nostro beniamino seduta stante come “forma di benvenuto” cercò di giustificarsi.
L’offerta venne cortesemente, ma decisamente rifiutata.

Crucciato in volto, il visagista cominciò ad alzare sempre più la voce nel proseguire la narrazione della sua storia sino quasi a gridare.
Inspiegabilmente indirizzò il soggetto di tanto odio, che divenne una vera e propria filippica iraconda, contro una contravvenzione ingiusta che gli era stata inflitta dalla polizia municipale nel lontano 1983. Da allora, ripudiata l’autovettura, usava solo la bicicletta per muoversi in tutta Europa, isole comprese.
Casualmente questa di stanotte era la prima trasferta su un mezzo pubblico dopo quasi 25 anni di instancabile pedalare. Una “coincidenza” troppo importante per non essere documentata con almeno 6.000 scatti fotografici.

Raccontò ormai quasi senza voce e senza domandarsi se poteva in qualche modo essere di interesse, le sue ultime difficoltà lavorative.
A causa della fatica di raggiungere i suoi clienti pedalando a volte anche per centinaia di chilometri, si addormentava sempre profondamente nei vari studi una volta che, stremato vi giungeva.
Ignorando così i clienti per cui aveva affrontato prestazioni degne di Pantani.
Si risvegliava poi verso mezzanotte senza più il suo cliente, ma con l’impellente bisogno di tagliare i capelli o almeno sfoltirli a chiunque purché gli si avvicinasse a distanza di forbice.
La voglia era così prepotente che lo spingeva a uscire nel cuore della notte a caccia di capelloni.
Se né aveva occasione narcotizzava una vittima solitaria e la trascinava un vicolo buio dove faceva scempio della sua capigliatura. Poi, ebbro di tanta perversione tricologia, ripartiva sgommando sulla sua mountain bike scassata.
Questa sua “malattia” ammise con mestizia consumata, lo aveva reso meno occupato rispetto ai tempi in cui usava l’automobile. Ormai poteva accontentare solo i clienti sofferenti di insonnia e sordi alle sue lamentele querule.

La sua vita era però ormai finalmente giunta ad una svolta, disse ancora. La battaglia contro la contravvenzione ingiusta era agli sgoccioli, aggiunse illuminandosi solo un attimo in volto, i vari ricorsi presentati anche alla corte Europea di Strasburgo erano in fase di definizione e forse fra sei o sette anni la giustizia avrebbe trionfato, e tutto sarebbe tornato “normale”.
L’originale psiche di questo artista in accappatoio determinarono nel nostro eroe alcune considerazioni non proprio positive e un leggero sentore di inquietudine.
Sommerso dagli scatti fotografici continui di questo cilclista – parrucchiere, il quale non smetteva di fotografarlo neanche durante le brevi pause in cui taceva per respirare, il nostro divo si chiuse in un silenzio compunto e si determinò in lui la volontà che il viaggio finisse immediatamente, ma così non fu.

Questo supplizio terminò solo nell’istante in cui, con uno stridere dei freni, l’autobus si fermò proprio al centro di Piazza Croce.
La piazza era completamente vuota se si escludono le due station wagon funebri messe di traverso e poste a barriera alle vie adducenti alla piazza stessa, vie che formavano appunto una croce da cui la piazza prendeva il nome.

Le porte pneumatiche dell’autobus si aprirono con uno sbuffo e i passeggeri come obbedendo ad un ordine cominciarono a scendere senza fiatare. Si potevano ancora distinguere nella folla alcuni bagliori di flash che davano la posizione del fotografo TanKredi, come una boa luminosa in un mare agitato di pece.
Finalmente libero egli poté riposare.
Gli sarebbero bastati solo pochi secondi, forse un minuto, meglio un paio di ore.
Non fece nemmeno in tempo ad assaporare il tepore del sonno che saliva lungo le gambe sino a coprirlo come un morbido plaid che fu ridestato da un tocco sulla spalla.

Una figura onirica avvolta nella nebbia lo guardava con un sorriso pastorale. Era un frate, un domenicano come notò dall’abito talare bianco e nero. Un uomo giovane, ma con il viso maturo e il cranio completamente rasato che rendeva la tonsura inutile. Il naso importante separava gli occhi intelligenti ed insolitamente irrequieti.

“Che cazzo vuoi anche tu?” proferì con la sua consueta eleganza e pazienza.
Il domenicano sembrò non curarsi dell’approccio non molto urbano e disse: “Fratello, ho poco tempo per metterti in guardia dagli eventi che presto si paleseranno al tuo cospetto”
“Ma come parla questo qui? E soprattutto chi è?” pensò il nostro trasvolatore ormai completamente ottenebrato dalle tossine casearie.
Come per rispondere a questa domanda il religioso continuò: “Il mio nome è Elia, frate Elia di Paullo, ma molti mi conoscono come il “profeta errante di Pantigliate”. Giungo da molto lontano per adempiere il presagio che mi annunciava la venuta di un predestinato. Questo Eletto è chiamato ad una terribile lotta contro il principe delle anime dannate…E questo uomo sei tuuuuuuuu”.
“Minchia!” (antica parola aramaica che significa stupore) disse il nostro prescelto.

“Ecco il mio avvertimento” continuò l’uomo di Chiesa e così dicendo con fulgore parve ergersi nel corridoio dell’autobus ormai completamente sgombro.
Le frasi che seguirono e dal sapor oscuro furono proferite dal sacerdote in tono ieratico con la stessa voce di Vittorio Gasman.
“Mondo sarà chi monderà lo mondo immondo” e subito dopo aggiunse “Dio lo vuole!” ed ancora “Tutto è polvere”.
“Questo doveva essere la presentazione” pensò il nostro adamantino spettatore.
Prosegui poi il sacerdote con voce tonante, scandendo le parole quasi con concitazione e con un leggero accento tedesco che prima il nostro Conte di Massa non aveva notato.

“Diffita te Tankreti anima necra, ma ankora più preparati a compattere per tua fita, und affronteprai reichfurer ti tenepra che fuole difentare patrone ti monto” tacque per qualche secondo come ad accertarsi che la cosa fosse stata ben capita.

Riprese quindi con occhi di brace, ma l’accento era inaspettatamente cambiato in russo, degli Urali, avrebbe detto il nostro prode, esperto glottologo.
“Saraj chiamatu a incontra il no muorto e distruggere lui con astuzia e fuorza… molto Karasciò”.

Era sempre più terrorizzante la premonizione e questo vaticinio si concluse finalmente accompagnato da una forte cadenza francese (forse della Marna): “Je lasc a tuà un petite choise per salvar le tuo cul rosé”.
Dopo questa babele di lingue il nostro intossicato paziente non capiva più niente. La testa gli girava come una giostra. Chiuse gli occhi nella attesa che l’eco delle parole del pio pellegrino smettessero di risuonargli nella testa.
Ridestatosi si accorse che frate Elia era scomparso e solo uno strano oggetto riposava sul sedile al suo fianco. Ciò che aveva visto ed udito forse non era stato altro che un sogno? Mistero si aggiungeva all’ignoto come buio all’oscurità.

