lunedì 27 maggio 2013

Rincorrere il vento

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Si dice che il peccato preferito dal Diavolo sia la vanità, ma lo è certamente anche per l’uomo.

Parlo della vanità nella sua accezione più estesa, non certamente di quella che ci fa specchiare la mattina per sistemarci i capelli prima di uscire di casa.
Quel difetto dell'anima che gli antichi greci definivano come: Hýbris.
La vanità cioè costituita dalle ambizioni, dalla superbia, dalla tracotanza arrogante, dal desiderio di essere qualche cosa di speciale o di essere altro rispetto a ciò che si è.
Di quel desiderio perverso che promettendoci di  tirarci fuori dalla mediocrità invece ci appiattisce in essa.
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Così, se un nessuno vuole essere un qualcuno dovrà per forza essere qualcun'altro.
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Generalmente avviene che per adeguarci a dei modelli conformisti presentati come obiettivi alla fine ci assomigliamo tutti.
L’ambizione (vanità tutto è vanità) è usualmente un peccato che è considerato con bonarietà, quasi tollerato e, in alcuni ambienti, addirittura auspicato.
Per esempio, nel mondo del lavoro se una persona non ha una forte ambizione è considerato meno di niente, perché con lui il sistema ha le armi spuntate.
Come si può prevedere il comportamento e comandare o motivare come si dice con un certo eufemismo, non privo di umorismo, un uomo senza ambizioni?  E’ impossibile.
Diviene così per una società come la nostra un vero rivoluzionario.
Un essere da compatire se va bene o da eliminare se gli butta male, perché si chiama fuori dal mondo e dai meccanismi che lo regolano e lo sostengono.
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Personalmente considero la vanità il peccato più pericoloso, perché si trascina dietro tutti gli altri che generalmente nella classifica della maggioranza sono additati come peggiori, quali: l’egoismo, l'odio, l’ipocrisia, l’avidità, l’invidia.
Se non desiderassimo essere altro e molto di più di ciò che siamo, quale sarebbe il senso di tanti affanni che spingono i più rapaci a commettere tutti gli altri peccati considerati ben più gravi?
Se non volessimo raggiungere un traguardo ambito per pavoneggiarci con superbia sugli altri e goderne i privilegi a discapito dei molti che non li hanno, perché mai dovremmo desiderare di vincere a qualunque costo?
Come aveva ragione il buon Oscar Wilde quando dicieva che "l'ambizione è l'ultimo rifugio dei falliti". 
Tutto allora trova senso e motivo in questa pulsione apparentemente innocua come la vanità.
E’ la matrice di mali assai peggiori.
Ci scagliamo con il dito accusatore sui suoi figli, ma la vanità è la madre di tutte le più abbiette azioni che si compiono ogni giorno.

Molti sostengono che sia un istinto naturale, se così fosse lo avrebbero anche gli animali, ma non ho mai conosciuto un cane che ha l’ambizione di essere che ne so, una gallina. Vive beato la sua "canità" e non si cura di altro.
Molti allora ribattono che è una qualità necessaria, addirittura allo sviluppo, alla crescita, all’evoluzione dell’uomo.
Identificando lo sviluppo con la ricchezza. Una ricchezza che si mostra dimenticando almeno il pudore che la connaturava prima delll'avvento della civiltà industriale,. Eleggendo il profitto a termine di valore, l'ostentazione a simbolo di successo personale si crede che questo porterà ad un mondo migliore. Il traguardo promesso da questo modello di vita è il solito: la felicità. Alla resa dei conti di questa promessa si constata che siamo tutti poveri di qualche cosa.
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Per lavarsi la coscienza questi anni vedono il parto di un nuovo salvatore: la filantropia. Figlia di questo momento storico è un pregio che maschera un vizio. E' il puerile tentativo di riabilitarsi agli occhi dei molti disagiati per salvaguardare ancora una volta se stessi, il proprio buon nome e l'esigua elite di sfruttatori, dinnanzi al giudizio critico della società che guarda ambiguamente alla ricchezza e ad una posizione abnormi rispetto alle reali necessità dell'individuo.
Ambiguamente, perché se da un lato quasi tutti si levano il cappello e chinano il capo di fronte al potente di turno ugualmente nel proprio intimo covano il rancore e l'invidia.
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Può darsi che questa ambizione tinta di  vanità e superbia abbia in alcuni casi costituito uno stimolo, ma il prezzo che si è pagato la rende conveniente?
I miliardi di morti delle guerre fatte durante la storia dell’umanità, le persecuzioni, lo sfruttamento dei più deboli, il colonialismo, la schiavitù ce li siamo già dimenticati?
Uno sfruttamento che è operato, anzi perpetrato ancora oggi ma in maniera più subdola.

