mercoledì 19 agosto 2009

Metropolis


“Nocciolato e pistacchio, con amarene e panna montata”, disse Zenit dall’alto del suo metro e novanta.
“Uguale”, aggiunse lesto Nadir, guardandosi attorno.
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Il paesaggio era grigio vicino a quel chiosco della Stazione.
Passanti frettolosi fra gli sbuffi dei gas venefici dalle automobili e dagli autobus, facevano da contorno a questo momento di pigrizia.
Mangiavano in silenzio, con avidità.
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“Non bisogna parlare”, disse Nadir, che come sua abitudine infrangeva così la regola che enunciava.
“Sennò non si gusta il gelato”, continuò rimestando con la paletta di plastica nella coppa grande come un trofeo.
“Già”, rispose Zenit deglutendo una robusta porzione di panna.
“Perché altrimenti non si apprezzano le combinazioni”, incalzò dopo qualche attimo Nadir.
“Eh si! Le combinazioni, la sincronicità”, confermò di rimando Zenit, mentre rincorreva un’amarena che non voleva farsi acchiappare nascondendosi sotto una spessa coltre di nocciolato.
“Vedi, ora mischio il pistacchio con la panna, poi invece con l’amarena, poi ancora assaggio il mix di tutto, quello che si forma negli angoli del bicchierino di carta, quella curiosa striatura di gusti che pare il dentifricio a strisce…Come si chiamava?”, domandò ancora Nadir con il cucchiaino a mezz’aria.
“Chi? Il dentifricio?”, chiese stupito Zenit, rimanendo anche lui con il cucchiaino a mezza altezza.
Quei due cucchiai parevano montacarichi attigui che avevano deciso di fermarsi un momento allo stesso piano.
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“Acquafresh!”, lo anticipò Nadir colto da illuminazione.
“Esattoooo!”, confermò Zenit, indicando il compagno con la coppetta di gelato come in un brindisi.
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Seguirono poi momenti di raccolto silenzio.
Era una serata d’estate afosa che non voleva diventare più fresca nonostante il sole se ne fosse andato da un po’.
Nadir continuava a guardarsi intorno inquieto, poi finito il gelato disse:“Che schifo di città, puzza. Puzzano anche le persone.
Tutti questi stranieri, questi gialli, neri, arabi, indiani mi pare che puzzino, puzzino di disperazione.
”“Eh? Forse”, commentò Zenit
“Sono razzista? Spero di no, è solo che mi sembra così squallida la metropoli.
E' peggiorata man mano, ed ora la guardo e mi fa schifo”.
“Ti ricordi Giorgino?”, chiese Zenit.
“Il Laido?”
“Proprio lui”, assentì Zenit e continuò
“Sai perché lo chiamavano così?”
“No, perché?”
“Gli piacevano gli uomini sporchi”, disse Zenit guardandosi intorno come per sincerarsi che la rivelazione non potesse essere udita da orecchie indiscrete, poi continuò:“Gli piacevano e li pagava”.
“Li pagava?”, domandò Nadir con una nota di ingenuità.
“Si, ma prima li sporcava, e poi se li faceva…Sì insomma capisci, prima li doveva sporcare ed era un casino, gli doveva dare anche i soldi per la tintoria, dopo”.
“Pazzesco!”, disse Nadir scuotendo la testa, poi distese il volto corrucciato e aggiunse:“Ecco perché la settimana scorsa l’ho visto così contento!
Era sempre triste e ora è il più felice del mondo, questa è diventata la sua città ideale.
E’ come per un topo in una fabbrica di formaggio. E' come per un orso quando i salmoni risalgono la corrente!”
“Proprio così! Ora spende quasi un cazzo. La fortuna di uomo è la sventura di un altro”, disse Zenit e con un sospiro aggiunse: “Ora li trova già belli e pronti…Vuoi un altro gelato?”.
“No, sono a posto così, andiamo?”
“Si dai, che mi scappa una pisciata che non ti dico”, sbottò Zenit notoriamente insofferente ai disagi.
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Si appartarono in angolo un poco lontano e Zenit salì su un muretto e in cima, in bilico cominciò a sbottonarsi la patta.
“Ma che fai? Sei matto?”, rimbrottò Nadir preoccupato.
“Ma se mi scappa”
“Mica per quello! E che se caschi ti fai male; Aspetta che ti tengo”
Così dicendo Nadir lo abbrancò per i fianchi.
"Non mollare dal culo però", aggiunse preoccupato.
"Tranquillo, tranquillo", disse Zenit.
Mentre Zenit si liberava dal fluido in eccesso partorì una filosofica sentenza:
“Ah! Cosa vuoi di più dalla vita, una bella pisciata, quando ti scappa e un amico che ti tiene per non cadere!”.

venerdì 14 agosto 2009

Il caso insoluto.


