martedì 23 febbraio 2010

Giustizia sommaria


E' curioso come in questo mondo annoiato si cerca sempre l'estrosità per sollecitare una coscienza, un sapore ormai sopito.
Spesso con ricette di cattivo gusto.

In una trasmissione televisiva di cucina si è presentato il modo per cuocere un gatto.
Un gatto come pietanza! Il cuoco dichiarava candidamente che è stata una pratica comune in tempi di carestia, anche se ormai lontani dal nostro ricordo.
La preparazione del piatto in questione non era altro che un racconto sulle modalità di esecuzione. In casseruola per fortuna non c’era il povero micio.
Ne è seguita una bufera di polemiche, sollevata da animalisti e non, che ha portato al licenziamento dell’incauto gastronomo, un tipo anzianotto cui i capelli bianchi, evidentemente, non hanno regalato la saggezza.

A me pare però, ancora più strano che questo chef abbia avuto il placet della produzione, del regista, della commissione esaminatrice che approva il palinsesto della puntata.
Non è tanto grave che un vecchietto rincoglionito faccia una cazzata, ma è certo indicativo di un’ottusità diffusa che un sacco di gente ci va poi dietro.
Che paghi solamente il povero sclerotico mi sembra riduttivo rispetto alla catena delle responsabilità.

Questo fatto banale e inelegante mi ha fatto riflettere sul senso di equità e sui valori cui ad essa diamo.

Il concetto di Giustizia della maggioranza delle persone è per me un mistero.
Spesso il giudizio è un’incognita che si abbatte sul soggetto più evidente senza mai voler andare oltre la superficie.
Si condanna l'esecutore, quando va bene, quasi mai il mandante e ancora meno i fiancheggiatori. Questi ultimi correi con il loro silenzio che apre la strada, altrimenti impossibile da percorrere, per l'autore dell'azione riprovevole.

Si tace dunque sui molti che tacciono.

In questo modo ci si chiama fuori dal senso di responsabilità personale che dovrebbe in realtà vederci tutti sempre, in diversa misura, concausa di ciò che accade.
La vita non ammette ignoranza, mi verrebbe da parafrasare il noto detto leguleio, ma non vorrei essere troppo manicheo.
Ecco perchè non credo che una persona in cuor suo possa giudicare un altro, ma mi rendo conto anche che questa società abbisogna di regole, di limiti e di perimetri per trovare soluzioni.

Ignorando o volendo ignorare che ogni soluzione è sempre una trappola.

Non credo quindi nella legge, nell’ordinamento, nelle regole “tout court”, se non vissute attraverso la propria esperienza e condivise dal proprio sentire; Certamente non rispettate in ossequio ad un principio astratto o ad un imperativo morale al quale fare riferimento, sempre e comunque.
In definitiva è più onesto e vero aderire a regole fatte proprie perché metabolizzate e sperimentate, come già detto, nel proprio vissuto.
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Una volta stavo contraddicendo un mio amico su una questione che lo riguardava e che non mi trovava d'accordo, tutto questo di fronte ad altri e lui mi disse: "Tu mi devi sostenere soprattutto quando ho torto! Se avessi ragione non mi servirebbe un amico!".
Fa sorridere questa frase ma a me ha fatto molto pensare.
Siamo sempre chiamati a scegliere fra cuore e mente, fra regole codificate e attualità e non è mai facile.
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Penso che sia nelle nostre possibilità reagire, difenderci e magari punire qualche d’uno per un torto (presunto o reale che sia) subito.
Giudicare no, poiché il giudizio è sempre una spada a doppio taglio, mentre fende l'oggetto del nostro giudicare taglia anche noi.

Se si ha modo di osservarsi, quando sorge dentro di noi il giudizio non si può che convenire con questa constatazione.
Giudicare crea sempre una frattura, in primis in noi stessi.
Non mi interessa convincere nessuno, ma a me sembra un dato di fatto, come la gravità, la notte dopo il giorno, la pioggia che segue il sereno.

Siamo comunque chiamati dall'Esistenza a schierarci, a prendere posizione, a dire qualche cosa.
E' un paradosso che va riconciliato con una saggezza che non è facile realizzare, lo riconosco, ma non c'è altro da fare.
Non credo che abbia senso fare altro nella vita se non questo.

Penso anche che noi non possiamo giudicare perchè non possiamo conoscere se non in forma parziale, soggettiva, spesso non libera dai pregiudizi.
Così come non possiamo "fare" veramente per lo stesso motivo; Non siamo liberi di esercitare una volontà scevra da noi stessi cioè dai condizionamenti cui diamo l'aspetto di quel simulacro egoico che in maniera ridondante chiamiamo: personalità.