Salto di palla in frasca per esprimermi meglio.
Il libro più venduto in questo momento è la biografia di Agassi; Un tennista ex campione del mondo, il quale ammette dopo una vita spesa a correre dietro ad una pallina gialla per mandarla oltre una rete usando solo una racchetta che ha sempre odiato il tennis.
Stupore generale.
Poi, si legge che è stato condizionato dal padre che ha costruito con una disciplina disumana la sua storia di campione.
Ora finalmente la rivelazione. Applausi, lacrime qualche pacca sulla spalla.
Se, più intelligentemente, avesse vissuto la sua vita come voleva da subito ora non raccoglierebbe alcun clamore ed invece è premiato con il consenso.
Perché? Perché quasi tutti fanno cose e vivono vite che non amano, tutti rincorrono in un modo o nell’altro un’ambizione, un successo deciso da altri. Tutti bramano una certezza che possa definirli in qualche modo. 
Tutti infine, sperano di avere la forza e l'onestà di buttare tutto alle ortiche un giorno e fare ed essere quello che sono, ma quel giorno non arriverà mai.
Alla gente comune piace ammantarsi di virtù che non manifesta in nessuna occasione ma pensa, chissà poi perché, che in qualche modo e in qualche misura queste qualità gli appartengono di diritto, magari per il solo fatto di essere un uomo o una donna.
Questo strano personaggio spiega a se stesso "Adesso non posso fare questa cosa perchè o altri impegni importanti, ma se volessi, se proprio mi trovassi nella necessità saprei tirare fuori questa qualità, quella forza, quella volontà e certamente lo farò ma più avanti, un giorno." 
Allora perché mai non manifesta queste virtù subito? Semplicemente, perché non le possiede, ma ammetterlo è troppo difficile.
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Tra le tante vanità la più incredibile partorita dall'uomo è l'idea di Dio, almeno com'è pensato generalmente.
Un essere perfetto che ha fatto però un mondo imperfetto, e se non si pensa che sia imperfetto basta guardare l'umanità che è a sua immagine e somiglianza.
Questo Essere Celeste che si dice sia buono ha fatto però una Natura così crudele che prospera grazie alla sopraffazione di una specie sull'altra, dove l'assasinio generalizzato è la pratica per nutrirsi e vivere, vivere in ogni caso solo per un po', visto che poi moriremo tutti. 
Che meraviglia!
La perfezione di questo contesto criminale generalizzato mi sfugge, ma forse è perchè sono un po' tonto.
Com'è scaltro invece l'uomo...Ammettere di essere Dio per glorificarsi oppure per mitigare la sua paura di morire sarebbe troppo anche per lui, visto come si comporta meschinamente nel quotidiano, allora si è inventato di essere il figlio di Dio, una sua emanazione.
"Non sono perfetto, ma...guardate mio papà. Un giorno sarò come Lui o almeno con Lui,  alla sua destra, alla sinistra, un po' più sotto o in balconata, magari più in là, ma ci sarò, aspettatemi che arrivo."
Che presunzione!
Non c'è bisogno di Dio per essere umili, basta un virus, anche un piede rotto, un mal di denti, per metterci in riga di fronte alla nostra insignificanza, ma l'uomo ha così poca memoria che appena dispone di qualche cartuccia comincia a sparare cazzate.
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Intanto il mondo continua a girare.
"Vedi quello…è il presidente. Quel altro…Oh! quello è il dottor…Hai visto invece quello? E’ il campione di…".
Ognuno vive con la sua bella etichetta sulla fronte e qualche volta tenta di cambiarla con una più redditizia.
In realtà entriamo in una gabbia di stereotipi più o meno convenienti e ne diveniamo prigionieri, molti ne sono perfino contenti.
Non siamo dunque esseri umani ma ruoli; Personaggi che indossano maschere diverse secondo il momento richiesto da questo avanspettacolo che definiamo vita.
Ora padre o madre, poi marito o moglie, dopo ancora dirigente, poi di nuovo cittadino, contribuente, uomo, donna, italiano, straniero e così via.
Il nostro vero Sé si intravvede tra un cambio e l'altro di questi abiti di scena, ma non è quasi mai riconosciuto dagli altri e ancor meno da noi stessi, forse perché sotto le luci del palcoscenico arriviamo già cambiati.
Ogni tanto nella penombra di un camerino solitario, questo attore senza altro vero talento che la menzogna si guarda allo specchio.
Il volto che scorge è di un estaneo.
L'immagine che ne trae è terrorizzante, un viso deforme rigato dalle lacrime, lacrime salate che dovrà inghiottire perché lo show non si può fermare.
Ogni maschera perciò ci definisce e solo la maschera può avere un perimetro certo, ma in realtà è evidente che ci rinchiude in una prigione.
La punizione poi per chi disattende le aspettative proprie del suo ruolo sociale è inesorabilmente spietata.
Il soldato che non vuole più uccidere è fucilato, il medico che prtatica l'eutanasia è un reietto, l’amministratore economico che non è avido nell'ingigantire il capitale non ha più nessun credito, il politico che diviene onesto non ha più seguito, la sua stessa onestà lo allontana dal compromesso e dallo scambio vicendevole di favori che da senso alla sua posizione. 
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Dunque all'interno di un ruolo non è possibile agire con una coscienza personale libera dalle regole insite al ruolo stesso.
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Chi non percorre il sentiero tortuoso dell’ambizione, della vanità, di essere altro da se stesso è buttato giù nel dirupo dell’indifferenza.
Non potremmo semplicemente: essere?
La semplicità è troppo complicata per l'essere umano, evidentemente.
Le domande che a nostro rischio dovremmo porci sono: “Si può realisticamente pensare di essere felici alimentando questa tensione continua fra ciò che siamo e ciò che vorremmo o dovremmo essere?
E' plausibile impersonare un ruolo che ci è estraneo e il più delle volte obbedendo ad un desiderio che non è nemmeno nostro, ma indotto dalla società, dalla famiglia, da un ego fatto di sogno?”
Mi pare evidente come questa schizofrenia non porti altro che sofferenza.
Il traguardo raggiunto diviene immediatamente la delusione patita ed ecco perchè ogni arrivo è spostato oltre, sempre più avanti per sostituirlo con una nuova vanità, con un'ambizione più ardita. 
Una ruota con il mondo dentro come un criceto la cui spinta per farla girare è la brama.

