martedì 12 ottobre 2010

La Rissa senza fine


In questo mondo affollato da esseri umani brulicanti la sensazione che ne ricavo talvolta è di completa estraneità.
Non per mancanza di amore o di umanità, ma per qualche cosa di più sottile eppure persistente, come un odore che mi perseguita, anche se apro le finestre.
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Avulso dalla realtà circostante certe volte mi guardo intorno è patisco una solitudine sconfinata.
Un dolore sordo e terribile che sorge dal fondo della mia anima.
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Molto spesso invece la ferocia dei comportamenti dei miei simili mi lascia stranito, mi ferisce, anche quando non mi colpisce direttamente; Così come l’insensibilità di tutti alla percezione della "quieta disperazione" che ci accomuna e che mi appare solo un’immensa follia condivisa.
Invece di sostenersi in questo breve sentiero impervio che è vivere, si preferisce buttarsi in una battaglia disputata su un precipizio che si sgretola man mano sotto i piedi.
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Si nuota in questo divenire come in un marasma torbido e ci si affoga pure a vicenda; Senza regole, senza rispetto finanche per i propri avversari. Senza la minima nobiltà di intenti e sentimenti che paiono ormai un tesoro inabissato nel buio fondale dell’incoscienza.
E' la tenebra dell’egoismo che avanza inesorabile, mani nere che ghermiscono e che ci fanno comodo, finché non ci raggiungono riducendoci in pezzi.
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La fantasmagoria di buoni sentimenti poi, con cui si ammantano le nostre azioni ciniche, ci farebbe sorridere se non fossimo noi stessi i protagonisti inconsapevoli di questa commedia degli equivoci.
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Si ama troppo spesso come in un Supermaket: si prende quello che serve e si esce dal negozio senza neanche salutare.
E’ un universo predatorio senza ritegno, senza orrore di se stesso.
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Si condividono insieme momenti della vita come se non ci fosse un domani cui dare un valore. Il nostro passato spesso non è rinnovato nel presente né tanto meno investito in un futuro che, sebbene incerto, si suppone possa essere così migliore.
Ci si dimentica delle cose buone avute per vivere invece nel rancore del male subito o per recriminare sulle aspettative disattese.
A volte si tocca il peggio con l’indifferenza con cui si pagano gli altri come fossero prostitute.

Tralascio la cronaca nera che ci descrive il mondo efferato in cui viviamo. E’ fin troppo facile additare comportamenti deviati, assassini spietati, ladri ingordi sino all'inverosimile.
Uno zoo di esseri che hanno veramente poco di umano. Organismi biologici dominati dalle pulsioni più abiette, ma anche dalla stupidità più ottusa, che gli fa credere che la felicità e il piacere presi a scapito di altri possano mai essere un buon affare.
Diavoli incarnati, forse e solo, perché nati e vissuti in un Inferno.
Certo stupidi oltre ogni limite, come chi si arricchisce smodatamente in un mondo di poveri.
Come può un uomo essere così ingordo da provare piacere nel mangiare su una tavola imbandita, e sotto di questa altre persone muoiono di fame e gli stingono le caviglie, mentre lui si riempie la pancia?
Persone del genere non riescono a comprendere che senza la condivisione non c'è nemmeno senso nell'avere.
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Preferisco così osservare ciò che mi accade, mettendo sui piatti della bilancia quanto riesco a dare e quanto ricavo.
In questo modo mi vedo nella mia completa incapacità di uscire dalla Gilda dei Mercanti di questo mondo. 
Questa riflessione mi consola che in fondo merito la mia pena, come un reo confesso mai veramente pentito.
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Il dubbio mi assale in particolare, quando penso che i sentimenti provati siano un affare che resta sempre circoscritto nel confine della mia pelle.
Non ho mai la certezza che ciò che provo con gli altri sia veramente spartito.
Per non parlare poi, del valore delle emozioni e sensazioni provate che è alla mercé delle transazioni di un mercato delirante, della fortuna, del caso e delle circostanze più assurde.
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Mi trovo così sordo alla vera musica dell’Amore, quando magari suona vicinissima e potrei udirla se non fossi distratto dal mio stesso pensiero, dalla cacofonia delle mie illusioni, dall'assurda proiezione del mio ego insignificante; Insignificante poiché costituito della stessa sostanza dei sogni.
Ci consideriamo generalmente l'unico proprietario della nostra soggettività, mentre in definitiva si osserva che siamo un condominio di personalità diverse (spesso contraddittorie) che abitano nel medesimo corpo.
Rabbrividisco nella constatazione che ascolto unicamente me stesso; Obbedisco solamente ai miei desideri capricciosi e così mi infliggo una pena con le mie stesse mani.
Sono la vittima, il carnefice e il giudice implacabile della mia vita.
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Ripenso ai momenti d’amore, ai baci ardenti, agli attimi intensi, alle carezze di una dolcezza infinita; Alle parole sussurrate nella notte e messe ai piedi della donna amata come perle rare distese su un velluto blu e illuminate dal riflesso della Luna, e mi domando: come è possibile che tutti questi eventi abbiano avuto un valore solo per pochi istanti?

Tutto è divorato dal tempo. La memoria è stinta da questo meccanismo ingordo che si nutre di ogni attimo dell'esistenza. 
Così ogni emozione evapora come una goccia d’acqua piovuta nel deserto. 
In questo luogo arido la siccità è determinata dalla pochezza di uno spirito senza rigoglio.
Pare che gli uomini e le donne di questo pianeta non abbiano facoltà di ricordare, e che io stesso non ne abbia; Non solo ci si scorda degli errori, ma anche delle cose buone.
Viviamo di miraggi che appena raggiunti svaniscono. In una costante ripetizione coattiva e stereotipata di pensieri, comportamenti e modelli.
Sprazzi di autenticità colorano a volte la tela monocromatica del quotidiano, ma sono eventi talmente lontani dalla "normalità" che spesso si classificano semplicemente come degli attimi di follia.
Non serve allora viaggiare, divertirsi, concedersi ogni lusso o vizio quando dentro la nostra mente non vi è mai una vera festa di rinnovamento.
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A che pro cambiare orizzonte e clima cercando il sole se dentro la nostra coscienza piove sempre?
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Mi sembra proprio una planetaria rissa dove ognuno brandisce una spada, affilata da una buona occasione, per lanciare fendenti nel buio ai propri simili; colpi che lacerano, feriscono, storpiano, mutilano con una rabbia che non conosce misura né misericordia; né soprattutto un vero perché.
Nella pazzia di questa mischia l’unico imperativo pare essere rimanere in piedi, durare il più a lungo possibile senza domandarsi il costo di questa perpetuazione e soprattutto di come ci si ridurrà una volta arrivati alla fine.
Spesso si vive una manciata d’anni alla bella e meglio inseguendo solo la speranza di trovare una porta che conduca fuori da questo Bar malfamato.
Questa porta però non si trova, non l'abbiamo costruita, forse non c’è mai stata. Credere diversamente ci fa immediatamente aderire alle superstizioni più bizzarre.
Può capitare che disegniamo sul muro di questo locale tetro un rettangolo, magari con un gessetto colorato, e ci convinciamo che sia un cancello. Presuntuosamente lo indichiamo agli altri come un’uscita, ma solamente perché sarebbe troppo difficile ammettere che ci siamo persi in questo labirinto.
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Allora, che senso ha tutto questo affanno? Questa faida eterna? Se non macchiare di fango e sangue ancora di più la nostra anima tutt'altro che candida.
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Uomini e donne usati e poi buttati in un angolo come abiti stretti o semplicemente passati di moda.
Si fa spazio per le schiere di una nuova generazione che ripeterà gli stessi identici errori.
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Il senso di queste umane vicissitudini?
Il premio per la vittoria di questa lotta senza quartiere?
Non si capisce quale sia e tutta l’umanità mi appare così: una montagna di scarpe spaiate e malconce che svettano sotto un cielo indifferente.
Un’immagine che mi ricorda la raccolta degli effetti personali di quanti finivano nei Lager.
Questi poveretti cantavano sotto la doccia che avrebbe dovuto lavarli, ma che in realtà li asfissiava. Il paragone con il nostro odierno mi appare evidente nei fraintendimenti che guidano le azioni e ancor più i risultati.
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Le immagini crudeli di uno sterminio avvenuto solo poco più di sessanta anni fa ci sconvolgono se ci soffermiamo ad immaginarle, parimenti al disorientamento che si prova nell'incapacità di esprimere la vita, la speranza e la bellezza insita in ogni uomo.
Chi può aprir bocca per questi deportati? 
Chi potrà parlare per noi?
Forse i nostri beni? 
Non credo, gli oggetti sovente costituiscono la brama del nostro vivere e paradossalmente spesso ci sopravvivono, ma non ci posso raccontare; Così come le montagne di oggetti requisiti nei campi di concentramento non possono descrivere l'Olocausto.
Solo le persone possono. 
Uomini e donne che hanno condiviso con noi qualche momento. A patto che questi ricordi non siano cancellati della superficialità, la più terribile delle amnesie perché dimentica, per prima cosa, il cuore.
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In realtà quando scordiamo gli altri ci scordiamo di noi stessi ed allora, tutti i momenti vissuti saranno destinati a perdersi prematuramente… Come foglie cadute dai rami, prima che giunga l’autunno.
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giovedì 30 settembre 2010

Il grande Pusher



Pare che la televisione renda più stupide le persone.
Dati clinici dimostrano che la lettura de: Il medico di campagna, di Kafka aumenti l'intelligenza.
Non ho idea se anche la rilettura all'infinito di questo libro può, in teoria, elevare qualunque idiota a genio.
In questo caso avrei delle ottime chances.