Raccolse la reliquia con mano delicata e la ripose in tasca, ma subito la sua attenzione fu catturata da una musica tribale che proveniva dalla piazza.
“Finalmente si fa fiesta” pensò, e scese dall’autobus per vedere cosa mai stesse capitando intorno.




Continua…

Parte V Tragico Samba













Le percussioni diffondevano un ritmo selvaggio e irrefrenabile.
Le fiamme sorgevano direttamente dall’asfalto e guizzavano al ritmo sincopato della musica.
Il disegno che era stato tracciato dalla benzina versata a terra e poi incendiata era un pentacolo.
Intorno a questo disegno satanico e fiammeggiante, grande forse sei metri di diametro, le schiere dei neri passeggeri si muovevano in una danza macabra, in una sorta di “rave dei dannati”.
L’aria era satura degli umori di questa umanità perversa mista all’odore acre del fumo.
II più scatenato fra tutti pareva essere quel “anima necra” di Tankeredi con il suo accappatoio azzurro svolazzante, sembrava un cavallo imbizzarrito, solo ogni tanto ritrovava la lucidità e sfoltiva un ciuffo, sistemava una basetta, ma era solo un attimo poi il suo ballo delirante riprendeva.

Tra i partecipanti vi erano alcune procaci donne (compresa la biondina) quasi completamente nude, le quali si concedevano carnalmente nei posti e nei modi più disparati a questi diavoli, a questi “teatranti gotici” come li definiva il nostro uomo.
L’orgia era quasi al suo climax.
In modo bizzarro il Tanckredi inzuppava il suo dito medio nelle intimità femminee di tutte le partecipanti a questa ammucchiata e poi, con una mossa che il nostro beniamino definì meno che meno “originale”, le metteva sotto il naso dei suoi “compagni di merenda” come una sorta di sommelier osceno.
Cercò di fare la stessa cosa con il nostro anfitrione, ma uno sguardo sdegnato lo fermo sul più bello, così l’untore tremebondo, si allontanò nella calca danzante di questo tragico samba, ma proferendo prima di sparire un insulto malevolo contro di lui.

Montava la rabbia dentro il ventre del Conte di Massa come maionese francese.
Non ne poteva più, di tutto e di tutti. Troppi eventi lo avevano ormai infastidito dal suo personale Nirvana malese. Avrebbe fatto piazza pulita, cominciando dal vampiro dal dito immorale, ma ecco che inaspettatamente il suo interesse fu distolto e la sua rabbia si trasfuse in curiosità.

La sua attenzione aveva, infatti, percepito che la concitazione del gruppo aveva avuto un moto di arresto.
Un nuovo elemento si era aggiunto al gruppo, un elemento cruciale.
Era la venuta di quello che, probabilmente, doveva essere il “regista” di questa simpatica accozzaglia di attori dark.

La musica simultaneamente al silenzio delle voci, tacque.

Facendosi largo fra i ballerini c’era lui: il Capo, il loro Signore, il Principe delle Tenebre.
Per la verità, al nostro intreprido viaggiatore parve di vedere Chuck Norris, o almeno un suo sosia, era “preciso a lui” come avrebbe detto la sua portinaia napoletana.
Cosa ci facesse poi Chuck Norris a Milano in un “rave” improvvisato, in questa piazza di notte, erano dei dubbi che non sfioravano il nostro protagonista, tanto era forte la scena "così piena di pathos”, si sarebbe potuto dire.

Fra due ali di vampiri che si aprivano come le acque del Mar Rosso ecco arrivare: “Il Texas Ranger”, con tanto di impermeabile di pelle nero lungo sino a terra e stivali (ma senza stella però).

Il saluto, che il cow boy vampiro rivolse a tutti fu degno del suo ingresso trionfale: una risata che parve provenire dall’oltretomba stesso, che gelò il sangue e accompagnata dall’esibizione del suo famosissimo “calcio girato”.
A bocca spalancata e mostrando i canini lunghissimi, che saettavano fra la barba curata (il nostro odontoiatra non poté evitare di guardarli affascinato), eruppe lo sghignazzo di questo diavolo folk. Una risata tipo quello di Vincent Price nel finale del video clip thriller di Michael Jackson, tanto per capirsi.
.
La musica dopo pochi attimi di quiete riprese ancora più indiavolata.
.
Il nostro uomo cominciava però a divertirsi… Tutto sommato lui si adattava sempre e comunque; trovando i suoi punti fermi nel cambiamento.
Gli furono offerti un paio di cocktail (long island) e il piacevole calore del fuoco e dell’alcol cominciarono a metterlo a suo agio con il luogo e con la strana compagnia di danzatori erotomani.
Pensò che sarebbe bastato confondersi con i partecipanti di questo baccanale per essere al riparo da altre sorprese e dimenticò la prudenza tanto raccomandata da frate Elia.

Incontrò così il suo destino lungo la strada che aveva scelto per evitarlo.

Continua…

Parte VI La Salamandra nel Fuoco

Lui conversava amabilmente con due partecipanti alla festa appena conosciuti, di eleganza e di stile in controtendenza. La strana coppia era “divinamente ben vestita”, entrambi di età indefinita (potendo spaziare dai trenta ai quaranta anni con la massima incertezza).
Con loro aveva casualmente scambiato qualche battuta per poi inoltrarsi in una divertente discussione.
Il primo di questi era un nero alto quasi quanto lui con un viso regolare e il naso insolitamente stretto per la sua razza, aveva i capelli quasi completamente rasati su un cranio perfetto.
Vestiva una maglietta nera che sembrava dipinta sul busto asciutto e sopra di questa indossava una giacca di ottimo taglio sartoriale. Jeans scurissimi sapientemente adagiati sulle creste iliache cadevano perfettamente su un paio di “converse” dorate.
L’altro invece era un caucasico, più basso di statura, aveva un viso molto curato tanto da sembrare appena alzato dopo un ottimo sonno ristoratore. I cappelli neri tagliati cortissimi risultavano essere quasi rasati lungo la base della nuca e sui lati vicino alle orecchie, come un “marine” molto “trendy”. Era vestito in maniera casual chic, tono su tono e irradiava dalla sua persona una “nuance” blu oltremare che lo differenziava dal gruppo di figuranti dark.
Quest’ultimo interveniva moderatamente nella conversazione con brevi e sagaci battute, la sua voce era dolce e lievemente strascicata, lasciando dietro di se un lieve accento toscano.

Il nostro esteta si sentiva in loro compagnia perfettamente a suo agio.

Il nero, in un perfetto italiano, raccontava dei propri gusti in fatto di “fashion, mentre il nostro raffinato viveur non poté fare a meno di osservare che sul bavero della sua giacca era appuntata una piccola medaglietta elettorale raffigurante Barack Obama (che anche il candidato presidenziale fosse un vampiro?).
L’altro invece in quel preciso momento rideva e basta, mollemente appoggiato ad un cassonetto della raccolta differenziata con un bicchiere flute ricolmo di Champagne Krug.
L’atmosfera era prodigiosamente tranquilla come l’occhio di un ciclone nella tempesta.