C’è una storia che trovo bellissima.

Racconta di un Mago che alla fine della sua carriera si ritirò in campagna ad allevare ovini.
Dopo qualche tempo si accorse che era un lavoro molto difficile.
Le pecore, infatti, una volta libere al pascolo non volevano tornare nel recinto; Spesso fuggivano perché non volevano essere rinchiuse e avevano paura di essere macellate.
Allora il Mago trovò una soluzione.
Le ipnotizzò.
Ad ogni pecora gli disse che era in realtà libera, che il recinto non era una prigione ma la sua casa, e soprattutto che lei non era una pecora, ma un altro animale.
Ad una disse “Tu sei un leone” ad un'altra invece “Tu sei un’aquila” e così via.
Le pecore da quel momento non fuggirono più.
Ogni sera tornavano mansuete al recinto e quando una di loro era macellata le altre rimanevano tranquille perché pensavano “Io non sono una pecora sono un altro animale e a me non succederà”.

Così tira avanti il nostro bel mondo.


giovedì 23 maggio 2013

Un brillante futuro alle spalle


Nel caso vivessi tanto mi riconoscerai sicuramente, sarò quello che fa le inpennate con la carrozzella nel corridoio dell’Istituto per anziani.  

Ti chiedo di non essere gelosa se, per caso, cercherò di molestare le infermiere con il mio "excalibur" ormai arrugginito.
Sarò irrimediabilmente innocuo.
Alla meglio potrò sollevare il plaid che mi ricopre le gambette catatoniche per mostrare il catetere a guisa di patetico simulacro di ciò che fu, una volta, uno svettante stendardo di maschia virilità.
Il tempo è uno spietato usuraio che a forza di interessi, alla fine ci deruba di tutto.

Probabilmente con la scusa di vederci poco, quando ti incontrerò,  cercherò di toccarti il sedere.  
Porta pazienza anche per questo e perdonami che tanto avrò il delirium tremens e potrò solo farti l'effetto del vibracall.