Evito quindi di guardare molto la tv e ultimamente, purtroppo, leggo poco.
Non rischio così di diventare talmente captativo da cogliere la cosiddetta "visione d'insieme" che mi farebbe penso, impazzire o precipitare nel baratro della mia anima in pochi istanti.
La mediocrità mi imprigiona, ma alla fine mi protegge.

Riflettevo malinconicamente ieri su questa esistenza senza senso apparente, nell'attesa di una fine certa quanto sconosciuta. Pensieri allegri, lo so, nei quali talvolta indulgo, ma che non riesco ad allontanare dalla mia ragione. Non posso fare a meno di valutare le coincidenze beffarde del destino, i curiosi casi della vita, il perfido umorismo della realtà. Tutti elementi che danno a pochi, molto e, a tutti, comunque una costante insoddisfazione.



Poi, ho interrotto queste meste elucubrazioni quaresimali per una serata con gli amici.
Sono rientrato a casa a notte fonda contento come un bimbo dopo la poppata e senza un pensiero.

Mentre giravo la chiave nella serratura della porta di casa ho compreso quanto il mio cervello fosse un drogato.


Fulminato da questa rivelazione ho ragionato su come abbiamo, un po’ tutti, solo bisogno di abbondanza di neurotrasmettitori come: Serotonina, Noradrenalina, Dopamina, Endorfina (quest'ultima simile alla Morfina) e via di seguito.


Sostanze che vengono prodotte dal sistema nervoso centrale nei momenti intensi di piacere. Molecole che ci danno la forza per un altro giro di valzer, in questo folle ballo in maschera che presuntuosamente chiamiamo vivere.
Il modo di procurarsi queste "quantità limitate" avviene nei modi più disparati ed è il senso del continuo affanno di noi poveri diavoli.

Siamo sempre alla ricerca di un pusher, per una nuova dose.


Chi si "cala" con il lavoro, chi con il sesso, chi con la famiglia, col potere, con la fama. Ad ognuno il suo sballo, l'importante è distrarsi, sottrarsi in particolare dall'orrore del proprio egoismo e alla solitudine della propria anima monca.


Anche la tanta esaltata "spiritualità" non supera questo vallo insormontabile.


Dio non è forse il più grande pusher? Non ci aspetta forse sull'entrata della grande discoteca del Paradiso sbracciandosi per raccogliere nuovi clienti con un bel sorrisone di circostanza?


Non ci promette, grazie ai suoi rappresentati in questo porco mondo, il miraggio di poter godere una felicità senza tempo? Una contentezza libera dalle responsabilità delle nostre azioni?


Ci ficca in bocca una bella pastiglia fatta di assurdità condite di buoni sentimenti e ci strizza l'occhiolino.


"Ora sei dei miei", pare dirti seducente e ti fa accomodare come un eterno irresponsabile adolescente, sedato dal Nirvana, nel suo infinito Rave...Yeaaaaaaaaaah!

Ecco, inutile dire, che questa riflessione notturna mi ha tolto il buon umore, ma solo per venti secondi, per mia sfortuna.
Durante i quali ho avuto però, un girapalle fotonico.


Mi sono sentito uno schiavo; Uno schiavo di me stesso, ovvero un padrone terribile perchè non abdicabile; Un tiranno invulnerabile a qualunque attentato.
Allora, in un sussulto libertario ho ricordato William Ernest Henley: "Non mi importa quanto stretta può essere la porta...Quanto piena di castighi la vita, voglio ogni giorno essere il padrone del mio destino, il capitano della mia anima".

Se l'infausto divenire è certo, allora a che serve preoccuparsene?


Dovendo andarsene sicuramente da questa tavola imbandita, come sembra essere qualche volta la Vita, tanto vale, alzarsi a stomaco pieno. Ubriacarsi di consapevolezza, fare indigestione di emozioni, di conoscenza, di amore e anche, perché no? Di sofferenza, c'è né tanta in giro.


Parole grosse che ho perfino pensato sottovoce, ma che mi bollivano dentro in un’irrefrenabile moto di riscatto; Purtroppo disatteso quasi sempre dalla meschinità della mia pochezza, dalla debolezza congenita del tran, tran ipnotico dei miei giorni.

Così mi capita: talvota inciampo nella verità però mi rialzo sempre; Pulisco le mani sulle cosce e continuo come se nulla fosse...Ecchecazzo!

mercoledì 1 settembre 2010

Palinsesto Religioso

Perchè dovrei chiedere a qualcuno di raccontarmi la trama di un film, quando pagandone il biglietto, posso vederlo direttamente?

venerdì 20 agosto 2010

Lo sport estremo di vivere


Ascoltavo proprio ieri il telegiornale che enumerava i rischi della moda di questi nuovi sport pericolosi, che ora vanno tanto in voga, e dispensano sfortune peggio di un voodoo malefico.
Seguivano poi le notizie di bagnanti annegati, alpinisti sfracellati e di tutta quella masnada di vacanzieri che non riescono a star fermi neanche quando non hanno niente da fare.
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Da sempre sono convinto che l'uomo(?) faccia di tutto per complicarsi la vita, salvo poi lamentarsene e ancora più spesso, pentirsene.

Scoprirsi atleti è il sogno di quasi tutti. Altrimenti perchè lo sport sarebbe così seguito? La realtà è spesso dura, in questi casi: traumatica.

Personalmente, oltre ad una naturale struttura bio-meccanica molto efficiente non ho mai trascurato l'allenamento.
Nonostante questo, complice il tasso alcolico, l'euforia della notte, gli imprevisti che sono sempre in agguato (magari un marito geloso che rientra inaspettatamente) ho qualche cicatrice qua e là e qualche “ossicino” non è più come mamma lo ha fatto. Nel complesso però non mi posso lamentare, e se penso a tutte le volte che l’ho scampata posso chiamarmi: fortunato.
Quindi, preventivo ancora un po' di chilometri di autonomia prima della rottamazione cui tutti siamo destinati, sia che siamo fuoriserie oppure utilitarie.

Penso però con orrore ai rischi che corrono ogni estate i bagnanti inesperti, gli scalatori della domenica, gli occasionali sperimentatori di parapendio e sport similari che sfidano la gravità e ancor più la sorte.
Non stupisce la statistica dei decessi e le notizie di cronaca che stila un vero bollettino di guerra degli eroici caduti nell'adempimento di azioni futili.

"E' la selezione naturale", sostiene un mio caro amico.
Prima favoriva il più dotato (fisicamente e intellettualmente) ora il più prudente e paraculo.

Curiosamente è anche vero che una vita piatta lascia giusto il tempo di morire tranquilli.
Evito così gli estremismi che non sono mai un buon esempio.
Preferisco seguire il motto latino: "Si vis pacem para bellum" e mi tengo pronto ad ogni evenienza, ma senza rischiare inutilmente.

Se voglio provare l'ebbrezza adrenalica del pericolo faccio il 730, oppure gioco a rimpiattino parcheggiando l'automobile fra torme di ausiliari della sosta, feroci come molossi tibetani.
Anche gironzolare in bicicletta in certe ore di punta nella metropoli è rischioso, un po' come sbarcare ad Omaha Beach durante il D-day.
Se voglio invece sfidare la fortuna e necessito anche di un brivido peccaminoso, allora attraverso il corteo annuale del Gay Pride cittadino, e metto così a rischio la mia eterosessualità e anche la reputazione.
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Infine, se proprio voglio vivere l'azzardo, l’ignoto e l’inaspettato allora mi innamoro.
Non c’è cosa più pericolosa e che mette a nudo le debolezze, le aspettative, la fragilità di un uomo.
E’ lo sport estremo per eccelenza.
Per quanto si sia disposti a pagarene il premio non vi è assicurazione che possa garantirne il risultato.

Lo so, sono piaceri sottili, forse non eclatanti che non hanno la notorietà delle mode di oggi, ma che mantengono vivi e donano, talvolta, emozioni forti e vere senza il fastidioso sole della ribalta.