Un aneddoto.

Un giorno un mio amico parlava a proposito delle sue “creazioni” artistiche con un mio conoscente di Istambul e questi ci disse: “Sapete perchè è vietato nell'Islam rappresentare le immagini degli esseri viventi? Perché nel Giorno (del Giudizio), vi sarà richiesto di dare un'anima alle vostre immagini.
E voi non potrete farlo. Soltanto Dio ha il potere di creare”.

Solo Lui (o qualunque nome o pensiero si dia alla Vita) può creare, giudicare e conoscere il fine di ogni cosa. Ma questa è, naturalmente, un'altra storia...

Giusto per amore di chiacchiera aggiungo che l'Inferno dell'uomo è solo dentro di lui, in particolare, quando, con arroganza, si appropria di un diritto (il giudizio) che non merita.
Sono solo mie personali opinioni, ma penso altresì che non siamo noi i padroni di questo mondo.
Siamo ospiti ed è buona educazione comportarci come tali.
Il corpo tornerà alla terra, l'anima (se esiste) dovrà essere prima conquistata per essere reclamata come nostra davanti ai nostri antenati.
Loro ci attendono sulla soglia dell'Indifferenziato, ma dobbiamo meritarci il diritto di oltrepassare questo limite con Onore.
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Parole che appaiono anacronistiche in questo presente e che pronuncio sottovoce.
Nel cosiddetto uomo primitivo questa separazione tra Ego e Vita era meno evidente. Le culture animiste, nella loro apparente semplicità, proponevano un essere umano in una condizione paritaria rispetto alle piante, agli animali, al Tutto.
Questi uomini vivevano (ed uso il passato perché ormai non credo che ne esistano quasi più) in un rapporto simbiotico con la Natura.
Fluivano nel grande "Manà", "cantavano" la realtà che si creava, grazie a questo, innanzi a loro.
Essi, non vivevano così l'angoscia della separazione dal mondo che invece ci porta per mano a fare tante stupidate.
Per quanti soldi, sesso, beni uno può credere di possedere non potrà riempire il Vuoto sotteso in questa cesura.
Almeno io la vedo così.
Magari sono parole deliranti, ma forse, solamente perchè abbiamo smarrito la ragione.
Mi rendo conto che si è persa la capacità di percepire realtà più ampie, di rapportarci con dimensioni diverse che coesistono nel nostro attuale.
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L'eco però di questo canto antichissimo che ci indica una vita diversa risuona ancora un poco dentro di noi, sommerso solamente dalla cacofonia di domande senza senso.
Non è sufficiente però coglierne il significato all'ultimo momento.
Tutti di fronte al baratro cambiano, ma potrebbe non bastare il tempo.
Personalmente cerco di affrettarmi ma lentamente.

A proposito ancora di Giustizia ero bambino, quando assistevo in televisione all’inaugurazione dell’anno giudiziario, con quella parata di toghe ed ermellini e ascoltavo il discorso di apertura che enunciava gli stessi problemi che ho sentito l’anno scorso, alla medesima annuale celebrazione.
Sono però passati solamente quaranta anni.
Mi sono domandato spesso come mai i cosiddetti problemi sociali non trovano mai soluzione, forse perché semplicemente i problemi di molti non divengono i problemi di tutti.

E’ oltremodo bizzarro che la scuola, e tutti i sistemi di formazione tendano a fornire metodi e nozioni per “fare” e mai sistemi per “essere”.
Si studia dunque per saper lavorare e non per saper vivere.
Nessuno, a parte alcune scuole antiche esoteriche penso ormai estinte, desidera insegnare a pensare, sviluppando ed indirizzando nel modo “migliore” la logica del pensiero.
“Migliore” non in senso morale, ma semplicemente perché più ampio e nello stesso tempo più profondo, libero da quegli inutili orpelli di un ragionamento forviante.
Il potere della visione reale o almeno realistica delle cose non è sviluppato, come sarebbe logico, partendo dalla semplice azione di eliminare dal nostro cervello quei “pensieri parassiti” che distorcono la nostra visione appunto, che in definitiva non ci permettono di essere ciò che facciamo.

Questo è probabilmente determinato dall’errata concezione, sempre a mio modesto parere, che pensiamo già di saper pensare.
Esiste quindi, su questa base, quasi sempre una separazione fra ciò che facciamo e ciò che siamo, e in questoa linea di confine sottilissima ed invisibile si erge un muro invalicabile fra noi e la realtà.

Mi ricordo un paio di storie esemplificative che spiegano meglio quello che penso.
Sono due esperimenti psicologici.
Il primo esperimento è stato condotto più di venti anni or sono.
Ad un gruppo di persone è raccontata una storia e chiesto alla fine di esprimere la propria opinione. La storia è semplice.