Entrambi raccontarono di essere stati invitati a questa festa da amici occasionali, ma senza sapere nulla di nulla, a parte che l’evento gli era stato presentato come: “La festa a sorpresa più esclusiva del mese”.
Il nostro perspicace detective comprese allora che forse i suoi nuovi amici non fossero della stessa razza degli attori gotici, si domandò ancora: “Se non sono dei commensali, che forse sono da considerarsi una pietanza?”.
Era un pensiero funesto che allontanò da se stesso con un gesto annoiato della mano come per mandar via una mosca insistente che sciupa una siesta nel sole del primo pomeriggio. In quel modo si riappropriò dell’attimo presente.

In quel particolare angolo e momento avrebbe potuto essere in uno qualsiasi dei tanti “party” alla moda ai quali aveva partecipato, ma che ultimamente eludeva con ritrovata semplicità.

La conversazione era scivolata non si sa come sulla sincronicità, il curioso legame fra fisica e psiche, con riferimenti precisi alla Cabala (argomento molto caro al nero), il quale stranamente poneva al nostro campione continue operazioni aritmetiche da eseguire.
Complice la stanchezza, i cocktail, le neuro-tossine non ancora completamene smaltite risultò oltremodo difficile al nostro vivace matematico dare un risultato esatto a queste difficili interrogazioni, le quali fra le tante, concernevano per esempio i secondi che ci sono in anno solare divisi per il numero di volte che un oggetto qualsiasi, una volta lanciato, ruota su se stesso.
Decisamente domande cruciali, ma che richiedevono almeno una calcolatrice o una mente fresca.
L’infinita sequenza di addendi (continuamente aggiunta con nuove moltiplicazioni sottrazioni e divisioni, dal novello Cabalista) ai quali stava cercando di dare corpo fu interrotta dalla ricomparsa del "perfito Tankerdi".
Per la verità la sua infausta venuta fu preceduta da un effetto stroboscopio che dava ai loro movimenti una sequenzialità a scatti. L’effetto non era prodotto da una lampada di discoteca, ma neanche a dirlo, dai flash della macchina fotografica del vampiro in accappatoio che si avvicinava sempre più al loro angolo filosofico.

Il molestatore era accompagnato da un gruppo di energumeni che giunto in prossimità del serafico trio li indicò (con il solito dito umido) e disse: “Ecco la nostra cena”.

Le circostanze in pochi secondi precipitarono.
I due simpatici amici furono assaliti vigliaccamente dal drappello ostile e mentre gridavano come facoceri evirati furono presi di viva forza e tradotti verso il pentacolo.
Il nostro cavaliere abbozzò invece una difesa disperata. Rispolverò dalla sua memoria una mossa di judo (arte marziale che aveva praticato in gioventù con profitto sino alla cintura arancione) contro il più grosso degli assalitori, una sorta di “grizzly” umano.


La tecnica spettacolare di lotta giapponese che si apprestava a compiere consisteva in una cosiddetta “tecnica di sacrificio”, ove l’artista marziale sacrifica appunto il suo equilibrio e la sua posizione per ottenere la completa vittoria. Questo colpo lo aveva sempre affascinato. In senso filosofico in quanto il nostro eroe era antropologicamente vicino a questo concetto di “bel jeste” e in senso estetico perché era, tra le tecniche mortali, la più scenografica e anche la più rivelatrice della sua innata nobiltà.

Nonostante le sue migliori intenzioni però, quando il gesto atletico andò a concretizzarsi, riuscì solamente una volta afferrato il braccio del suo antagonista a strappargli una manica della camicia.
Con questa poi, avvolta come un peplo al suo busto si produsse in una piroetta rotolando a terra.
La lotta continuò inesorabile per qualche minuto dove il nostro campione, completamente avulso dalla realtà esterna, fu impegnato contro la manica di tessuto in un litigio dalle sorti alterne e sotto gli occhi perplessi degli assalitori che, fermi intorno a lui, aspettarono con pazienza la fine della micidiale tenzone.
Il nostro emulo Jigoro Kano, proferiva dei piccoli, ma decisi, urli, mentre continuava a rotolare sul selciato con il suo straccio ormai ridotto ad un brandello lacero.
“ Uè! Uè! Ah-uè!” Erano queste le esternazioni del suo “Ki” (sprito-forza) guerriero.

Si risollevò quindi una volta ridotto a dei coriandoli il pezzo di camicia e ripulendosi i palmi delle mani sulle cosce, aggiunse: “E non riprovarci mai più!”.
Grande fu il suo stupore nel ritrovare ancora integri i suoi nemici (fatto salvo per uno di loro che in modo bizzarro era senza una manica).
Senza por tempo in mezzo questi bruti lo sollevarono di peso da terra afferrandolo per le 5 (cinque) membra e lo portarono verso i suoi amici già legati come un salame felino.
Nel divincolarsi dalle strette ferree dei suoi assalitori anche l’ultima scarpa superstite con annesso calzino fu lanciata lontano dal suo legittimo proprietario a “velocità warp”, andando, con grande senso di giustizia, ad infrangersi contro le gonadi del crudele delatore visagista che stramazzò a terra con un barrito.

Continua…

Parte VII Salita agli Inferi



Gli eventi con singolare rapidità stavano per volgere in tragedia.

All’interno del pentacolo infuocato i nostri tre “amigos” erano legati mani e piedi a picchetti di ferro incuneati nel selciato. A nulla valsero le invocazioni dei suoi due amici sulle indelebili pieghe che andavano creandosi sui loro vestiti, i diavoli erano intenzionati a far scempio di loro.
Come naufrago che rivolge il suo ultimo sguardo all’orizzonte tempestoso il nostro prigioniero volse il suo ultimo colpo d’occhio al mondo.
Tra il branco affamato che aspettava di dilaniare le sue nobili carni egli incrociò lo sguardo con quello torvo di Chuck Norris.
Fece quindi affidamento alle sue capacità ipnotiche ed eruppe in tutta la sua eloquenza: “Esimio collega” si rivolse al principe delle tenebre come ad un suo pari e continuò “Lei mi insegna che nel “debello diabuli” è posta al capitolo 6 versetto 66 la possibilità di uno scontro tra anime dannate per la supremazia della legione malefica”.

Il capo dei vampiri alzo di scatto un pugno chiuso (come un caposquadra swat, quando incontra una minaccia) e di botto si fece silenzio.