Sostengo così che gli sport estremi sono per uomini coraggiosi ma senza fantasia.

lunedì 14 giugno 2010

Te lo do io il Mundial

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Panem et circenses, così scriveva Giovenale.
Sono passati duemila anni da allora e non è cambiato quasi nulla.
Milioni di esseri inebetiti, prima innanzi ai gladiatori, ora davanti al moto ondulatorio, sinusoidale, ellittico di una palla calciata da miliardari in brache corte.
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Le grida della folla che esulta al goal segnato.
Manco gli venisse in tasca qualche fortuna.
Viceversa la disperazione più nera che cala sulla moltitudine, quasi un lutto, per la sconfitta dei propri beniamini.
L'opinione pubblica mondiale distratta (ma è mai stata attenta?) dai veri problemi, mentre i potenti razzolano e fanno affari sporchi in santa pace.
Fiumi di denaro spesi dietro al gioco, mentre non si trovavano mai fondi sufficienti per la ricerca medica e scientifica.
Strano pianeta e strani esseri ci vivono.

Così ragionava il Comandante, seduto sulla sua comoda poltrona nella sala di controllo dell'astronave Zaporat, al largo della cintura degli Asteroidi.
Osservava da moltissimi anni lo svolgersi della vita sulla terra, ultimamente ogni quattro di questi anni terresti si allestiva, fra l'interesse generale, la complessa organizzazione dei mondiali di calcio.
Questa era l'edizione del 2010, almeno secondo il loro primitivo calendario.
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Il comandante del vascello, recenemente nominato Ammiraglio, era stato incaricato di valutare questa civiltà in rapida crescita, era una missione delicatissima.
Infatti, era al vaglio del Gran Consiglio delle Menti Pure e Illuminate, la possibilità di annessione di questi curiosi esseri al Parlamento delle Razze Civili.
Parimenti si valutava anche la possibilità di una loro eliminazione, ma solo nel caso fossero emersi motivi fondati di pericolosità.
L'esperienza aveva dimostrato che era meglio così, le razze folli erano un problema per l'Universo intero, non si poteva fare diversamente.

Invece, ogni nuova razza ammessa doveva dimostrare di saper convivere con gli alti standard morali della Congregazione delle Razze Pacifiche.
Questo sistema aveva determinato una coesione di intenti e di comportamenti che aveva prodotto una prosperità reale e condivisa.
In caso di ammissione certamente questi umani sarebbe stati aiutati e molto.

I benefici di entrare in contatto con la Congregazione erano immensi.
Gli abitatori della terra sarebbero stati finalmente liberati delle malattie e dalla sovrapopolazione, dalla sofferenza -sia materiale che spirituale-.
In poche centinaia d'anni, con i suggerimenti degli "Illuminati" sarebbe fiorito un Paradiso sulla Terra.
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La decisione del Consiglio era appena pervenuta dal comunicatore subspaziale.
Si era giunti unanimemente alla conclusione che gli umani erano privi di qualsiasi logica obiettiva.
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Prova ne erano le assurde guerre, l'economia delirante che aumentava la povertà a scapito di una ricchezza iniqua, gli sprechi folli che altrimenti avrebbero consentito una vita degna a tutti.
Per non parlare del fiorire delle più assurde passioni sportive che occupavano, quasi costantemente, le menti di miliardi di loro mentre le cose andavano a ramengo.
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Non era stata giudicata veramente pericolosa, almeno nell'imediatezza dei prossimi mille anni, ma solo perchè tecnologicamente arretrata...L'ultima parola su di loro, però spettava all'Ammiraglio.
Egli, infatti, insieme al suo equipaggio, aveva dedicato quasi tutta la sua vita (lunghissima rispetto agli standard terrestri) a raccogliere informazioni da inoltrare al Gran Consiglio. L'Ammiraglio si era guadagnato una lunga esperienza di come girava questo mondo.
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C'era stato un tempo lontano in cui aveva perfino inviato, in epoche diverse, alcuni volontari sul pianeta per aiutarne lo sviluppo.
Era stato un fallimento, pensò scuotendo la testa con un vago sentore di malinconia.
Questi eroi erano scesi sul pianeta, animati da un alto senso morale e un amore profondo per la vita in tutte le sue forme, con l'intento di educare questi esseri.
Erano stati invece, quasi tutti, vilmente uccisi, prima ancora di aver potuto in qualche modo instillare nella mente degli umani le basi di una visione oggettiva della realtà. Condizione primaria questa per una esistenza felice.

Lo aveva particolarmente colpito il destino di uno di loro, un suo caro e giovane amico.
Questi barbari gli avevano riservato una fine lunga e orribile, impalandolo addiritturaa su una croce di legno.
Anche gli altri, però non avevano avuto molta più fortuna. Rinchiusi in manicomio, bruciati come eretici, torturati o semplicemente ignorati.
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Scacciò il pensiero di vendetta che vide sorgere. Niente doveva contaminare la sua essenza interiore cristallizzata. Doveva prendere una decisone libera e chiara.
La sua meditazione fu interrotta dopo un bel po' dal Nostromo che chiese:
"A Capità che faccio? Lancio sto' siluro fotonico per la distruzione completa di chilla fetenzia di pianeta o no?".
Così la profonda riflessione dell'Ammiraglio si concluse con un sospiro rassegnato e rispose:
"Non è necessario, Paisà, basta aspettare...diamogli tempo e faranno tutto da soli".
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Poi rivolto uno sguardo nostalgico verso Le Pleiadi aggiunse:
"Facitemopiacere, turnammo a'casa. Qui abbiamo solo perso un fottio di tiempo e tengo na'voglia di una tazzurella e'cafè de casa che nun' sape dicere".
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Il boato del motore ad antimateria ruggì, in perfetto sincrono con l'urlo dei tifosi del Parguay, la cui squadra aveva inaspettatamente battuto l'Italia all'ultimo minuto.
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giovedì 10 giugno 2010

Just a moment


“Chi teme la morte sicuramente non ha mai lavorato abbastanza”, questo pensiero scivola dalla mia mente per sedersi un attimo.

L'eterno riposo mi appare talvolta più seducente di una bella donna in abito lungo, più invitante di un piatto di fritto misto e pomodorini in una trattoria vicino al mare.
Finalmente libero da questo corpo materiale potrò un giorno, etereo e bellissimo, trascorre un tempo eterno in santa pace.

Mi mancheranno le fatiche del vivere quotidiano?
Il tedio di riempire il frigorifero sia in senso materiale che spirituale?
Avrò nostalgia delle sensazioni, dei brividi, delle passioni?

Non saprei, certo non mi mancheranno le ansie, le bollette da pagare, i litigi.
Non avrò rimpianto dei dolori del corpo, della mente e ancor meno di quelli che fanno più male: quelli dell'anima.

Il mio spirito non sarà più gravato da questo universo materiale, così pesante e grezzo.
Sperimenterò, allora il librarsi della mia essenza nello spazio infinito. Sarò un punto di consapevolezza fra le stelle, un vento solare che lambisce i pianeti lontani.
Sarò un viaggiatore senza bagaglio, senza meta e senza fretta alcuna.

Quanto lontani dunque mi sembreranno i caldi estivi e gli inverni lunghi come una steppa.
Gli amori poi, che ardevano il cuore fino a consumarlo e le risate degli amici gorgoglianti come un ruscello di montagna che rinfresca… Saranno lontani come un eco indistinto. Appariranno come lampi di esistenza che vanno e vengono, intermittenti percussioni nella musica del silenzio.
Giungerà l’alba di una perfetta autarchia.
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Cos’è questo rumore assordante?
Pare una sirena di uno Stukas in picchiata su di me.
E’ invece un clackson che urla alle mie spalle.
Inserisco la marcia e riparto con una sgommata nervosa.
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Mi ero appisolato solo un attimo, ma porca puttana è ancora tempo di vivere.

martedì 8 giugno 2010

Millenium Novo


Può un personaggio immaginario determinare il successo di un libro? Anche il successo del film cui si ispira? A prescindere dalla grandezza della storia e da come è raccontata ?
Pare di si.

E’ il caso di Millenium, trilogia tinta di giallo del giornalista svedese Stieg Larsson, morto qualche anno fa a cinquanta anni di infarto lasciando in eredità tre libri mai pubblicati.
In seguito ad una serie di circostanze fortuite la divulgazione dei tre romanzi è avvenuta postuma e con la pubblicazione anche il successo editoriale. Un successo eccezionale, inaspettato e fatto proprio dal cinema che ha realizzato tre film di grande consenso.

I diritti milionari di questa popolarità tardiva sono stati accaparrati dal padre e dal fratello dell’autore (con cui non andava d’accordo), in spregio alla sua compagna e collega che aveva collaborato alle fatiche della stesura dell'opera e con cui aveva diviso oltre trenta anni di vita lavorativa e sentimentale.
Questa almeno è la cronaca contemporanea e la notizia non è priva di una certa ironia, in quanto la storia dei tre romanzi si staglia su un fosco panorama di soprusi perpetrati particolarmente nei confronti delle donne.

La vicenda raccontata è un itinerario in tre titoli: -Uomini che odiano le donne, Donne che giocano con il fuoco, La Regina dei castelli di carta- .
La narrazione letteraria è lunga come un inverno, al modo di alcuni autori nordici.
Niente di particolare differenzia lo scritto dalla produzione comune sia nella trama che nei dialoghi. Ad un occhio obiettivo non si riesce a giustificare l’attenzione pubblica di cui gode.
Larsson non è certo James Elroy, questo va detto per amore di sincerità.