Una donna, sposata ha un amante che vive in un altro quartiere della città. Questo quartiere è separato dal resto della città e situato su una piccola penisola circondata dal mare; ogni comunicazione con la terraferma deve transitare attraverso una sola strada che collega queste due parti. Diciamo che è un’isola collegata al resto della metropoli.

Come d’abitudine ogni settimana questa donna si reca dal suo amante e trascorre qualche ora piacevole nel appartamento dell’uomo.
Un giorno però, al momento di ritornare a casa, l’amante con una scusa puerile si rifiuta di accompagnarla.
Forse non l’ama più? Forse si è stancato di questa relazione adulterina? Ha un’altra donna? Questi pensieri tormentano la donna, ma nonostante questo decide di non approfondire la cosa e di tornare a casa da sola.
Prima però, alla radio, è diffusa una notizia.
Un pericoloso assassino si aggira nella città. L’annunciatore, consiglia cautela sino al momento che la polizia (già sulle tracce del delinquente) non lo arresti.

Nonostante queste brutte notizie, l’amante lascia che la donna torni a casa da sola. In fondo la casa di lei non è poi così lontana e manca veramente poco alla cattura del pericoloso criminale.

Durante il suo rientro solitario la donna si accorge però di essere seguita, preoccupata chiede aiuto ad un taxista per transitare in sicurezza l’unica strada principale che porta a casa sua, ma questi rifiuta.
Il turno del taxi è finito e il conducente vuole tornare dalla sua famiglia per cena e non sente ragioni.
La donna, scoraggiata, continua a piedi l’attraversata, ma sfortunatamente incontra l’assassino che si rivela essere proprio quel uomo misterioso che la seguiva e inevitabilmente la uccide.

Il gruppo campione si espirme in diverse percentuali in merito alla responsabilità di questo evento narrato.
Una parte incolpa la donna, fedifraga ed imprudente, altri invece incolpano l’amante che non ha saputo proteggere la ragazza; Altri addirittura il taxista o la polizia che non ha fatto abbastanza.
Solo un piccolo numero da la risposta più logica e semplice: la colpa è dell’assassino.

Il secondo esperimento verte ugualmente sul senso di consapevolezza e sul senso di giustizia.
E’ uno studio apparentemente diverso che porta in luce il modo di ragionare che adottiamo spesso in maniera automatica determinando così situazioni paradossali.

Un gruppo di volontari è diviso in due sottogruppi, una parte divengono i “prigionieri” e l’altro le“guardie”.
I prigionieri hanno una serie di regole abbastanza ferree da rispettare, mentre le guardie devono assicurarsi che queste leggi siano rispettate.
Sono regole a volte irrazionali cioè a prescindere da una qualsiasi logica.
Per esempio il gruppo di prigionieri un certo giorno devono fare certe cose e non altre. Oppure vestirsi in un certo modo, magari camminare partendo sempre con il piede sinistro ecc. ecc.
Evidentemente ogni tanto è rivelata qualche infrazione.
Alle guardie è così spiegato che siccome alcuni prigionieri non si sono attenuti alle regole e necessario in qualche modo adottare delle sanzioni, queste punizioni sono solamente un deterrente per l’ordine approvato e sono necessarie per la buona riuscita dell’esperimento.

Si presentata così la necessità di punire ed è instaurata una sorta di piccola tortura, alla quale tramite un congegno e non visti dal prigioniero, reo di una violazione, si somministra una piccola scarica elettrica al malcapitato. Solo un piccolo fastidio gli si dice.

Ebbene, la maggior parte del gruppo di “guardie”, somministra senza troppi problemi le punizioni, anche se il soggetto della tortura grida e si lamenta contraddicendo gli organizzatori che avevano assicurato che il congegno era quasi innocuo.
In una minoranza di secondini addirittura si assiste al nascere di un certo sadismo, giustificato magari dalle violazioni ripetute di un particolare prigioniero in una “excaletion” vessatoria senza rimorsi.

Il senso di responsabilità è quasi completamente sopito con la scusa di” aver eseguito gli ordini”, oppure che le urla sentite “parevano finte”, e via di seguito, adottando ogni sorta di giustificazione.

Solo un ristrettissimo numero esprime un rifiuto a questo comportamento disumano.
C’è da rimanere attoniti se non "scossi" a nostra volta.

Come è possibile vaccinarsi contro questa forma ipnotica di adattamento? Come è possibile mantenere desto il nostro senso critico e ancora di più la nostra umanità?
Forse a soluzioni precotte per questi comportamenti è preferibile far appello ad un esempio, ad una storia, che indica una stada di buon senso, lasciandoci però liberi di costruirla da noi stessi. E' una storia che ho letto e che trovo bellissima.