“Bene sono riuscito ad avere la loro attenzione” penso il nostro giovine avvocato.
“Come dicevo, pocanzi stimati giurati, il libro delle messe nere prescrive ove lo demone sfidante affronti lo Principe degli Inferi, uno scontro su tre prove a guisa di torneo.
Abilità, forza et intellighenzia sono pesate et misurate e chi fosse giudicato mancante lascerà il terreno allo vincitore” lasciò quindi qualche secondo di silenzio affinché le proprie parole facessero l’effetto voluto.
“Ma che cazzo stai a dì!” intervenne uno dei suoi assalitori in un poco appropriato accento romanesco.
Nosferatu (Chuck Norris) lo zitti con un calcio ad uncino girato e carpiato direttamente sulla tempia facendolo crollare a terra svenuto.
“Silenzio” disse con una voce inaspettatamente stridula, “precisa alla deputata Rosa Russo-Iervolino” avrebbe detto sempre la sua portinaia napoletana.
“Sentiamo questo rifiuto dove vuole andare a parare” aggiunse con un sovracuto.
E con un cenno della testa magicamente fece sciogliere i nodi che vincolavano il nostro prigioniero.
Sfregandosi i polsi spellati il nostro eroe sentenzio: “Io sono Zer-Bin-ah-thor, “odorato” signore del male nelle isole della Malesia e della Micronesia.
Estrasse dalla tasca la reliquia avuto in dono dal santo Elia che era la prova del suo lignaggio. Si trattava di una pergamena del medioevo ove era ritratto egli stesso, mentre riceveva investitura direttamente da John Holmes come suo discendente legittimo ed accreditato.

“Ti sfido nelle tre prove come da regolamento condominiale precitato” concluse la sua splendida arringa.

Gli astanti esclamarono un simultaneo: “ Ooooooohhh!”

La moltitudine venne però nuovamente zittita da Nosferatu che si esibì in due colpi di pugno a vuoto i quali produssero il caratteristico rumore di una spada che fende l’aria “fuah- fuah!” e bastò questo per riottenere il silenzio.
Solo un sussurro, lievemente effeminato, proferito dai due prigionieri legati segnò la ripersa del dibattito. Il loro commento congiunto e sommesso alla performance di Chuck Norris fu: “Meravigliosamente tamarro…”

La tensione ormai era al vertice.

Furono enunciate dal nostro patrocinatore le tre prove previste dal regolamento sanitario.

“Prima prova, prova di intelligenza sarà stabilita con una partita a scacchi”.
“Seconda prova, prova di abilità sarà consumata con una partita a freccette”.
Concluse infine, schiarendosi la voce: “Ultima prova, prova di forza, braccio di ferro con i denti canini”.
L’enunciazione di questa ultima maschia prova di potenza strappò un’ovazione di piacere del pubblico pagante di questa arena demoniaca.
“Va bene” squittì acconsentendo il Iervolino-Vampirino e voltò la testa in un gesto di stizza.

Per brevità la partita di scacchi fu fissata in una “partita lampo” in cui il tempo massimo per tutte le mosse fu stabilito in 15 secondi totali.
Allestito in un baleno la scacchiera si diede inizio alla prima prova.
La partita si svolse con una tale rapidità che anche un giocatore esperto sarebbe stato messo in difficoltà nel seguirne lo sviluppo e per questo su un maxi schermo fu trasmessa in slow motion.

Il nostro Gran Maestro utilizzò la sua apertura preferita ma sconosciuta a qualunque manuale (detta apertura Baskin dal nome del suo ideatore) concepita di una rosa di pedoni aperta a ventaglio, l’originalità del gioco confuse il suo avversario.
Per amore di verità la partita all’inizio si volse in sfavore del nostro prode che dopo aver perso quasi tutti i pezzi con continue mosse stravaganti e apparentemente svantaggiose, risolse con una combinazione geniale il finale ribaltando la situazione e con un solo un alfiere, una regina e un pedone concluse con uno scacco matto alla mossa numero 27.
Il Principe delle Tenebre sconfitto si masticò una torre per la rabbia.

Con grazia e dignità il nostro vincitore lasciò cadere nel vuoto le ovazioni della nera compagnia che man mano si appassionava a questo outsider.

I suoi amici prigionieri non si erano ancora accorti che la loro posizione stava migliorando e continuavano reciprocamente ad accusarsi di aver accettato questo invito ad una festa che fino ad ora non aveva avuto quasi nulla di divertente, volgendosi poi ad un guardiano degli inferi posto a loro custodia chiesero almeno di abbassare il riscaldamento, in quanto faceva un “caldo d’inferno” all’interno di quel pentacolo. Inutile dire che maleducatamente non fu dato corso alla loro gentile richiesta.
Sordo ad ogni distrazione il nostro tiratore scelto si apprestò alla seconda prova non senza aver tracannato almeno altri sei long island ice tea (ma senza coca-cola).

La lotta fu dura sin dall’inizio anche perché Nosferatu era un insuperato lanciatore, allenato e consigliato nella strategia da uno stravagante personaggio, un certo Michele Magilla giocatore di freccette professionista, sport cui aveva votato la propria intera esistenza. Il consulente era inoltre tra i più ingordi bevitori di birra del Regno Unito. In effetti, non si capiva se aveva iniziato a giocare a freccette per poter bere o viceversa.

Comunque fosse, complice il caldo torrido vicino al pentacolo, il perito Michele Magilla era probabilmente ubriaco già prima di dispensare i suoi consigli, i quali risultarono forvianti per Nosferatu; questi, furente, lanciava le sue freccette con una violenza inaudita, ma senza precisione.
Il nostro beniamino invece lavorava “di polso” con un’eleganza ed un distacco che si sarebbe detto che nella sua vita non aveva mai fatto altro che dedicarsi a questo gioco.
La vittoria si realizzò sul filo del risultato in un crescendo di “suspance” che confermò il nostro beneamato cecchino come dominatore.
Egli dichiarò, già prima del ultimo tiro, un “triplo diciannove” puntualmente realizzato e che lo coronò trionfatore.

Nosferatu era pieno di odio e contava sull’ultima prova per stroncare questo diavoletto della Malesia.
Sfogò la sua rabbia sul povero Michele Magilla infilandogli una serie completa di freccette al carbonio in quel posto dove nessuno si aspetterebbe di riceverle e il suo commento fu: “Triplo cinquanta per il mio bravo consulente!”.
Il disperato Magilla giurò sull’immagine di Trezeguet (suo calciatore preferito) che non avrebbe più toccato una freccetta né una birra in tutta la sua porca vita.
Giunse così il tempo della prova finale: la mischia dei denti canini.

Come due lottatori di Sumo, i due campioni, guardinghi si giravano attorno con le braccia aperte e le mani ad artiglio, pronti a sferrare l’attacco alle fauci del proprio avversario.
La folla di demoni vampiri gli faceva cerchio levando un canto di incitamento “Osteria numero venti se le fighe avessero i denti ecc ecc.” Credo che fosse questo il motivetto intonato.