Il fatto strano o meglio la singolarità dell’opera è che nel libro, ed ancora di più nel film, il posto da protagonista è rubato da una donna al suo naturale detentore, cioè al giornalista Mikael Blomkvist il direttore della rivista Millenium che si occupa di scandali economico politici.
Una comprimaria che appare solo dopo la prima metà del racconto, ma che catalizza subito l’attenzione e la simpatia.

Questa donna è Lisbeth Salander, una giovane hacker socialmente emarginata posta in tutela da una struttura assistenziale delirante e bigotta, una burocrazia apparentemente irreprensibile come appare la stessa società svedese. La ragazza è assunta per un'indagine dal protagonista proprio grazie alle sue doti particolari.
Alla Salander è stata, infatti, diagnosticata la sindrome di Asperger, una forma particolare di autismo che “regala” ad alcune persone colpite da questa diversità capacità notevoli, a volte sorprendenti. Particolarmente in campi quali l’informatica e la matematica.
Questa è l'anamnesi che la descrive, ma questa donna supera la facile identificazione di “fenomeno” assumendo, da subito, un altro spessore.

Infatti, la sua diversità tratteggia una personalità complessa e carismatica che compensa la sua inabilità comunicativa con capacità superiori di analisi e logica.
Paradossalmente, lei che ha molto da dire non ha (o non vuole) nessuno cui rivolgersi.
Pare allora uno strano risarcimento della vita, donare grandi talenti a chi non riesce ad instaurare dei rapporti umani significativi se non in casi sporadici e al prezzo di molte difficoltà.

Lei diventa così man mano, il vero outsider della storia collaborando con il giornalista per questa investigazione e finendo poi, essa stessa, al centro di vicende criminali.
Da vera "ladro informatico" quale è riesce a rubare anche la ribalta, non solo al giornalista Blomkvist, ma a tutti gli uomini che si affacciano nel racconto. Uomini che brillano solo di una piattezza insignificante anche se ricoprono posizioni di rilievo.

Perfino i personaggi maschili che incarnano il male e che esprimono una ferocia potente e una violenza senza altra morale che il soddisfacimento delle proprie pulsioni, non riescono a colpire così forte e così in profondità. Non raggiungono il rilievo di questa anti-eroina. Il cui dolore, la cui pienezza, si esprime spesso in un mutismo assordante, cui basta un solo sguardo per trapassare nel medesimo tempo l’interlocutore e se stessa con il proprio passato nebbioso e terribile.

Lisbeth, tocca corde profonde nel sentire del lettore e ancora di più nello spettatore.
Merito probabilmente, nella versione filmica, della brava attrice che la interpreta: Noomi Rapace. Certo, ma non solo.

Credo che questa commistione di determinazione e disadattamento, di rifiuto delle convenzioni e genialità. Di coraggio anche corporeo, inaspettato in una donna fisicamente insignificante, incarna un ideale femminile estremamente attuale.
Questi elementi offrono spunti su cui si appoggia la simpatia prima, e l’ammirazione dopo che fanno amare un personaggio tanto originale.
Una figura presente probabilmente nel nostro inconscio sociale cui però ancora non ne abbiamo udito distintamente il richiamo.

L’uomo, il maschio, negli ultimi diecimila anni non ha realizzato poi molto.
I tentativi di cambiamenti radicali di vita comunitaria sono stati sempre degli insuccessi.
I problemi e le dinamiche sociali sono rimaste pressappoco le stesse, forse solo più subdole e raffinate. Prima c'erano gli schiavi ora i salariati, prima le guerre sante ora si adora il petrolio e il denaro.
Una volta si perseguiva la ricchezza ora si è compreso che il vero potere è il debito.
Chi controlla il debito delle nazioni, delle imprese, dei singoli è il vero padrone ed ha al guinzaglio questi soggetti. I vantaggi sono molteplici, uno per tutti? Il debito non si può rubare.
Le responsabilità e l'identificazione di questi "padroni" si perde nell'organigramma complesso di organizzazioni, fondazioni, enti e società multinazionali. Un dedalo di connessioni inestricabili che costruiscono un anonimato quasi perfetto, che regalano la sicurezza di non essere visibili. Non si spiegherebbe diversamente il sorriso di alcuni di loro che salturiamente finiscono sotto i riflettori dell'opinione pubblica, essi hanno il ghigno soddisfatto di chi non pagherà per i propri peccati.
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Un salariato, difficilmente ucciderà il proprio datore di lavoro nel sonno come accadeva ai tempi degli spartani e dell'antica Roma con le rivolte degli schiavi esasperati dalle vessazioni.
Si è compreso il vantaggio di non dover mantenere uno lavoratore, quando diventa vecchio e improduttivo. Ora c'è il licenziamento, la mobilità, la cassa integrazione, il lavoro interinale. La pensione(?) che viene elargita come un favore dopo aver messo le mani in tasca ad ogni contribuente per una vita intera.
Parole altisonoanti vengono pronunciate con sollenità da questi "personaggi" e coprono solamente tutte la stessa azione: il guadagno senza scrupoli.
La schiavitù, per esempio, non è terminata nel mondo per ragioni umanitarie, ma per ossequio alla logica economica. Questi "capitani d'industria" hanno semplicemente capito che è più economico andare con una prostituta piuttosto che mantenere una moglie che può magari ammalarsi e sicuramente invecchiare.
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Non si vede, dunque come si reprime blandamente il responsabile di una bancarotta fraudolenta o di un crac economico che procura al reo un bottino milionario senza quasi rischio, rispetto ad uno sprovveduto rapinatore che ruba qualche migliaio di euro?
Questi delinquenti in passamontagna e pistola in confronto ai malviventi in doppio petto e ventiquattrore appaiono dei veri dilettanti.
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Ora credo sia giunto il tempo delle donne, almeno questo pare dirci Lisbeth Salander.
"La rivoluzione è nostra", sembra esigere questo volto androgino di toccante femminilità.
Ma di quale tipo di donna stiamo parlando? Certamente non quella che si vede abitualmente in televisione o per strada. Una donna cioè omologata nello stereotipo universalmente condiviso da una società maschile. Donna, che assomiglia a ciò che gli uomini pensano di desiderare (o dominare?) e peggio ancora che assomiglia agli uomini nei suoi peggiori vizi e mancanze.

No, Lisbeth, è un prototipo diverso, unico, nuovo.
Il suo messaggio non si rivolge solo agli uomini come monito, ma anche alle donne come esempio.
Incarna così nell’immaginario uno strumento iconoclasta; capace di affermare se stessa oltre le regole, oltre i modelli che essa rifiuta, perché una definizione è parimenti un limite.
Pare, che riesca ad esprimere un concetto semplice, ma terribile: "Prima di rivoluzionare questo mondo, rivoluziona te stesso".
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Certamente una nuova costruzione non può poggiarsi su vecchie fondamenta.
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La sua forza non è negli slogan, non è nelle parole, non è nel suo modo di essere femminile in un mondo maschile. E' innanzitutto la forza di un'identità vissuta con la propria libertà personale, il resto viene dopo.
E’ una donna che supera a piè pari le convenzioni e pare dica, anzi gridi: “Io sono”, e non c’è altro da aggiungere.
Una figura apparentemente inquietante per un certo tipo di uomo. Ingestibile per la società come è fatta adesso, ma che con il suo comportamento anti-sociale mette a nudo le viltà del nostro mondo.
Proprio perché è un essere umano difficile che diviene preziosa, proprio perché è unica diviene bella.

E’ un catalizzatore nella vasca galvanica della collettività. Un mondo che come lo conosciamo ora è funzionale solo perché non messo veramente alla prova, è giusto solo grazie alla disinformazione. Un luogo pericoloso ed iniquo, ma camuffato da Luna Park.
Non sembra forse che ci si costringe tutti a non vedere la realtà per vivere così tranquilli? Così facendo è come accecarsi per poter camminare sereni in una landa piena di burroni.
Lisbeth, ha aperto gli occhi sull’orrore e non li ha più richiusi.

Mi piace pensare allora che esista da qualche parte del mondo un numero sempre crescente di donne così, ed è forse questo il merito del successo mediatico di un tale personaggio.
Mi piace pensare ancora che possa instillare il germe della rivolta in altre donne desiderose di cambiare.
Non adeguandosi certo al suo modello, ma ispirandosi alla sua unicità;
E così operare un cambiamento sociale cui l’uomo ha ormai rinunciato.
Si rende necessario non un nuovo modo per uscire da una situazione stagnante che soffoca e affoga ogni novità ma un nuovo essere umano.
Questo compito gravoso può essere portato solo da una società femminile che si regge però su basi proprie, nuove e libere dal condizionamento passato.
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Per una Donna del genere questo è il suo tempo finalmente giunto.
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venerdì 21 maggio 2010

Amare è un dolce naufragare

Il cuore in petto gli batteva forte come un tamburo.
Quanto tempo l'aveva desiderata, pensò, e un brivido percorse la sua schiena.