C'era una volta un vecchio monaco giapponese che viveva in solitudine in un remoto villaggio di montagna. Era molto amato dalla gente per la sua saggezza e per la sollecitudine con cui cercava di aiutare tutti.

Un giorno una ragazza nubile del villaggio rimase incinta e non volendo rivelare ai suoi genitori il nome del padre, tenne il segreto sino alla nascita del bimbo. Dopo però, esasperata dai continui interogatori dei familiari e volendo proteggere il vero padre di suo figlio, incolpò del fatto il povero monaco.
Fu subito uno scandalo.
I parenti della ragazza, furenti portarono il pargoletto al santo uomo che ascoltò con pazienza le rimostranze e poi gli insulti del gruppetto.
L'unico commentato del vecchio saggio fu un semplice: "Ah si?".
I genitori inferociti ancora di più lasciarono al monaco il nascituro perchè se ne occupasse e se ne andarono.
Trascorso un anno in cui il vecchio allevava amorevolmente il bimbo, subendo però, l'ostracismo di tutta la comunità, la verità venne fuori.
Il vero padre confessò il misfatto e decise di sposare la ragazza.
Tutta la famiglia allora per risolvere l'imbarazzo della situazione si recò nuovamente dal monaco.
Inutile dire che la questione era seguita da un grande interesse dalla gente curiosa del villaggio.
Giunti da lui si scusarono dell’accaduto alla belle e meglio e si ripresero quindi il bimbo.
L’unico commento del vecchio fu ancora un semplice: "Ah, si?".

Si sfiorano qui temi che andrebbero toccati probabilmente in una discussione più ampia, magari davanti ad una bottiglia di buon rosso.
Avendo anche a disposizione il tempo non solo per parlare ma soprattutto per ascoltare le parole ed i silenzi.
Non è forse la sede giusta e non è certo una questione di torto o ragione.
Non volendo lasciare dietro di me fraintendimenti, dico solo che sono due cose ben diverse "giudicare" e "prendere posizione".
Come già scritto, siamo necessariamente chiamati dall'Esistenza a dire qualche cosa e ad agire, altrimenti sarebbe come non vivere.
Quello di cui io parlo non è però una posizione "orientalista" né "buonista", della serie: "Nessuno mi può giudicar...", come cantava Caterina Caselli; o "Lascia che sia", tanto per continuare con le canzoni.
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Se per esempio abbiamo voglia di comprendere e di rispondere ad un discorso fatto da una persona, bisogna fare per forza un piccolo salto nell'altro, altrimenti facciamo solo prendere aria ai denti, non c'è una reale comunicazione.
Voglio cioè dire che alla stessa maniera è l'assolutismo delle idee e delle prospettive personali che trovo un impedimento nell'avvicinarsi al reale.
Non deve essere necessariamente un conformarsi ad un atteggiamento rinunciatario nei confronti del mondo, anzi...
E' una sfida, la sfida di conciliare un paradosso.
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Per esempio nella lotta, nel confronto forse anche nel conflitto l'essere umano è solo alla fine che comprende l'insensatezza di questo comportamento.
Attraverso la frustrazione di un'azione che si rivela senza senso l'uomo può capire che proiettia sempre e comunque il suo disagio sull'altro.
Se odiamo, odiamo alla fine solo noi stessi.
Cioè siamo così stupidi che impariamo solo con gli errori.
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Il giudizio su se stessi poi che ricorre tanto facilmente in noi è forse necessario, ma parimenti inutile e senza senso.
Non parlo di "osservazione di se", ma di "giudizio di se", e come prima sono cose molto diverse.
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Oggi le circostanze ti hanno sorriso e ti senti un grande uomo, domani il mondo è contro di te e ti senti un fallito.
Quale genere di Uomo può chiamarsi a giudice della sua vita se vive in balia delle conferme?
Quale forza, quale dignità, quali punti fermi ha raggiunto una persona così?
E non assomigliamo forse molto a questo piccolo uomo?
Tutti, tanto fragili di fronte alla vita.
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Cosa vogliamo mai giudicare se basta che non troviamo parcheggio per l'automobile per perdere il buon umore?
Vediamo dunque come intorno a noi, tutti, si va in giro con la mano tesa in cerca di amore e dell'applauso che ci fa sentire importanti.
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Quale Dio può ascoltare una preghiera di un essere tanto insicuro e nonostante questo così arrogante da giudicare il suo simile e il mondo?
Quanto è importante allora avvicinarci a quel semplice: "Ah si?".