Dopo un tempo che parve scandito dalla tensione palpabile i due titani si lanciarono in un attacco kamikaze.
I canini di entrambi si scontrarono in un braccio di ferro odontoiatrico di inaudita forza.
Una pioggia di lapilli e di scintille cadde dalle fauci serrate in questo “bacio mortale” sfrigolando sull’asfalto.
Come le migliori lame di Toledo i denti dei due campioni si scalfiscono senza spezzarsi.
Le mani strette l’uno nelle altre, i glutei e le cosce contratte in una spasmodica spinta facevano ora avanzare il Principe della Notte e ora il Conte di Massa in una danza che ricordava il combattimento dei mufloni argentini per il diritto alla riproduzione con la femmina.
La folla era in delirio.
Scorrettamente il figlio di Satana liberò una mano e agguantò i genitali del nostro guerriero con una mossa subitanea. Proferì, l’infingardo con voce stranamente baritonale una frase Eduardiana dal senso oscuro “Te piace o’ presepe? Eh!”.
Il nostro samurai replicò con un urlo belluino (leggermente più acuto del solito)e trovò nel vile attacco la forza di reagire con un colpo distruttivo.
Egli sollevò di peso con la sola forza delle fauci l’ignobile Chuck Norris e gli spezzo con un contraccolpo entrambi i canini facendolo rovinare a terra nella polvere e nella sconfitta.

Come Rocky Balboa il nostro vincitore sollevò i pugni verso il cielo tra le urla di acclamazione pronunciando, come Stallone nel film, il nome della sua amata: “Kiki! , Kiki!”.
Era certo meglio di “Adriana!”, senza alcun dubbio.

Fu poi portato in trionfo.

Come nuovo capo degli inferi egli stabili da subito che la festa nazionale del vampiro fosse spostata al 4 settembre (giorno del suo genetliaco) e che fossero aboliti i sacrifici umani, fatto salvo per gli ausiliari della sosta (razza proto-umana che infesta la metropoli).
Come succedaneo all’immolazione umana durante questo Grande Sabba e per i prossimi a venire si dispose che un vampiro estratto a sorte, ma che doveva però essere un parrucchiere e con un -nome a caso- che corrispondesse a Tankredi, fosse sodomizzato con un enorme fallo di fuoco.
La presente regola si abbattè subito sulla "perfita anima necra" che venne individurata facilmente grazie ai suoi flash di segnalazione.

Era giunto infine il tempo di dire addio alla folla dei suoi nuovi adoratori.

Liberati i suoi amici e preso “in prestito” una station wagon funebre il nostro eroe parti a tutta velocità verso la sua casa in via Palmaria.

Mentre si allontanava, alla guida di quel nero veicolo e ancor più si allontanava da quella notte di terrore, udì le urla disumane di Tanckredi che riecheggiavano alle sue spalle.
In quel preciso istante il primo raggio di luce del nuovo giorno lo sorprese con un mezzo sorriso beffardo che si insinuava come una fenditura sul suo volto di pietra.

Continua….

Parte VIII La Casa Senza Tempo


Simile ad un uccello rapace che discende in cerchio verso il proprio nido con volate sempre più strette egli cercava la strada più breve per giungere alla propria casa.

Quanto era cambiata la città in questi due anni di volontario esilio, pensò osservando i marciapiedi ancora solitari, mentre sfrecciava lungo una lingua d’asfalto che rifletteva le prime luci del far del giorno.
Riandava con la memoria agli eventi passati, agli amici salutati, ma mai dimenticati. Procedeva a ritroso nel tempo con il ricordo, mentre il suo corpo andava avanti tanto velocemente nel suo presente che era quasi nel futuro.

Il sole nascente andava crescendo in questo giorno ed era speranza di cose nuove… finalmente di un vero giorno nuovo.

Così giunse alla avita magione.

Un antico detto indiano recita: “Se alla fine della notte riesci a tornare a casa, in realtà non ti sei mai perso”.
Con questa sensazione egli salutò il suo appartamento, mentre l’arancione di un’alba magnifica filtrava dalle tapparelle appena un poco sollevate.

Era infinitamente stanco, sin nelle ossa.
Il suo letto sopraelevato e il silenzio delle stanze lo attiravano come un libertino è addescato da una meretrice. Avrebbe dato qualunque cosa per tre ore di sonno, ma pensò sorridendo di averne a disposizione forse un po’ di più prima di darsi da fare per riavere i propri documenti, di riconquistare la propria identità e con essa la propria vita… forse.

Questa casa, vissuta nell’aspetto era in alcune sue parti disadorna ed in altre caotica, aveva un potere magico non solo su di lui, ma su tutti quelli che vi entravano.
Lì il tempo e l’entropia si fermavano.
Come una sorta di ritratto di Dorian Gray immobiliare essa assorbiva lo scorrere delle cose ed anche le storie dei suoi occasionali abitatori relegandoli o regalandogli un lembo di limbo.
Era come abbeverarsi al fiume Lete, elargiva l’oblio (che è componente essenziale della felicità).
Non per caso gli orologi di questa dimora erano fermi da sempre.

Egli, infatti, nei rari momenti in cui era costretto ad abbandonarla subito invecchiava.
A volte solo andare in edicola ad acquistare il giornale lo faceva trovare al suo ritorno con una nuova ruga.
Inutile dire cosa aveva lasciato indelebilmente sul suo volto due anni di lontananza.
Questi pensieri malinconici affollavano la mente del nostro “ragazzo di quaranta anni”.

In quel preciso istante suonò il suo ultimo cellulare.

“Sono il marchese Alberto” proferì una voce dal telefono “Alberto degli Ulivi detto Zazà 9000” aggiunse senza che ce ne fosse bisogno, ma con un’erre moscia rivelatrice della sua condizione aristocratica.
“Ho chiamato i tuoi otto numeri diversi di cellulari, ma solo questo è funzionante…sei arrivato?” la voce lasciò trasparire una nota di ansia.
“Si” rispose il nostro protagonista con uno sbadiglio.
“Ho dei regali per te” aggiunse il Marchese, non senza una certa concitazione muliebre nell’ultima frase che gli faceva pregustare il nobile gesto “Fra dieci minuti posso essere a casa tua”.
“Ok” concluse laconicamente il nostro assonnato anfitrione.
Non fece a tempo a riporre il telefono su uno dei suoi tanti comodini ingombri all’inverosimile di cose inutili che già squillava il campanello della porta.

Apparve così il suo amico per antonomasia.



Uomo di ancor bel aspetto, il marchese Alberto, era alto e vestito rigorosamente in un completo grigio da manager quale egli era.
Si presentava con la sua immancabile valigetta porta pc. I suoi capelli, un po’ troppo lunghi rispetto alla sua immagine inappuntabile erano divenuti prematuramente bianchi, tanto che, volendo essere critici lo facevano sembrare adornato con quelle parrucche del 700’ (che i suoi antenati avevano certamente usato) e stridevano un poco rispetto al contesto molto “elegantemente convenzionale”.
Il nostro fine conoscitore della natura umana sospettava che l’amico utilizzava una retina durante il suo sonno per mantenere una così perfetta forma delle ondulate ciocche apparentemente indeformabili.
Non certo un cicisbeo, ma un verace inquilino di Versailles ai tempi del Re Sole così appariva.

Il suo sguardo azzurro, appena solcato dalle rughe che facevano intendere molto tempo trascorso al sole dei tropici, balenava curioso e allegro nella penombra della casa.

L’ incedere, dritto e fiero nell’intenzione lasciava trasparire una singolare camminata.
Egli spostava il piede destro all’infuori dandogli un certo sentore di vetustà nonostante “anagraficamente” si potesse definire ancora nella età di mezzo.
Ai piedi (sempre dolenti) calzava due mocassini comodi che attrassero subito l’interesse del nostro “enfant terrible”.