Credo, comunque che ci sarà da divertirsi rivangando i vecchi tempi, sorseggiando una “caipirosa” che altro non sarà che la versione analcolica del famoso cocktail, ma con la gazzosa.

Immagino uno stralcio del nostro incontro prossimo venturo come in un film ancora da sceneggiare, una sorta di aneddoto che forse accadrà ma raccontato in terza persona.

Lui, ormai calvo e con spessi occhialoni da miope, impennando la sua sedia a rotelle, ma con gomme tacconate da cross, si accosterà, con un perfetto parcheggio vicino a Lei, adagiata sulla sedia a dondolo nel giardinetto della casa di riposo, intenta a completare un sudoku in aramaico (vestita sobriamente in completo blu da corista).

Lui, sistemandosi la dentiera: “"Uè, ma tu sei la, la…Boh! Niente?"

Lei, con ritrosia: "Chi è lei? Vada via brutto teppista che altrimenti chiamo la polizia...Maniaco. Stia attento che sono esperta di kick-boxing”.
Lui, che è anche sordo: “Non sono trappista, sono laico”.

Lei: “Anche se è laido non mi impietosisce e poi io quella roba lì non la posso mangiare, non la digerisco”.

Lui: “?”
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Lei:: “…”

Passano i minuti nel silenzio.

Lui: “Cosa stavamo dicendo?”

Lei: “Non mi ricordo”

Lui: “Ci conosciamo per caso?”

Lei: “Mah! Forse ci siamo visti, lei è mai andato allo Zoo? Da spettatore, intendo.”

Lui: “Eh! Non ci sono più le stagioni di una volta, ma sa che lei mi ricorda una ragazza che conobbi….conobbi…in quel posto, non mi viene la parola,  ma sì per andare di là, quel posto là…Insomma ha capito?”

Lei, alzandosi: “Beh, devo andare alla partita di pallavolo. Oggi giochiamo contro i tetraplegici. Abbiamo messo su una squadra niente male con gli amici dell’Ospedale. L’unico problema sono le schiacciate…Sa com’è con la flebo non vengono bene le alzate a rete”.

Lui, fingendo interesse: “Eh già! Anch'io non dormo più come una volta”.

Lei: “Ora devo proprio andare, ho l’auto proprio qui in cortile,  magari la prossima volta parliamo, comunque mi chiamo…si insomma se vuole mi può chiamare Signora”.

Lui, con il labbro tumido, tremolante: “Signora? Sento già di amarla, si l'amo”

Signora: "Come fa a saperlo?"

Lui: "Quando sono vicino a lei mi manca...mi manca il fiato"

Signora: "Ma quella è l'asma"

Lui: "Allora, io l'asmo"
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Signora: “Ma sono già impegnata con un ragazzo di 96 anni di Geriatria”

Lui: “Posso magari sperare?”

Signora (sgommando sul suo bolide scoperto e sollevando un nuvolone): “La speranza è sempre l’ultima a morire”.

Lui, soffocando: "Coff! Coff! Ecchecazzo quanta polvere! Ti ho detto che già non mi fai respir...". 


Amo le storie a lieto fine.

venerdì 17 maggio 2013

I piccoli fazzoletti


C’è una bella espressione francese per indicare le bugie e anche quello che si vuol tentare di dimenticare: "Le mettre dans la poche avec le mouchoir par dessus" cioè mettere qualche cosa in tasca e coprirlo con un fazzoletto.

Un atteggiamento molto diffuso nel mondo e di cui non sono immune.

Di quante cose allora non parliamo, mentre conversiamo eloquentemente?
Si dice poco o quasi niente dei peccati che amiamo compiere, delle piccole o grandi viltà che ci mostrano comunque fragili, delle meschine debolezze con cui ci facciamo forti, dei sorrisi di circostanza tanto amari e dei silenzi comodi quando dovremmo invece alzare la voce.
Dimentichiamo invece di tacere, mentre gridiamo e ci infiammiamo nel sostenere le nostre personali ragioni a volte assurde, in ogni caso che ci convengono.
Presentando al mondo i nostri impeccabili difetti, siamo apparentemente “affettuosi” con gli amici ma in realtà silenti, spesso bugiardi, e tendenzialmente menefreghisti.
La sincerità è il più delle volte determinata da una mancanza di una via di uscita più comoda; E' solo un ladro colto sul fatto.
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I rapporti umani non sono facili, non sono mai lineari, ma seguono un sentiero tortuoso che sceglie di solito la via più lunga per arrivare in luoghi che a ben vedere nessuno vorrebbe visitare.
Un atteggiamento contraddittorio ci guida, spesso dominato dal capriccio del momento o dalla dose di serotonina che abbiamo a disposizione nel cervello.
Affidiamo la nostra vita a zattere di pensiero varate in un mare in perenne burrasca verso destinazioni incerte a interlocutori sconosciuti, perché l’altro è un mistero.
Uno spazio bianco nella mappa della vita che è un Portolano con poche terre segnate dove la Rosa dei Venti indica un nord di nessun sud nella rincorsa perenne verso un enigmatico presente.