La sera, fresca di primavera, pareva magnifica sotto un manto di stelle galeotte. Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando si è giovani. La vide scendere dalle scale, con quel vestito lungo azzurro.

Appena lo scorse nella penombra del vicolo gli sorrise come solo lei sapeva fare; poi titubante si guardò alle spalle, per assicurarsi che nessuno in casa si fosse accorto della sua uscita proibita.

Era così giovane, pensò ancora lui, così bella e fresca.

Improvvisamente una carrozza rumorosa passò vicino. Gli zoccoli dei cavalli risuonarono sull'acciottolato come nacchere spagnole.

La prese per mano e si nascosero nel buio.

Finalmente l'eco si perse fra le case addormentate. Tutto tornò quiete.

Lei si abbandonò dolcemente contro il suo corpo. Lui la strinse delicatamente in un abbraccio e finalmente si baciarono. Il tempo allora, parve fermarsi e nel suo cuore eruppe un caleidoscopio di sentimenti dolcissimi. Fu così certo di amarla. Domani l'avrebbe chiesta in sposa al padre di lei, in fondo lui aveva già 19 anni e lavorava da un bel pò come aiuto del Connestabile del borgo.

Non era certo un ingenuo, la peste del 1620 gli aveva portato via tutti i parenti, ma lui era sopravvisuto, aveva imparato un mestiere; Ora era tempo di ricominciare, ricominciare con lei. Finalmente una futuro insieme, senza più sotterfugi, senza doversi incontrare di nascosto, vide innanzi a se una lunga vita che attendeva solo di essere vissuta.
Era felice. Poi si svegliò.

Nella stanza dell'ospedale avvolta dai neon vide i monitor di controllo che emettevano ritmici tintinnii. In bocca il sapore amaro della malattia. Intorno a lui scorse anche i volti dei figli e dei nipoti. Sembravano però al di là di un vetro coperto dal ghiaccio, ma nessuno mancava. Spostò lentamente la maschera di ossigeno e disse: "Ah! Potersi innamorare, ancora una sola volta".
Parlò piano, con un filo di voce e nessuno comprese le sue parole.

Non aveva più tempo. Allora sorrise di se stesso e si lasciò cadere per sempre in un dolce, lunghissimo silenzio.

giovedì 20 maggio 2010

Qual piuma al vento...


Mancava poco alla fine della sua giornata di lavoro.
Il pensiero di lei lo perseguitava ormai sin dalla mattina, da quando cioè finalmente era arrivata a casa sua.
Aveva dovuto recarsi in ufficio ma pregustava il momento del suo ritorno e del loro primo incontro romantico.
Avevano a disposizione non solo questa notte ma anche le altre a venire che avrebbero protetto come una morbida coperta il loro amore.
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Per quanto tempo l’aveva bramata! Ed ora, finalmente era arrivato il momento.
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Con il fiato corto salì le scale ed aprì la porta. Entrò in casa e si diresse subito in camera da letto.
Lei era stesa ad attenderlo… Soffice, sinuosa e con la bocca lasicva leggermente aperta lievemente piegata in un sorriso tentatore.
Era bella oltre ogni pensiero, le curve del corpo perfetto e liscio si intravedevano da sotto il lenzuolo che la copriva appena.
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Lui ebbe un’erezione tremenda, quasi dolorosa e deglutì anche le ultime parole che gli erano rimaste in gola.
Si spogliò lentamente. L’accarezzò in ogni sua intimità con le mani brulicanti e la baciò con la sua lingua avida.
Poi fu in lei e tutto si consumò nel silenzio, il loro amore non aveva bisogno delle parole.
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La luce rossa dell’abat-jour tingeva del color del tramonto i loro corpi e anche i mobili della stanza.
Facevano l’amore con un’intensità indescrivibile e in quel momento la sua mente fu ottenebrata dall’estasi; Così i movimenti delle sue pelvi si fecero frenetici.
Lei gonfia di tanta mascolinità, assorbiva in se la forza dirompente di questa passione virile.
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Poi accadde: Pam!....Un rumore molesto e inaspettato bucò questo momento di magia.
La sua venere gli sfuggì da sotto e cominciò a roteare velocissima per la stanza.
II Destino, beffardo e invidioso del loro amore, trovò nella finestra semiaperta un complice crudele.
La bambola gonfiabile uscì da quel pertugio con un sibilo sinistro e volò via sopra i tetti di questa città indifferente.
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Solo una lacrima calda e salata scese lungo il suo viso attonito come epitaffio di amor perduto.
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martedì 18 maggio 2010

Amici e Sacrifici


Era disperatamente innamorato, quasi alla follia.
Vederla, anche per un attimo in ufficio dove lavoravano assieme, gli faceva tornare il cuore in gola come da ragazzini.
Inaspettatamente una sera gli aveva chiesto di accompagnarla e poi, saliti in casa, avevano fatto l’amore.
Da allora viveva per un suo cenno.
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Fredda e scostante, a volte bambina, spesso si sfogava con lui per la relazione saltuaria con il loro “capo”, dal quale era continuamente sedotta ed abbandonata.
Lui soffriva e l'agognava nello stesso istante, avrebbe anche avvelenato l'altro se solo lei glielo avesse chiesto.
Lo teneva su una corda tesa e ogni tanto (ma molto raramente) gli donava il Paradiso.
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Mi raccontò questo, il mio amico, guardandosi le mani bianche e stringendole così forte da far impallidire ancora di più le nocche.
Fissava così un punto indefinito della stanza, mentre parlava con un tono imbarazzato di questo suo amore disperato.
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“Ti aiuterò”, gli dissi e lo congedai pensoso.
La cercai e dopo un paio di giorni la vidi in quel locale, che sapevo frequentava di solito con le amiche.
Chiacchiere amene, molti drink insieme, poi le sussurai una proposta indecente nell'orecchio. Lei rise e accettò con un sorriso malizioso.
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Giunti a casa ancora fumo, alcol e anche altro...Poi arrivò Tano, il mio conoscente superdotato.
La possedemmo entrambi, anche insieme, con inaudita passione e libidine. Togliendoci ogni voglia, senza pietà.
Alla fine, esausti ci salutammo ed era quasi l'alba, ma con la certezza che non ci saremmo più rivisti.
Quello che volevamo lo avevamo avuto ampiamente.
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Dopo, nel silenzio della stanza ancora satura dell’odore dell’orgia sorrisi e visionai il filmato amatoriale che avevo fatto di nascosto.
Ne mandai una copia con una e-mail al mio amico innamorato e una invece, per mio piacere, la pubblicai su you-tube.
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Prima di addormentarmi profondamente pensai: “A volte il male si vince con un male più grande però, quella...Che gran bella troia!”.
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venerdì 14 maggio 2010

Il Rito Genovese della Loggia Scozzese.


La notte era senza luna e senza stelle come si dice siano le notti adatte per i Sabba.
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Il bar Ottolina in via Tito Milvio era deserto. Forse perché semplicemente era il suo giorno di chiusura o magari perché era stato prescelto dalla confraternita come sede del rito; Il Fato era sempre benigno con i membri della Setta.
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La società segreta “I cugini de Ball” era molto attenta alla scelta delle sedi per la liturgia iniziatica.
Solo un Bar di periferia o in subordine una Bocciofila potevano avere i crismi geomantici necessari.
Dopo attento vaglio era stata scelta questa sede per la messa più importante, ovvero l’ingresso di una nuova adepta.
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Con fare circospetto, a bordo della sua Ape 50 amaranto tempestata di opali, il dott. Haemo Royd, ovvero il Gran Sacerdote, aspettava nervoso stringendo con le sue mani grandi il manubrio del Motopiaggio.
Intanto, il suo vice-vice assistente Jean du Yacht, stava cercando di forzare la saracinesca, ormai da circa venti minuti ma senza successo.
“Belin, ma quanto ci mette quel bradipo sedato?”, disse il Gran Muftì rivolto al suo primo Ciambellano seduto nel veicolo.
Visir, nel suo abito da Batman, calmo e silente viveva un momento di raccoglimento catartico a fianco del Gran Maestro di Loggia.
Le sue energie erano concentrate ad evitare la devastante flatulenza che aveva in “canna” e con cui lottava da una buona mezz’ora per evitare che detonasse, ma a denti stretti rispose.
“Pazienza, o Sommo, sapete com’è…Il vice-vice Ciambellano e svelto di lingua, ma tardo di mano”.
“Umpf!”, sbottò il Semprecalmo guardandosi nello specchietto retrovisore e sistemandosi il Turbante Sultanato con il vistoso rubino (falso) nel centro e con piuma (vera) di pavone che adornava il nobile copricapo, simbolo del suo potere.
Un fragore nella notte avvisò i cospiratori che la barriera era stata finalmente forzata.
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All’interno del locale li accolse un odore stagnante di superalcolici e gazzosa mista a un'effluvio di brioches scadute.
“Jean ancora un po’ e facevamo mattina”, disse Haemo con il suo tono cantilenante, ma avvolgente.
“Quella puttanazza di una schifosissimabaldracca di saracinesca non voleva cedere”, disse il sempreducato Jean, dondolando sui piedi imbarazzato e ricomponendo il giustaccuore del suo vestito Louis XIV azzurro, in sapiente abbinamento cromatico con i pantaloni alla zuava zebrati.