“Dove le hai prese” disse senza neanche salutarlo.

Il Marchese non rispose subito, ma inizio una lunga cronistoria dei suoi attacchi di gotta, retaggio molesto del suo lignaggio, che lo avevano fatto abbandonare le scarpe inglesi per queste “ciabatte” oltremodo confortevoli ed a “bon marchè”, come spiegò dopo circa sei minuti di inutili particolari.
Singolarmente egli aveva una collezione di scarpe di pregio in casa (mai adoperate) riposte con cura in una teca sotto vetro che campeggiava nella stanza più remota della sua grande casa milanese, queste scarpe le aveva nascoste alla vista di tutti, quasi che fosse un parente ritardato di cui vergognarsi. Erano oggetto di un suo pernicioso interesse nelle notti solitarie in cui la consorte lo abbandonava per calpestare il palcoscenico.

Egli allora, accudiva con puericultrice devozione la sua piccola figliola e con medesimo impegno le sue scarpe. Solo ogni tanto il suo sguardo sognatore cadeva su una vecchia foto che lo ritraeva giovane ed abbronzato alla guida di una moto rombante.
Il paragone con il suo odierno, fatto di pannolini, suocere moleste e con la sua monovolume familiare (ma full optional), strideva come ghiaccio sul parquet.
Ormai, puntuale come una vaccinazione scolastica, alle 20 di ogni sera spegneva il suo cellulare e dispariva al mondo e agli amici per impersonare questa figura da “papà del mulino bianco”, poi alle 8 della mattina riconnesso alla rete telefonica risorgeva come un “irreprensibile” manager.
Questi due uomini che abitavano nello stesso corpo tra loro non parlavano mai, quasi che tacitamente intuivano che una volta aperto un dialogo sarebbe ricomparso un terzo uomo.
Esso, molto simile ad il centauro della foto, avrebbe mandato volentieri a vaffanculo tutti e due con le loro rispettive vite “irreprensibili”.

Queste considerazioni non erano presenti tra loro in quel momento e il Marchese Alberto
passò quindi con continuità ai “doni” di benvenuto che aveva accumulato nei due anni di lontananza del nostro transfugo.

Estrasse dalla sua gerla diversi oggetti.
Una lanterna magica (acquistata in un mercatino in Val Policella dove era sito il suo “buen ritiro”), alcuni prismi di cristallo e infine una sua creazione artistica fatta di specchi e pietre incastonate (molto bella) che costituivano il suo hobby preferito.
Dispiegava ai piedi del nostro viandante questi regali con consumata grazia, come un re magio alla vista del santo nascituro.
Dei doni sproporzionati rispetto all’assoluta indifferenza con cui spesso erano ricevuti, ma tra loro funzionava così.
Consegnò inoltre, brevi manu, un migliaio di cartoline preparate con la tecnica del collage e adornate di motti e frasi celebri.
Usualmente queste originali missive erano spedite alla residenza Palmaria, ma naturalmente negli ultimi due anni non vi era nessuno che potesse riceverle e goderne il contenuto. Ecco così spiegata la cascata di carta che riempì il corridoio come un fiume impetuoso riempie il suo letto in secca dopo un tardivo disgelo.

Era strano, quasi al limite del morboso, questo suo gusto di soverchiare la casella della posta con questi fugaci e variopinti messaggi a volte dal significato criptico.
Negli anni della loro bella amicizia queste “cartoline” avevano superato il numero di diverse centinaia di migliaia.

Come già dissi, tra loro era così.

Il Conte di Massa spiegò telegraficamente la situazione.
Aveva bisogno di nuovi documenti, altrimenti non sarebbe potuto giungere a tempo al compleanno del suo unico amore, altro al mondo non pareva importargli.

9000, così definito da se stesso a guisa del personaggio del supercomputer Hal del film “Odissea nello spazio” al quale si sentiva (chissà poi perché) intimamente legato, ascoltava contrito.
Freud avrebbe avuto da scrivere molto su entrambi.

Sorgevano infinite difficoltà operative. Bisognava raggiungere gli uffici comunali per avere la carta di identità e poi spingersi fino in Questura per avere il nuovo passaporto ed ancora la motorizzazione per la patente ed infine le carte di credito: necessario lasciapassare per attingere al suo “tesoretto”.
Questo elenco di cose da fare innervosivano il nostro smemorato cui la natura non aveva elargito il dono della perseveranza né quello della pazienza per le umane banalità, ma lui non aveva più nulla che avrebbe potuto confermare chi fosse a parte se stesso.

“Una situazione Kafkiana” sentenzio il nobile amico fissando pensoso il pavimento e sostenedosi il mento con il pugno chiuso.

“Fanculo Kafka” ruggì il nostro uomo dai nervi d’acciaio, “Voglio i documenti, voglio Kiki, capisci!”. Aveva quasi le lagrime agli occhi dal furore.
Sorpreso da una reazione simile il Marchese lasciò l’amico ritrovato con la mesta consapevolezza che la sua presenza era ormai superflua. Uscendo seminò piccole cartoline come lacrime portate via dal vento, sin nell’atrio della portineria condominiale.
Una nota di malinconia scompose la sua naturale signorilità, ma non lascio alcuna traccia sui capelli impomatati.

Al modo di un detenuto nella attesa della visita del proprio avvocato, il nostro prigioniero con lunghe falcate passeggiava nervosamente lungo il corridoio ingombro sino alle sue ginocchia di cartoline.


Era furente. Perché il destino, cinico e baro, lo aveva privato della possibilità di muoversi agilmente in questa Europa già così stretta per lui? Come mai lo aveva privato vigliaccamente dei documenti e del sonno?


L'ansia ad ondate successiva si infrangeva come una mareggiata sullo scoglio del suo io interiore.
Così ricorse al suo solito antidoto innaturale, al suo vaccino contro le umane disgrazie: la connessione internet.
Predispose rapido un collegamento wireless sfruttando il router più vicino per giungere al web gratuitamente. Dopo pochi minuti di ticchettio frenetico sulla tastiera del suo pc casalingo e dopo aver dispiegato un lungo filo che dalla sala giungeva alla cucina (unico punto da cui poteva catturare la linea) riuscì nel suo intento fraudolento, ma il gioco durò solo pochi minuti, i firewall e le correnti elettrostatiche non permettevano un collegamento stabile.

Ecco che nella sua mente contorta si disegnò un piano oscuro.

Come un ninja silenzioso percorse le scale sino alle cantine. Una volta giuntovi trovò facilmente il quadro elettrico generale e lo disattivò solamente per alcuni minuti.

Il nostro hacker in questo modo configurò di default tutti i router nel palazzo. Questo stratagemma gli avrebbe permesso di essere padrone di una linea gratuita di qualche ingaro condomino.