Quanto conosciamo veramente di chi ci è vicino? Quanto conosciamo veramente di noi?
L’unica risposta sincera a questa domanda semplice, naturale quasi banale si trova solo nel mettersi alla prova.

Solo il confronto ci misura con onestà.
Non il risultato, però che è spesso in bàlia delle circostanze e degli eventi fortuiti, ma il prodotto onesto dell'atrito che siamo chiamati a determinare fra il nostro mondo interiore e la realtà oggettiva.
Quanto spirito ardente, quanto di buono e grande profondiamo in un’azione?
Solo questo ci precisa e definisce chi ci è attorno, almeno se riusciamo a cogliere questo frammento di verità.
Non è certamente facile guardare il cuore di un altro essere umano; E' ben protetto sotto uno sterno duro come la pietra. Un sarcofago impenetrabile di un Faraone misterioso come una sfinge.
Non è facile nemmeno vedere il nostro stesso cuore con onestà, spietatamente direi. Lo illuminiamo con la coscienza, ma cogliamo sovente solo un’ombra fuggevole.

A volte parlando con persone, amici, gente cui voglio bene, patisco una pena infinita per la loro vita. Mi arriva come un’onda di sentimenti che mi sommerge e mi annega. Sputo acqua salata e con qualche vigorosa bracciata mi rifugio nel porto sicuro dell’indifferenza, del distacco, perché non sono abbastanza generoso; Forse è solo  ipocrisia o istinto di conservazione.
Sono però un naufrago anch’io nel mare della dimensione umana che mi appare estranea, lontana, diversa da come dovrebbe essere per avere un senso, una bellezza, una poesia.
Tutto è dolore, con occasionali momenti di quiete e ancora più rari e reali momenti di felicità e condivisone. La sofferenza è la matrice costitutiva del divenire, la radice della vita che si nutre di questa sensazione per crescere o almeno per continuare a esistere.
Non c'è fine a tutto questo, non c’è scampo.
E’ un gigantesco equivoco che se in qualche misura si cerca di spiegare si complica ulteriormente.
Un mare plumbeo di male che si rinnova continuamente e non evapora mai neanche con qualche giornata di sole.

Cerco di esprimermi, di spogliarmi dinanzi a chi mi vuole nudo, ma paradossalmente più l’altro è vicino più diventa difficile farmi udire e farmi vedere per ciò che realmente sono.
La trasmissione di concetti ed emozioni negli uomini è sempre un po' inadeguata e inversamente proporzionale alla distanza e all’interesse che una persona ricopre per noi. L'incomunicabilità con chi ci è vicino ci allontana. Gesti e parole paiono impoverirsi dei significati più complessi.
In questo prolisso silenzio mi soccorre ogni tanto la scrittura che, però non è una vera comunicazione né tanto meno una consolazione.
Infatti, non si rivolge a qualcuno in particolare, ma è una sorta di io narrante che parla a me stesso, coinvolgendo uno sconosciuto lettore di cui non è prevedibile avere la misura dell’effetto delle parole scritte, delle intuizioni prospettate, degli aneddoti lasciati liberi come palloncini della festa che salgono verso l’azzurro, spinti dal vento del caso e forse non saranno mai colti.
E' un gioco, un artifizio con me stesso per andare nell’unica direzione possibile e percorribile: la profondità.
Quante cose dunque porto nelle mie tasche e ricopro con un fazzoletto? Tante, poche?
In ogni modo ci sono e appesantiscono il mio passo. Magari senza fazzoletti non ci sarebbero più lacrime? Il mio intuito mi guida in questa direzione.
Certamente queste tasche colme sono un fastidio cui non voglio più dare asilo.
L’ultima destinazione di un mondo pazzo è la follia? Forse è il modo che chiamo l’estrema saggezza di trascendere ogni paradosso.
Probabilmente è l’ultimo approdo di chi si è perso e nel perdersi si è ritrovato.

