mercoledì 27 agosto 2008

Welcome to Mars part III


Se cerchi l’anima di un popolo non la troverai nei suoi templi ma nelle sue strade.
Mi sembra doveroso per verificare questo mio pensiero filosofico procedere per esclusione.

Parto quindi di buon mattino verso Kamakura, città molto vicina a Tokyo, dove posso trovare la più alta concentrazione di templi del Giappone.

Mi avventuro per questa scalata in solitaria non senza una certa apprensione. Finalmente libero dalla presenza di K, sempre molto gentile ma un tantino asfissiante, azzardo una fuga solinga come un ciclista nel “Tour de France”.
Nel mio immaginario orrorifico mi vedo disperso nella giungla d’asfalto della metropoli, circondato da soverchianti forze ostili di Samurai armati di ventiquattrore in similpelle sordi alle mie richieste perchè non conoscono una parola di italiano (normale), ma neanche di inglese.



Poi mi sveglio da questo sogno ad occhi aperti e sono all’ingresso della metropolitana “Yomanote” che mi porterà a Tokyo Station e da lì, forse, sul treno per Kamakura.

Un piccolo inciso. E’ un luogo comune pensare che solo noi italiani non padroneggiamo l’inglese o almeno spesso questa considerazione è valida per la maggior parte della popolazione.
Posso rassicurare tutti i poliglotti mancati: i giapponesi sono peggio di noi.
Trovare un impiegato o un passante che parli inglese è un terno al lotto, ma nel caso fortuito di incontrarlo probabilmente non parlerà l’inglese che abbiamo studiato noi.
Forse perché pronunciano la “L” al posto della “R”, come il mio amico K.
Si aggiunga che i giapponesi nella costruzione delle frasi mettono il soggetto alla fine di un discorso e mantengono questa estrosa abitudine anche quando si cimentano in un altra lingua.
Quindi oltre alla difficoltà di traduzione bisogna spesso fare questo curioso sforzo: dati alcuni fonemi certi, quale parola potrebbe avere senso compiuto all’interno di un discorso senza soggetto? Il candidato risolva e dimostri per interpolazione la soluzione del problema.
In buona sostanza non si capisce un cazzo.
Prego tutti i santi ed i beati canonizzati di non avere un infarto e dover spiegare, fra i miei ultimi aliti di vita, i sintomi a un team di medici con occhi a mandorla. Evitando così che invece di salvarmi con il defibrillatore mi spaccino con un clisma opaco.

Superato a piè pari questo piccolo inconveniente con la nota tecnica yoga di “sbattermene altamente”, prendo contatto con l'originale sistema autoctono di pagamento della metropolitana, calcolato in base alla distanza delle varie fermate.
Bisogna “in primis” consultare un enorme mappa viaria posta all’ingresso della stazione (tutta scritta rigorosamente in Kanji incomprensibili), poi scoprire il prezzo corrispondente alla fermata desiderata, poscia andare ad una macchinetta automatica che, dopo aver messo una manciata di yen, fa vincere l’agognato biglietto.
Sono già stremato e mi ronzano le orecchie, ma come un tedoforo procedo con il mio miglior sorriso verso il tornello con il biglietto svettante verso il sole nascente.



Tokyo Station è la più grande fermata della metropolitana. In questo luogo immenso si può decidere se prendere lo “Shinkansen” (il treno proiettile), la monorotaia magnetica superveloce, due o tre altre linee di treni espresso o nove linee della metropolitana; oppure: un gelato, un vestito o un elefante. Si può anche entrare, grazie ad un passante, in uno dei più moderni edifici: il “Marunouchi Building”, con la sua quarantina di piani, dove trovi tutte le cose che ho nominato e anche di più.
Sicuramente chi ha scritto la leggenda del labirinto si era perso come me in Tokyo Station.

Pare un miracolo, ma sono sul treno per Kamakura ed imbrocco anche la fermata giusta per scendere e non ritrovarmi così a Nagano in netto anticipo sui giochi olimpici invernali del 2103. Dopo aver sbagliato due o tre strade di questa ridente cittadina eccomi nel cuore pulsante del suo centro religioso.



Temperatura esterna 36°, umidità 95%, gradini in pietra che mi mancano alla pagoda principale 8.754.
Sudando come uno sherpa nel Sahara mi domando sulle ragioni inconscie del mio viaggio, poi sulla realtà causale dell’universo e le circostanze che determinano che io in questo momento non possa essere a casa mia con l’aria condizionata; Magari spaparanzato sul divano e in mano una birra ghiacciata “Corona” con limone mentre guardo in televisione la finale di nuoto sincronizzato femminile a squadre.
Perché? Mi domando, mentre il sole imbiondisce i miei capelli imperlati di sudore, e vivo immerso in questo microclima da bagno turco che pare avvolgere i miei passi caraccolanti.
Masochismo? Può darsi, ma le immagini che si prestano al mio sguardo meravigliato mi ripagano di questa tortura degna di Guantanamo.



Decido così di rimanere sino a sera e di passare la notte in questa città, domani andrò a Kyoto, non prima però di ritornare a casa di K, che mi farà da guida indigena per le prossime giornate.

Prima di addormentarmi ho una breve apparizione, un Buddha di pietra con capelli biondo platino mi ripete più volte, come un mantra: " Chi t'Ho fa-fà". Inutilmente tento di tradurre questa frase che è probabilmente in giapponese primordiale.

Mi addormento inquieto, mentre Lui: "il cane jet lag", latra sinistro alla mia destra.

Continua...

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