Non immaginava, il nostro criminale, che il vicino del terzo piano era collegato da giorni ad un polmone di acciaio. Solo il funzionamento di questa macchina gli consentiva di vivere dopo un ictus invalidante che lo aveva colpito senza pietà il giorno dopo il suo pensionamento.
L'innocuo gesto del nostro esperto informatico determinò un black out inaspettato che compromise il congegno medico, ma le maledizioni del malato ormai spacciato non lo raggiunsero, poiché la sua presenza era eterea e silenziosa come un'ombra nell'anonimo palazzo ancora addormentato.
Tornato poi nel suo appartamento godette i frutti del suo gesto scellerato con una connessione stabile e insolitamente veloce.

Le ore corsero rapide come gli anni della giovinezza.
Si accorse, solo ed estraneo a tutto, che ora doveva andare e che non aveva dormito per nulla.
Aveva però bisogno di nutrirsi. Fece appello alla sua fonte di sostentamento primaria: la pizza. Ordinò per telefono tre marinare senza origano, ma con i capperi, ed appena consegnate le masticò con livore come il conte Ugolino il cranio di Farinata degli Uberti.
Ristorato e pago decise un piano operativo da attuarsi prima di subito. Per prima cosa avrebbe reclamato la propria identità.
Scalzo cominciò ad avviarsi verso il più vicino ufficio del Comune, mentre colse distrattamente l'ululato di un'ambulanza che si avvicinava veloce, ma il suo unico pensiero era fisso sul suo amore. Questo gli ricordò che era stato infelice senza di lei, ma sino ad ora non se ne era ancora accorto.

Continua….

Parte IX Perchè Bruto è un uomo d'onore.









Alla maniera di un Templare in procinto di espugnare Gerusalemme per riavere la santa reliquia il nostro guerriero guardò l’austero edificio, poi ne pesò i muri spessi e anonimi che lo separavano dal suo agognato documento.
Niente avrebbe potuto fermarlo, ma ancora una volta il destino lo avrebbe messo sotto scacco.
La mattina era insolitamente calda e, una volta entrato nella cittadella nemica, aspettò il suo turno fra gli astanti in fila allo sportello comunale cominciando a sudare.
Si tolse allora la maglietta in cerca di refrigerio e la appoggiò su una sedia per poi dimenticarsene per sempre.

L’impiegato dietro il bancone osservò con un’occhiata scostante questo singolare individuo a torso nudo che gli si parava davanti.
“Sono Z…” e subito si corresse “sono (Bip), mi hanno rubato la carta di identità, mi faccia un duplicato” così dicendo passo sotto il vetro macchiato di impronte una copia stazzonata della denuncia stilata dalla Guardia Civil spagnola.

Secondi interminabili trascorsero, mentre il pubblico dipendente osservava la carta e poi il richiedente, come una partita di tennis interminabile, palleggiava il suo sguardo ora su di lui e poi sul foglio (imbrattato di alcune gocce di pomodoro fresco).
Il nostro beniamino gonfiò il petto in un respiro profondo e proferì a mezza bocca: “Che palle”. Il commento cadde sul pavimento senza sortire né effetto né rumore, mentre il suo occhio attento lesse il nome dell'impiegato sul cartellino appeso al bavero della giacca "Salvatore Lo Bruto".

L’uomo dietro il vetro cominciò in maniera quasi “autistica” a scuotere la testa in un cenno di diniego. Scuoteva e guardava, guardava e scuoteva, aggiungeva sempre nuovi strani movimenti e pareva affetto da un numero sempre crescente di tic.
Quando a questi culminarono in saltuarie alzate di spalle e una tosse nervosa che ogni tanto faceva da contrappunto ad un tocco rapido al lobo sinistro dell'orecchio, Il nostro ineffabile eroe fu sul punto di detonare.
Ormai contagiato dalla tensione dell’impiegato provava un prurito irrefrenabile in tutto il corpo.

Alla fine di questa “melina sgradevole” il pallido funzionario emise il suo inappellabile verdetto.
“Non si può” e aggiunse “Senza due testimoni non possiamo darle il documento” e concluse con alcune strizzate simultanee degli occhi, mentre il corpo era divorato dai movimenti ormai senza controllo.

“Come pensa che trovi due testimoni a quest’ora?” disse il nostro irritato eroe, grattandosi con forza un gluteo in un’ultima recrudescenza pruriginosa “Sono appena arrivato da Ibiza, dopo un viaggio allucinante e manco dall’Italia da due anni”.

Ormai era tutto arrossato dal livore e dalle sue stesse unghie.

I suoi denti numerati scintillarono come scimitarre saracene al sole di Damasco e riflessero il bianco candore dei neon perennemente accesi nel salone.
Ancora una volta le sue proteste non sortirono alcun effetto, in questa occasione il muro era troppo alto anche per lui.
Urgeva una richiesta di aiuto ovvero due amici che testimoniassero che: lui era lui.

Purtroppo il suo ultimo cellulare sembrava funzionare male.
La linea andava e veniva secondo i movimenti del suo capo e quindi in pochi attimi sperimentò ogni situazione possibile per avere una comunicazione stabile.
L’unico modo per usare il telefono era dunque correre lungo un cerchio ideale abbassando e alzando il suo busto con ritmica sincronicità e facendo assomigliare la sua telefonata ad una danza riturale Siux.
L’impiegato, fra una timbratura e una fotocopia osservò questo strano pellerossa in blue jeans che scalzo e mezzo nudo intonava, ballando, una lunga comunicazione (pareva che parlasse con Manitù stesso).
La gente nella attesa per ingannare il tempo batteva le mani a ritmo di questa arcaica danza propiziatoria, qualcuno udì in lontananza un rombo di tuono.

Alla fine riuscì a lanciare nell’etere il suo richiamo, giungendo a contattare alcuni dei suoi amici, nell’ordine: Maffo, Diffo, Beffo, Pigiu, Mino, Simo, Ringi, Lula e Giovan Antonio Battista Locorotondo, quest’ultimo il cane del Maffo, che prontamente abbaiò al telefono confermando il suo aiuto.

Il nostro fine stratega pensò però che se mai la sua “chiamata” fosse in qualche modo disattesa sarebbe bastato semplicemente cambiare le regole del gioco per vincere.

Cos’è la genialità? Essenzialmente estro, improvvisazione e rapidità di esecuzione.

Raccolse due cassette per la frutta vuote dimenticate in un angolo del grande ufficio e vi salì sopra per parlare alla folla incuriosita da questo strano figurante.



“Amici” disse con voce baritonale appoggiando un lungo fazzoletto nell’incavo del braccio come la toga di un antico senatore capitolino, “Romani” e nel frangente colse una nota di stupore nel gruppo di persone che lo osservavano, “Emm…compatrioti, dicevo” riprese con disinvoltura “io sono qui per dare sepoltura a me stesso, non già per farne le lodi", che il Comune dice che io sia un uomo senza memoria e senza passato, e il Comune parla per bocca del suo funzionario, e il suo funzionario Lo Bruto è uomo d'onore”.
V’ha detto, il Lo Bruto, che io sono stato un uomo distratto: se tale era, fu certo grave colpa, ed io gravemente l'ho scontata.