In fondo, era l’unico del gruppo che aveva seguito il corso per corrispondenza della Scuola Radio Elettra: “Scasso e furto facile in dieci lezioni”. Però nessuno aveva pagato le rate della scuola e il corso si era interrotto alla seconda dispensa...ma questi erano dettagli irrilevanti.
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“Dov’è Visir? Dove sono Porporina, Bluvelvet e l’iniziata non ci sono ancora?”, ruggì il Profondo, chiamando a raccolta i suoi prodi come Leonida gli Spartani alle Termopili, ma intorno a lui c’era solo il vuoto.
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Jean, appollaiato sul bancone era intento a scofanarsi le brioches del bar e bere a garganella da una bottiglia di Chinotto; Visir invece era in bagno a disincagliarsi dalla cintura lancia dardi di Batman per fare un varco ai vapori che avevano gonfiato enormemente il suo costume.
Un sospiro, uscito da sotto i baffi alla Magnum P.I. del grande figlio di Ippocrate e uno sguardo verso il soffitto furono gli unici segni rivelatori del suo disappunto.

Improvvisamente all'esterno si udì un rombo di ciclomotore smarmittato e uno stridire di freni stile "Fast and Furiors".

Erano arrivate le "ragazze", pensò il Semidivino e si sistemò la veste leopardata che sfiorava l'impiantito slanciando (per quanto possibile) la sua figura bassa ma ieratica.

All’interno del Tabernacolo Ottolina ferveva il fermento.
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“Jean, vacca troia sistema l’altare per il rito, almeno!”, disse il Gran Sacerdote Royd con un ringhio molossoide.
Con la bocca ancora piena di brioches avariate il buon vice-vice Ciambellano scese malvolentieri dal bancone e cominciò ad apprestare nella sala biliardo i paludamenti sacri.
“Visir!”, chiamò Haemo a se il fido Primo Ciambellano.
“Yawoll!”, disse l’uomo pipistrello aprendo le falde del grande mantello nero e calandosi dal soffitto dove era appena levitato a causa dei gas nobili prodotti.
“Pensaci tu ad istruire l’Iniziata…Mi raccomando: PRECISIONE!”, scandì lentamente l’ultima parola per essere certo che tutto funzionasse a dovere.
“E apri la finestra…Non capisco com'è in questo bar, specie in questo angolo, c'è una puzza tremenda”.
“Ri-yawoll!”, aderì Visir che conosceva le lingue straniere in maniera approssimativa.
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Le candele furono disposte a pentacolo, il tavolo da biliardo fu ricoperto dalla sacra coperta patchwork, dono della nonna di Haemo e adorna nel centro del vistoso emblema della Loggia: un barboncino con la lingua penzoloni che tenta una copula impossibile su uno dei bracci di un grande compasso.
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La luce era fioca a causa delle candele di sego prese al discount da quel “genovese” di Jean du Yacht che facevano poca luce. Solo il neon dell'ingresso funzionava, così il volenteroso vice-vice tentò di accendere tutte le luci pasticciando con il quadro elettrico, ma causò invece un corto circuito mostruoso.
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“Belan la madama! Prima le donne poi i bambini”, gridò Royd, sorpreso dal buio inaspettato e immaginando un blitz delle Teste di Cuoio.
Comparve invece Jean con una candela accesa in mano, ma tutto bruciacchiato. Aleggiava un curioso vapore azzurrino intorno alla parrucca bianca da cicisbeo che indossava usualmente nelle grandi adunanze; Poi disse: “L’impianto elettrico è andato! Celebreremo nell’ombra”.
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Solo il pensiero delle Vestali che stavano per fare il loro ingresso nell’abside lenì il disappunto del grandissimo figlio di Ippocrate che strorse inspiegabilmente e solo per un attimo il naso appena fu affiancato dal fidato Visir nel suo abito da supereroe ormai quasi sgonfio.
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Questo quadro, che per maestosità ricordava un dipinto di Velasquez, presentò i tre figuranti agli occhi delle due vestali e della novizia che entrarono in pompa magna (scusate la parola).

Il trio Virago, così denominato amabilmente dai membri maschili della confraternita esoterica fece il suo ingresso nel Tempio già perfettamente allestito.
Bluvelvet in abito tradizionale tirolese da pastorella con pecora impagliata al seguito.
Porporina con un vestito seicentesco, modello “Pompadur” (scusate di nuovo), di tafetà rosa e un neo finto a forma di hamburger sulla gota sinistra.
Da ultimo, la novizia Pipoca, in gonna scampanata, scarpe basse e golfino aderente da ballerina di rock acrobatico, perfetta riproduzione di teen-ager anni 50’.
Jean du Yacht deglutì rumorosamente, forse alla vista delle splendide dame o forse per le brioches non ancora perfettamente masticate che gli occludevano l’ugola con un bolo di calcestruzzo.
Il sempre concentrato Visir accese il suo Mp3 collegato all’impianto Hi-Fi della sua cintura multiuso e diffuse nei locali una musica liturgica: l’adagio di Albinoni cantato dagli Abba, una versione live quasi introvabile.
Il grande Taumaturgo Haemo Royd apri le braccia in un inequivocabile gesto benedicente.
Vennero così eiettati petali di rosa dal suo dispenser portatile sistemato nella fascia infrascapolare a mo' di zainetto.
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La tensione era palpabile come avrebbe detto un maniaco sull’autobus.
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La supplice adepta Pipoca, si inchinò con leggiadria verso i compagni e fu raggiunta dal Ciambellano Visir per essere accompagnata all’altare nella stanza rituale.
Visir, non molto pratico del vestito di Batman che aveva preso in prestito dal suo vicino di casa (noto pervertito), inciampò nel mantello e avanzò, a testa bassa, di alcuni passi rapidissimi e scomposti verso la danzatrice di Boggy-woggy; colpì così la poveretta con una “craniata” tremenda proprio sulla fronte e la fece stramazzare a terra a gambe all’aria in un volteggio degno della Comaneci.
“Cominciamo bene”, fu il commento lapidario della sagace Porporina.
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Il Lenitivo Royd, sollevando le maniche in un gesto che gli era congeniale disse: “Fate largo sono un medico…Opererò immantinente”, poi rivolto a Jean du Yacht continuò, “il bisturi e il divaricatore e acqua calda, presto!...La stiamo perdendo”.
Per fortuna, la giovane allieva si riprese quasi subito evitando così una tracheotomia lampo che era una delle specialità, insieme alle cozze marinate, del Grande Vate della chirurgia.
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La messa continuò quindi dopo questo piccolo disguido con le fasi di rito.
Haemo leggeva dal sacro libro della Loggia, recitando le frasi dal sapor antico ed oscuro che si srotolavano sul pavimento come un rosario blasfemo.
Gli occhi di brace, la voce cavernosa, il viso ispirato, davano alla figura un pathos immenso.
Non si era avveduto, il grande sacerdote, pregno dell’estasi, che la candela sorretta dal vice-vice Ciambellano Jean era pericolosamente vicina al suo turbante, il quale aveva cominciato a prender fuoco proprio dalla lunga piuma di pavone che gli dondolava sulla fronte.
Visir tentò di avvertirlo con piccoli colpi di tosse, ma il Sommo lo zittì con uno sguardo furioso.
Gli eventi degenerarono in pochi istanti quando il fumo invase la stanza.
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Dimentico della celebrazione il Semidivino Royd gridò: “Chi cazzo si fa le canne durante il rito? Eh?”, poi guardò inquisitore l'ignaro Jean du Yacht che cercò di indicargli di rimando con l'indice teso il turbante ormai divorato dalle fiamme, ma fu inutile.
Il captativo Visir, azzardò una reazione; Estrasse da una tasca segreta del suo costume un mini-estintore al Protossido di Azoto e diresse un potente getto criogenico verso il fuoco, ma probabilmente a causa della concitazione degli eventi, sbagliò di poco la mira beccando invece il dito indice teso del povero Jean Du Yacht e congelandolo all'stante.
Il malcapitato emise nel mentre un barrito terrificante.
Bluvelvet e Porporina cominciarono a gridare anche loro, forse per suggestione ipnotica o magari semplicemente si erano rotte le palle di questo casino e volevano andare a casa; anche perchè l'indomani ci sarebbero stati i saldi e bisognava svegliarsi presto.
L’Adepta si alzò di scatto dal biliardo votivo sul quale era distesa e disse: “Io me ne vado con le mie gambe, finchè sono in tempo”, indi ratta fuggì dalla saracinesca divelta.
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Il buon Royd con il turbante ormai preda del fuoco capì che forse aveva ingiustamente incolpato il suo vice-vice di fumare senza “passare”.
Prima di bruciare come un Bonzo, roteò su se stesso alla maniera di un Derviscio in una disperata danza Sufi che spense, giusto a tempo, il suo cervello.
La tragedia però incombeva ugualmente.
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L’ululato della sirena che si udì in lontananza riportò la concentrazione per un attimo nel famigerato gruppo.
“LaPulaCazzoPuttanaTroiaLuridaBagasciaImpestataeFetente!”, disse il sempre garbato Jean mentre si alitava disperatamente sul dito congelato simile ad un Calippo.
“Via, via”, gridava Porporina dalla strada già in sella al suo motorino: “Lotar”.