Solo il confronto mi dirà cos’è.
Leggero salpo verso un orizzonte che non ha più confine con il cielo.
Un profondo blu che abbraccio con un largo sorriso, perché non mi fa più paura.



lunedì 13 maggio 2013

La grande Luna Nera


Vendere ad altri il proprio penitenziario personale come fosse una suite di un Grand Hotel è proprio degli esseri umani ordinari.
Non gliene faccio una colpa.
Le persone normali sono anime semplici, spesso contente, hanno i buoni sentimenti, credono di amare.
Le persone normali sono felici delle partite di pallone, dei parenti, dei figli, degli hot dog caldi con tanta salsa, del Natale, pregano Dio anche se si fanno sempre i fatti loro.
Sono riconoscenti del lavoro da schiavi che arricchisce sempre qualche altro.
Per vederli veramente arrabbiati devi fargliela proprio grossa, cose gravi come spostargli la giornata del derby, occupargli il posteggio riservato, dirgli la verità sulla patetica esistenza che conducono.
Queste brave persone possono diventare molto feroci, ma solo per cose futili, cose che li riguardano direttamente, appena oltre la propria pelle o il proprio perimetro di proprietà, diventano ciechi e sordi e interrompono il collegamento con il cervello se mai c'è stato. Fanno molta fatica a concepire qualcosa che vada oltre la realizzazione immediata di un vantaggio, ogni altro evento è visto con lo stesso acume con cui una mucca al pascolo durante il tramonto guarda un treno che passa lontano.
Apparentemente si accontentano di poco e certo li compri con poco, un piatto di lenticchie. Li diverti e si distraggono facilmente con quattro piroette e due scoregge.
Ingrassano negli anni come mongolfiere di carne, intontiti dai trigliceridi.
Canticchiano e danzano verso la propria fossa senza mai una domanda che non riguardi altro che i loro impicci.
Si azzuffano pesantemente per delle leggerezze, sono pavidi nell’affrontare le questioni importanti e ignorano l'essenziale.
Non sono mai seri completamente, magari aggrottano le sopraciglia e hanno il volto crucciato, ma dietro questa maschera seriosa non c'è nessuno. Le parole che pronunciano sono come foglie cadute in autunno, tanto leggere da essere sospinte da un alito di vento, il vento mutevole della convenienza e del capriccio.
Come bimbi litigano per i giocattoli poi, una volta avuti, li dimenticano per correre dietro a quelli posseduti da qualche altro.
Si muovono frenetici e non arrivano mai da nessuna parte.
Non si domandano mai il senso di questo avanspettacolo.
Inconsapevoli comparse senza talento. Sono solo il coro che muggisce durante l'Aida, ma ognuno di loro si crede un gran Tenore.
Cercano di arraffare quello che possono turandosi il naso, chiudendosi gli occhi e lo prendono a turno nel bulibù, che alla fine, con l'abitudine, magari fa meno male.
Dicono di volere la libertà ma invece amano le proprie catene.
Il loro amore è misurato dal soddisfacimento immediato, dalla realizzazione delle proprie aspettative. E' una contabilità inesorabile di costi e ricavi che cerca solo il guadagno e così perdono tutto.
Quando parlano di amore questi poveretti non sanno neanche di cosa stanno parlando.
Vogliono solo vivere ma non sanno per cosa valga la pena vivere.
Discutono e giudicano dal loro piccolo, insignificante bozzolo con quegli occhietti di vetro, senza calore, senza dignità, senza sentimenti durevoli, senza forza d'animo.
Sono vissuti dalla vita e così temono la morte, perchè non sono mai stati realmente vivi.


lunedì 6 maggio 2013

La sagra dei morti viventi


Sono incappato in una delle molte sagre che con la primavera fioriscono nei paesi della lontana periferia, quando cambia nome e diventa campagna.
Al modo di certi marinai che per sfuggire alla bonaccia delle giornate sempre uguali approdano in un'isola per fare provviste e riposarsi, rischiando però se incontrano i feroci selvaggi che le abitano, una fine terribile.