Un brusio inquieto serpeggio nel gruppo di ascoltatori “Chi è che è morto?” domandò una vecchietta in fondo “Stttt!” la zitti una signora con un bambino per mano e con voce trattenuta aggiunse “Non si capisce, ora lo spiega”.

Il suo sguardo profondo colse in ognuno degli ascoltatori il cuore e continuò: "Il male fatto sopravvive agli uomini, il bene è spesso con le loro ossa sepolto; e così sia anche di me".
"Io vengo innanzi a voi a celebrare di me stesso le esequie. Di me fui amico, e sono sempre stato con me stesso giusto e leale; ma il Comune dice ch’io fui senza memoria, e Lo Bruto è certamente uomo d’onore.

"Ho addotto alla città molti denari, con multe per divieto di sosta e tasse per i rifiuti e mora, e il loro riscatto ha rimpinzato le casse dell’erario: sembrò questo in me ambizione? Quando i poveri han pianto, io, ha lacrimato: l’ambizione è fatta, credo, di più dura stoffa; ma Lo Bruto è uomo d’onore.".



Proferì queste commoventi parole accompagnandole da un gesto ampio e maestoso del braccio e indicando così l'impiegato dietro al vetro che stava mordendo un panino approfittando della pausa.
Il poveretto rimase a bocca aperta trafitto dagli sguardi torvi dei contribuenti che gli bloccarono la digestione, mentre alcune briciole caddero sulla tastiera del suo pc.

Giunse in soccorso di Lo Bruto un altro impiegato che già presagiva il peggio, tale Girolamo De Cassio e puntualmente in nostro senatore né carpì il nome e predispose la sua oratoria acciocché sortisse il danno maggiore.

Poi il nostro Marco Antonio riprese "Non sto parlando, no, per contraddire a ciò che ha detto Lo Bruto e De Cassio: son qui per dire quel che so di me stesso".
Scusatemi…il mio cuore giace là nella bara con me stesso, e mi debbo interrompere di parlare fin…. quando non sia tornato in petto".
Represse un singhiozzo e facendo appello a ciò che vi era di migliore in lui proseguì, mentre già alcuni, fra i molti, trattenevano a stento il pianto.

Egli così dunque proseguì.

"Ma ho qui con me una pergamena scritta, è il mio testamento".

Un cittadino – “Il testamento lo vogliamo udire. Leggilo, Marcantonio!”
E tutti – “Il testamento! Il testamento! Vogliamo sentire quali sono le tue ultime volontà”.
E il nostro demagogo, ancora – “È bene non sappiate che i miei eredi siete tutti voi”.
E tutti- "E’ colpa di Lo Bruto che gli nega l’identità, facciamogli il culo, però leggi, ti prego il testamento".

Egli ancora, con tono sommesso e sguardo rapito, parlò: “Ora, se avete lacrime, Milanesi, preparatevi a spargerle. Oh, Guardate qua: sollevò in alto la pergamena di frate Elia" (quella con John Holmes per intenderci).
E’ continuò ieratico: “Miei buoni amici, i responsabili di quest’azione sono gente d’onore… Quali private cause di rancore possano averli indotti, ahimè, a compierla non so: essi son saggi ed onorevoli e vi sapranno dire le ragioni".

I cittadiniI - Insorgeremo! Daremo fuoco alla casa di Lo Bruto!
La vecchietta mezza sorda - Via, dunque, a caccia dei cospiratori!

Egli di rimando -
“Ecco dunque il mio testamento: lascio alla cittadinanza la mia collezione completa di verrucid in scatole da 100 mg e al Pio Albergo Trivulzio la mia raccolta di Satanik insieme alla serie di Dvd “sex in japan”, più alcune videocassette betamax con Alvaro Vitali e Lilli Carati.
La mia auto, una citroen DS “squalo” nera con interni di pelle rossa alla vecchietta non udente in terza fila, il mio letto sopraelevato su tubi innocenti a quel signore con i baffi, infine i miei vestiti griffati al deposito bagagli dell’aeroporto di Linate. I pupazzetti dei Simpson ai bimbi. Ecco questo è quanto”.
Concluse con un respiro liberatorio.



La folla ormai ebbra di tanta generosità come un sol uomo si lanciò all’assalto.



Sembrava una scena del Signore degli Anelli, torme di contribuenti scavalcavano gli alti cancelli di Isengard facendo scaletta gli uni con gli altri. Fra i primi a prendere per il collo Lo Bruto fu un manipolo di coraggiosi capeggiati dalla vecchietta sorda che ormai era divenuta il loro leader naturale.
De Cassio abbozzo una difesa scomposta, lanciando ciò che aveva a portata di mano contro la schiera di assalitori, alcuni di loro caddero colpiti da una salva di timbri auto-inchiostranti. Esauriti gli oggetti, il vile, lanciò anche la donna delle pulizie peruviana che travolse il fianco sinistro dello schieramento.




Il centro però tenne, grazie al comando di un valoroso Geometra di Affori il quale giunse infine, fra il fumo della battaglia, ad ammainare la bandiera del Comune ed ergere quella dei rivoltosi (costruita alla bella e meglio con un asciugamano in cui campeggiava il logo del Top Motel di Corsico).
La vittoria era ormai conseguita.
I due impiegati ormai prigionieri, furono costretti ad inginocchiarsi al cospetto del nostro innocente perseguitato e celermente gli preparano l’agognato documento.
La vecchietta sorda, che ormai aveva preso coraggio, mentre masticava il panino di Lo Bruto, gridava a bocca piena: “Vendetta, vendetta, eviriamoli”.
Ma il nostro magnanimo eroe sedò i facinorosi con un gesto pacato della mano e concesse solo che fossero inchiodati alle loro scrivanie con le graffette di una pinzatrice per volumi, ma prima Lo Bruto, affamato e pieno di lividi, chiese: Manca solo la dicitura sulla professione, cosa scrivo?

Il nostro condottiero scrutò l’orizzonte in cerca di un segno. Il silenzio nell’ampio edificio era totale. Finalmente disse: “Scivi... Divinità” e così fu in apoteosi di “Urrà!”.
Il resto è accademia…
Usci dagli uffici fra le ultime ovazioni dei rivoluzionari non accorgendosi minimamente che si facevano largo fra la folla il Maffo e alcuni suoi amici, primo fra tutti il pastore tedesco Locorotondo che abbaiava come un segugio prossimo alla preda.

Era stato un giorno magnifico pensò, mentre i suoi piedi nudi sfioravano il selciato, fra poche ore sarò di nuovo all’aeroporto e da lì eiaculerò verso Parigi…”Ah! Parigi” disse, mentre un principio di incendio appiccato dai guerriglieri andava a consumare l’austero palazzo.
Egli rivolse solo uno sguardo indietro e pareva proprio Steve Mc Queen in “Papillon", quando alla fine volgeva il viso all’isola del diavolo, mentre fuggiva nell’oceano sulla sua zattera di noci di cocco .
La stessa battuta del film scivolò senza sforzo dalla sua bocca increspata dal disprezzo: “Sono ancora vivo, bastardi!”.




Continua...