Accelerava al massimo nell'attesa di Bluvelvet, la quale in una fuga un po' scomposta saltò al volo atterrando con impeto sul sellino e facendolo impennare. Il ciclomotore partì come razzo verso il cielo, pareva una V2 tedesca diretta su Londra.
I tre bischeri, ormai nella confusione più totale, salirono alla bella meglio sull’Ape 50.
Il cicisbeo Jean non trovando posto all’interno dovette accontentarsi del cassonetto scoperto, abbrancandosi ai montanti pareva Sansone fra le colonne del tempio Filisteo.
La fuoriserie a tre ruote, rapida come una lumaca con l'artrosi, si dileguò appena a tempo mentre baluginavano nella notte le luci blu della forza pubblica.
La “Gazzella” dei Carabinieri si fermò con uno stridere di freni.
Nel momento che scesero i due prodi militari con le armi spianate si guardarono in faccia perplessi.
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“Brigadiè”, esordì l’Appuntato, Esposito Lo Cascio, rivolto al capopattuglia Rotunno Romolè.
“Stò a pazzià o aggé visto nu cicisbeo du setteciento cou’na parrucca da frocio in'goppa a n'Ape Piaggio tempestata te pietra preziuse?”
“Appuntà…io aggé visto Batman, assieme a uno co’u tubante preciso allo mio medico della mutua int'a'chilla fetenzia du motocarro!”
“Veramenta?”, disse Lo Cascio, stupito.
“Faciteme o piacere!”, rispose Rotunno con le mani congiunte e aggiunse: “Simmo vittime do mobbing…Appuntà, o'mobbing fa pazzià,! O’sapete?”.
“O’sape, o’sape”, concluse rassegnato l’Appuntato.
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Poi entrambi decisero di entrare nel bar oggetto di effrazione.
Quando stilarono il rapporto all’Autorità Giudiziaria fu omesso naturalmente ogni riferimento ai fuggitivi.
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L'intervento portò invece all'arresto della pecora impagliata sorpresa in flagranza di reato.
L'animale, dopo una condanna esemplare, aggravata dalla reticenza, fu tradotto presso il penitenziaro cittadino e, forse complice la convivenza coatta in cella, divenne l'amante di un noto Boss dei Caruggi , ma questa naturalmente è un'altra storia.

Della consorteria esoterica da allora non se ne seppe più nulla, anche se pare continui in gran segreto la sua opera munifica e visto come vanno le cose nel mondo pare abbia buon gioco.

Fine.

lunedì 19 aprile 2010

Canzoni stonate



Dalla semplice osservazione si hanno spesso spunti per ragionare bene.
Non credo che bisogna per forza di cose studiare molto per capire come va questo mondo, certamente bisogna pensare e guardare molto.
Come pensare e come guardare è probabilmente il punto di svolta fra un’interpretazione reale della vita o una visone superficiale o peggio, forviante.

Ci accostiamo a questo mondo materiale interpretandolo con la nostra mente che pesa ogni elemento, lo cataloga in: piacevole, doloroso, indifferente.
Dividere è proprio nella natura della razionalità umana, essa separa tutto in almeno due parti (la base minima per un’addizione) per valutare, trovare un nesso logico ed infine prevedere un risultato.
Nulla di male, questo modo ci ha permesso di creare una tecnologia efficente.
Peccato, o per fortuna, che per quanto riguarda l'interiorità, la soggettività, l'essenza di una persona questo sistema non funziona più.
Psiche e Soma, cuore e ragione, bene e male, amore e odio, spesso si confondono, direi che sono come i gemelli siamesi. E' impossibile separarli con un'operazione chirurgica, morirebbero entrambi.
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Integrare le due realtà della nostra vita, cioè quella oggettiva del mondo materiale, e quella soggettiva del mondo interiore delle emozioni e delle percezioni è come conciliare un paradosso, è simile a trovare una soluzione per una contraddizione.
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Se penso alla soggettività la trovo fatta principalmente di emozioni, esse si legano talvolta fortemente alla memoria colorando le immagini di cui, quest'ultima, è generalmente composta.
In questo modo si riesce a dare un passato al nostro vissuto che altimenti scorrerebbe senza traccia.
Quindi dentro di noi si crea un potentissimo mix di immagini (spesso parziali se non addirittura distorte) e le emozioni provate per un dato evento.
Immagini parziali ho detto perchè il grado di affidabilità di queste non è molto elevato. Basta mettere a confronto più persone testimoni dello stesso fatto per ricavarne impressioni tanto diverse che pare a volte non abbiano assistito alla stessa scena.
Anche i dettagli hanno però la loro importanza, un odore, una musica, una parola, spesso formano un nodo inestricabile con questi fotogrammi di vita e danno a questi un valore che li separa dalla routine. Una routine che ci scivola adosso e non viene quasi mai ricordata.
Ecco che allora questo curioso miscuglio casuale, assolutamente personale e inaffidabile di immagini, sensazioni corporee, emozioni e dettagli convive in misura diversa nei nostri ricordi. A questo passato opinabile noi diamo il nome altisonante di "vita".
Se osservassimo quello che sono le memorie più care oppure più dolorose con una visione oggettiva -come in un film- resteremmo probabilmente straniti dalla quantità di particolari che non sono mai esistiti e di altri invece mai colti, seppure palesi.
Sarebbe un vero shock constatare quanto la costruzione del nostro accaduto e quindi dell'idea che abbiamo di noi stessi poggia in realtà su una base così incerta.
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Trovare un'armonia in questo disordine non è un compito facile per nessuno né tanto meno penso di avere delle risposte o delle soluzioni ad un quesito tanto ampio.
Cerco, nel mio piccolo, di non separare le gambe quando cammino sul terreno sconnesso dell'esistenza, quando avanzo con un piede provo a non dimenticare l'altro che mi sostiene.
Mi spingo a guardare i fatti dall'alto, in una prospettiva più estesa, dove tutto si stempera nel paesaggio e non mi perdo così, in particolari che assumono troppo spesso il valore di un orizzonte finito.
Continuamente però sono distratto, richiamato per non dire costretto, a vivere in un mondo fatto di mille regole che non capisco, cui mi adeguo per quieto vivere, vigliaccheria e comodità ma che rendono miope il mio sguardo.

Penso però che cominciare a liberarsi dai preconcetti e verificare di persona almeno le cose cui diamo un valore particolare è già un buon inizio, io almeno provo a farlo da lì.
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In generale bisognerebbe sviluppare il piacere per il gusto agro-dolce della realtà, anche se si soffre terribilmente ogni volta che si accosta la lingua a questo strano frutto.
Parlando per tutti direi che spesso siamo vittima di noi stessi, il peggiore nemico della nostra vita.
Un nemico pericoloso perchè nascosto nelle tenebre del nostro spirito e scovarlo nel fondo di questo antro buio è una impresa per pochi.
Per scorgere qualche cosa in questa oscurità è necessario un lampo, un momento che ci riveli quello che non conosciamo o che spesso non vogliamo conoscere.
Ecco che allora la Vita ci da una mano mettendoci di fronte all'inaspettato.
Ci fa l'esame prima di impartirci la lezione.
A ben vedere anche con questo, difficilmente siamo costretti a giocare il tutto per tutto, a metterci completamente nudi per vedere le nostre deformità.
Mi domando allora di che cosa mai si parli quando, presuntuosamente, parliamo di noi.
Considerare queste cose mette in discussione le nostre piccole sicurezze e tutto sembra muoversi in questo nuovo mondo senza alcuna certezza.
Pare così a volte un moto apparente; Siamo veramente noi a muoverci oppure è ciò che ci circonda?
Tutti i nostri sforzi paiono tesi ad evitare un confronto con la verità che, sebbene auspicabile, atterrisce.
.A volte credo si debba cambiare pelle come un serpente se si vuol crescere, per liberarsi di un involucro ormai stretto.
Come lui anche noi patiamo un dolore lancinante.
.Ecco perchè nessuno vuole quasi mai vedere le meschinità di cui è fatto, la pochezza del suo pensiero, la debolezza con cui alimenta il suo spirito.
Si crede di aver dentro chissà quale tesoro ed invece è solo bigiotteria presa in prestito.
Agli altri però ci presentiamo con il nostro lato luminoso, ma l'ombra non solo ci segue, ma ci perseguita.
Per essere migliori bisognerebbe forse guardare in questa discarica che spesso diviene la nostra interiorità e cominciare a mettervi ordine.
Avviarci in questo modo a divenire, per esempio, padroni della nostra bontà, magari conoscendo la propria cattiveria sino in fondo.
Iniziare ad essere liberi di amare intensamente avendo però il coraggio di saper espirmere liberamente anche il nostro odio.
Gli estremi in qualche modo si devono sostenere ed è neccessario così aumentarne l'ampiezza di entrambi.
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Si può vivere forse con questa attitudine, solo se si è visto negli occhi quello che a volte sembra essere il mostro della Vita; una fantasma fatto di paura che evochiamo ogni volta che rinunciamo ad una sfida, ad un sogno, in poche parole a vivere.
Dovremmo saper riconoscere sinceramente che spesso ci tarpiamo le ali da soli per giustificare il fatto che non vogliamo volare.
.Quale uomo può dire con certezza di essere libero da tutto questo? Pochi, pochissimi. Se penso a me arrossisco solo a scriverne.
Certo so che la realtà alla fine si incontra così, ma "sapere" e "fare" sono due strade che si assomigliano finché non si percorrono. La prima ti riporta da dove sei partito lasciandoti sempre uguale, mentre la seconda ti conduce dove non avresti mai immaginato di arrivare e ti trasforma lungo il percorso.
Spero che prestare attenzione a questa differenza sia un aiuto, uno spunto, almeno per me, giunto come sono ad un’età in cui dovrei insegnare e invece proprio ora, mi sembra, comincio ogni tanto ad imparare.
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Pagarne poi il prezzo di tutto questo, avendo appreso che è alto, e non vi è garanzia di riuscita, è veramente compito degno di un Dio; al quale immagino tutti tendiamo la mano per un aiuto, senza però quasi mai domandarci se, questa mano, ce la siamo almeno lavata prima.
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Pare spietato ma alla fine ogni uomo dorme nel letto che si è fatto.
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Ecco, non so se ho cantato la canzone giusta, ma è così che la sento suonare nel mio cuore oggi.
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mercoledì 14 aprile 2010