La prima sorpresa è sorta nella contraddizione che ho trovato in questa festa paesana, diciamo rupestre che si ammantava dell’appellativo di “nostrana” ma sembrava invece un po’ finta; Dove si mangiava anche bene, ma sicuramente non era altrettanto facile digerire quanto si era mangiato.


Una perplessità che si è concentrata in particolare nell'osservare il gran numero di frequentatori attempati di questo convivio; personaggi anziani ma inossidabili, che partecipavano convinti e compunti ad un divertimento di altri tempi.


Uno spettacolo che ho trovavo in verità un po’ macabro, forse per i primi segni di decomposizione che punteggiavano la maggioranza dei partecipanti.
Non saprei che dire a tal proposito, sono troppo giovane per lasciarmi coninvolgere direttamente in questo spettacolo ma troppo vecchio per disprezzarlo completamente.


Certamente questa umanità di terza età mi è appariva sovralimentata. In particolare di grassi idrogenati e mi sembrava per certi aspetti un po’ aliena al mondo cui sono abituato. 

In città, le persone sono in generale abbastanza attente alla moda e sempre a dieta. Daccordo, con scarsi risultati, visto che il buon gusto resta una rarità e la linea, poi...Sembra che l'unica cosa che la gente in sovrappeso riesce facilmente a perdere con le regole alimentari è il proprio tempo.

A parte gli opinabili parallelismi tra la gente della metropoli e quelli di questa festa campestre, mi ha impressionato particolarmente l'aspetto di alcune signore, agghindate come Messalina, ma con meno moderazione che saltellavano un po' ovunque con delle caviglie gonfie come Zeppelin. Le ho trovate leggermente inquietanti.
Ho ammirato invece, la tempra, l'umana forza vitale di questi vecchietti.
Ventri capaci di ingurgitare quantità pantagrueliche di cibo e vino e poi roteare al ritmo di una polka che non finiva mai.
Il cibo ingerito tuttavia sembrava non soddisfarli né riempirli, quasi a sottolineare la totale inconsistenza materiale del mondo. 
In ogni caso performance che superano di gran lunga le normali capacità umane.
In definitiva miracoli della bio-meccanica in pizzi, raso e crinoline.
Ho immaginato fossero una specie di setta. Streghe e stregoni che avendo disegnato un invisibile cerchio magico intorno a questo Sabba geriatrico erano stati capaci in qualche modo di bandire l'artrosi, almeno per il tempo di una kermesse. 
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I cosiddetti giovani invece, i ragazzi, quando si incontrano nelle discoteche, nelle feste private, anche nei rave mi pare  si annoino perfino quando si divertono.
Gli anziani no, loro se la godono veramente, senza ritegno, disperatamente direi, ed è proprio così che bisognerebbe divertirsi.
Non so, ma una inspiegabile inquietudine  mi ha attraversato l'anima (generalmente imperturbabile e introvabile) nell'assistere  a questa celebrazione paesana.
Mi aspettavo, colto da un rigurgito paranoide che, finite le costolette e le braciole di maiale cotte su delle griglie lunghe come tapis roulant di un aeroporto, improvvisamente accadesse che questi ottuagenari ormai assuefatti ai trigliceridi e con carotidi dure come cavi d'acciaio, si avventassero sui più giovani partecipanti per sbranarli in un delirio cannibalesco; Magari per provare a saziare quella fame incontenibile che li divorava a loro volta.
Ho adottato istintivamente una strategia difensiva come certi insetti, trattenendo il fiato e rientrando il ventre così da sembrare magrissimo, tossendo rumorosamente e grattandomi furiosamente in ogni dove, fingendomi affetto da scabbia, scorbuto e pellagra; Notoriamente malattie endemiche nei luoghi lacustri e paludosi dove si allestiscono questi ritrovi.

Curiosamente, in questa schiera di sopravvissuti con un'aspettativa di vita così breve, serpeggiava invece così tanta entusiastica voglia di vivere e godere.
Alla fine della fiera sembravano dire, anzi urlare: "Mangia, bevi, balla, scopa fin che puoi; Non vi è altro che questo nel  folle mondo".
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E' così che succede e accadrà a tutti?
Speso quasi tutto il tempo a disposizione, si arriverà probabilmente a non avere più alcuna remora e si potrà essere se stessi in un oscuro bagliore di sincerità.

Pressappoco come la candela che prima di spegnersi emana sempre la sua luce più brillante.

In ogni caso sono risultato incommestibile persino a loro.