Mi pare, e qualche volta mi sembra proprio vero che ciò che si vive abbia un perimetro definito.
Come su un palcoscenico. Oppure in una stanza, forse in una gabbia da dove, una volta che se ne è esplorati i limiti che la definiscono non se ne possa uscire.
Le parole dette, i sentimenti provati, le sensazioni, oltre un certo punto non sono più nuove.
Si ripetono nella sostanza e solo apparentemente appaiano attimi diversi solo perché siamo molto distratti.
Con licenza poetica direi che le emozioni sono una vecchia baldracca che non diventa più giovane perché si cambia il vestito ed il rossetto.
Penso che nella realtà dell’essere la voce del cuore è sempre uguale a se stessa.

E’ come nei telefilm di Derrick, il commissario tedesco, dove le diverse puntate sono interpretate dagli stessi attori.
In una puntata magari uno è il colpevole e in quella dopo la vittima.
La realtà è, a volte, il contrario e se possibile ancora peggio.
Gli attori cambiano, ma il copione è lo stesso.
E’ qualche cosa di terribile anche solo pensarlo, ma non ci posso fare niente: è così.
Lavorare, parlare, baciare, incazzarsi, ubriacarsi, scopare, alla fine è sempre la solita storia.
Anche i traumi della vita che ci capitano addosso, oltre a un certo grado non arrivano mai.Il dolore oltre una certa soglia non può andare, anche il suo potere ha un limite.
Così tutto si svolge nell’ambito del già visto, in sottofondo c’è sempre lo stesso sapore, lo stesso odore come in una cucina dove il sentore stantio delle stoviglie e degli stracci bagnati soverchiano il gusto di qualunque pietanza.
E’ così solo per me? E’ così forse per tutti?
Fa troppo male ammetterlo ed allora è meglio raccontarsela? Mi viene da domandarmelo, anche se la risposta è nascosta sotto il pelo dell’acqua come un caimano pronto a mordere, basta aver il coraggio di smuovere la superficie e non aver paura.
Quanto possiamo contenere? Quanto, mi domando ancora, possiamo “realmente” sperimentare?
Cercando di guardare onestamente in me stesso mi devo rispondere con una constatazione nichilista, cinica sicuramente senza speranza.

Sono sempre lo stesso. Sono sempre uguale nella sostanza. Mi sento identico al bambino che ero a tre anni, nell’adolescente scapestrato dei sedici anni, nell’uomo maturo dei quaranta e sarò lo stesso magari nel vecchio che fa capolino dallo specchio e che arriverà, anzi è già qui nascosto sotto la pelle. Aspetta solo il suo turno per affiorare alla realtà.
Non mi sono mosso di un passo. Ho sognato di viaggiare, ma sono sempre stato nel mio letto.

Ieri mi sono improvvisamente visto nello specchio. Sapete come capita.
A questa immagine riflessa ho posto una domanda terribile: “Chi sei?”.
Ma questa figura non ha avuto cuore di rispondermi, allora ho cominciato a radermi.
La schiuma bianca sulle gote, la lama che creava man mano una piccola strada rosa fra questo paesaggio imbiancato.
La mia attenzione è stata rapita in questo gesto. Il rumore dell’acqua mentre ripulivo il rasoio per poi riprendere a disegnare un altro sentiero sulla mia faccia.
Ero come ipnotizzato dai cerchi dell’acqua nel lavandino.
Mentre mi facevo la barba, il mio stesso fare mi allontanava da questa inquietudine, da questo enorme interrogativo, da questo abisso senza fondo che provavo nel guardare dentro di me.
Ecco! Ho pensato, muovendoci nel mondo, credendo di “fare” ci distraiamo da noi stessi, da questa vertigine di cui non si vede la fine.
A volte penso che ci consoliamo con le nostre azioni, le nostre assurde ambizioni come bambini spaventati dal buio che cercano la mamma e nella sua carezza trovano la pace illusoria di essere al sicuro.
Al sicuro? Non c’è nulla di sicuro, questa è la spietata verità…Nulla.
Dentro questo nulla, nulla cambia e forse è l’unica certezza.

Osservo come se appartenesse ad un altro la vita che scorre in me e passa fra le cose che accadono senza essere mai veramente determinate.
Uno muore, l’altro nasce. Una donna mi bacia, poi non mi bacerà più.
Se né forse è andata? E’ mai stata “veramente” qui?
Oggi amo e domani proverò solo indifferenza. Allora non ho mai amato? Non ho forse mai veramente toccato, ma tutto mi è scivolato addosso come pioggia sui tetti la notte?
Cosa mai di originale è scaturito in me? Libero dai condizionamenti, dal sentito dire, dalla memoria.
Ho calpestato la polvere sul proscenio dell’esistenza e penso che un giorno quella polvere sollevata ricadrà esattamene da dove è venuta e io con lei.
Credo forse, perché sollevo una piccola nuvola, di vivere?
L’oblio silenzioso e senza traccia alcuna è lì che aspetta da vincitore e ride delle mie considerazioni.
Il mondo può fare a meno di me, ma io di lui non posso.
Gli appartengo ed è solo vanità e follia credere che è lui che appartiene a me.

Ho guardato allora fuori dalla finestra e ho sentito il vento che arrivava da lontano e spostava i rami degli alberi per poi rimetterli al loro posto, con cura…Mi sono fermato per un lungo, lunghissimo momento, ma anche questo attimo dilatato alla fine mi ha lasciato come ogni cosa, senza un perché.