Se cerchi l'alba...

I pinguini, mi ricordano gli uomini migliori.
Vivono eretti ed è probabilmente l'unica specie che ha scelto come noi una stazione così scomoda, ma che permette di scorgere un'orizzonte più ampio.
.Sono uccelli prestati al mare che sfidano il gelo vestendo in smoking.
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Affrontano ogni anno una lunga marcia fra i ghiacci dopo la schiusa delle uova.
Una lunghissima avanzata, stretti l'uno all'altro per vincere il freddo polare attraverso l'interminabile notte antartica.
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Così simili a noi che avanziamo nella notte incerta dell'Esistenza, persi se mai soli, vinti se mai senza una speranza di una nuova estate di sole.
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In questo mondo di ladri


Vita che si nutre di vita.
Ogni cosa è presa a qualche altro, alla Natura, al Mondo.
Egli, il grande Artista, il Proprietario di tutto, lascia fare ma tiene il conto.
Sarebbe utile riflettere prima di arraffare a piene mani che prima di uscire da questo negozio arriverà il momento di saldare.
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martedì 6 aprile 2010

Non seguitemi, mi sono perso


Spigolando nelle selva dei pensieri ogni tanto colgo una traccia che mi piace seguire.
Come si fa? Mi Domando.
Non lo so. Forse non ha senso trovare regole, ricette, medicamenti per questi eventi di vita vissuta che ci governano, nutrono, feriscono.
Ogni momento richiede nuove soluzioni.
Le certezze allora? No, grazie abbiamo già dato.
Non si dice così quando si vuole evitare un questuante?
Eppure, eppure, eppure, solo noi possiamo trovare la strada che ci riporta a casa.

Mi soffermo a volte a riflettere sulle apparenze che assumo un valore tanto importante. Tanto rilevante da abdicare il senso critico per un preconcetto, il quale non è che pigrizia di spirito.
La memoria poi…Un impostore così opinabile.
Fatta di ricordi, disegni indelebili nel nostro cervello, colorati però dalle emozioni che segnano il dipinto a tinte forti. Colori, tanto vivaci che rendono difficile riconoscere il disegno che c'è sotto.
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E’ stato detto che se l'uomo, d'improvviso, cogliesse la realtà per quella che è, morirebbe o impazzirebbe.
Non saprei come esprimermi a proposito, penso che è un tema caro alla fantascienza, degno di un romanzo di Philip H. Dick., ma che si avvicina spesso al nostro presente.
E' un universo distopico che si presenta a questi occhi, forse, finalmente aperti. Un orrido che dà le vertigini se ne vogliamo scorgere l'abisso.

Tornando sulla Terra, dove abitiamo, non resta poi molto per tracciare una traiettoria sicura.
Perse le mappe, forse rubate da un mago, non possiamo contare completamente sulla nostra visione limitata.
Come si fa?
Rimbalza di nuovo questa domanda nel cortile angusto della mia mente.
Resta solo il cuore, un muscolo concesso alle emozioni ed ai sentimenti.
Uno strumento negletto, fortemente inaffidabile, come dicono i cinici.
L'unica bussola, per me, che indica senza accompagnare ma che non sbaglia mai la rotta.

lunedì 15 marzo 2010

Sulla senescenza


Dipingere un quadro realistico del divenire non aiuta spesso il buon umore.
Ricordarsi poi che: "Invecchiare è l'unico modo per non morire", non giova a sopportare gli anni che passano e lasciano in noi molte cicatrici dolenti che fanno male anche quando non cambia il tempo.

La Vita ci insegna con severità a fare a meno del superfluo, ma spesso si indugia nel voler ripetere la lezione credendo così di godere ancora per un po' i privilegi di quando si era giovani alunni.
Si sfiora invece il ridicolo se solo ci si confronta con i compagni di classe. Si rimane a scuola come eterni studenti, quando si dovrebbe essere, a momenti, già pronti per la pensione.
Uomini e donne troppo grandi per quei banchi fatti per bambini.

Il tempo concesso non dovrebbe essere un bene da sprecare, ma una riserva da centellinare.
Non potendo aggiungerne sarebbe saggio non buttarlo via. In particolare non ripetendo gli stessi errori.
Il cambio di prospettive che l’Esistenza ci chiama ad osservare nello svolgersi della vita ci costringe a modificare i nostri orizzonti.
A volte restringendoli ma allungandoli in profondità.

Si dice che nell’antichità (chissà se poi era così) la vecchiaia era esaltata, ora mi pare sia invece negletta.
Costantemente i messaggi subliminali dell’informazione ci vogliono e ci spronano a riamanere eternamente giovani.
In pubblicità ci presentano vecchietti che fanno snowbord e copulano come quindicenni infoiati, grazie a questo o quel prodotto.
Siamo forse condannati a sembrare o peggio essere sempre dei teenagers?

Mi domando quale maturità si acquisisca nel trastullarsi sempre nei soliti giochi.
Sarà questa la ricetta della felicità? Vivere come a vent'anni avendone il triplo?
Mi viene da dubitarne.
Se non altro in ossequio alla Natura che, molto più saggia di noi, ci insegna obbligandoci a restituire ciò che ci è stato prestato; Essa ci aiuta così a comprendere il reale valore di ciò che è nostro, delle poche cose realmente importanti. Rilevanti proprio perché conquistate sull'unica terra cui valga la pena di dare battaglia: cioè dentro di noi.
Un luogo dove niente e nessuno può togliere ciò che è stato messo, diminuire e corrompere ciò che è stato edificato.

Parole come Amore, Amicizia, Onore, Dignità, Saggezza, Valore, additano qualità nobili, ma che fanno sorridere invece i nostri contemporanei che giustificano così con lo scherno le loro mancanze.
Queste persone apprentemente "soddisfattissime" disprezzano come sentimenti anacronistici ciò che sanno, in cuor loro , di non meritare.

Viviamo in momenti di esaltazione del mito, che mai come in questi tempi trova seguaci.
L'eroe (sempre giovane, bello e maledetto) deve morire nel momento di massima grandezza perchè il suo ricordo duri per sempre.
Egli baratta la sua giovane vita per non conosere il decadimento della Natura e l'oblio del tempo che passa.
E' dunque la celebrazione, nell'immaginario collettivo, dell'immortalità.
E' l'identificazione dei molti con una vita apparentemente straordinaria, ma breve; Per giustificare la propria, insignificante e quindi in ogni caso inutilmente lunga.

Questo excursus verso la senescenza mi ricorda Omero che sintetizza molto bene l’assurdità del senso che diamo talvolta al nostro vivere.
Scriveva così il grande narratore delle gesta degli eroi, e se lo dice lui contemporaneo di uomini come Ulisse, Achille, Ettore e donne come Elena o Clitennestra possiamo credergli:
"Non è del forte la guerra né dell'agile la corsa, perchè il Fato e il Tempo raggiungono ogni uomo".
Il Fato e il Tempo ci raggiungeranno certamente, ma solo se noi non gli andiamo incontro...magari con coraggio e con la serenità di un sorriso di chi ha finalmente compreso che quando non desideri nulla...hai già tutto.