venerdì 18 marzo 2011

Vitae et mortis

-Parte prima- I giorni nell'Ade-


Il rumore della folla era un muggito indistinto che arrivava ad ondate ritmate infrangendosi sin nei sotterranei.

Il caldo opprimente mischiato all'odore del sangue e degli escrementi pareva sorgere dalle fogne stesse dell'Inferno. Un'esalazione che conosceva bene e gli bruciava le narici e la gola impedendogli quasi di respirare.
Era  arrivato il suo momento.

Improvvisamente lo sorprese un brivido, era la morte che si abbrancava alle sue gambe, un abbraccio freddo e malevolo che lo trascinava in una voragine di paura; Lo scacciò con rabbia, ma una stretta allo stomaco gli serrò le viscere rubandogli per un attimo ogni forza in corpo.

Si accorse che stava insinuandosi nella sua mente il terrore, il dubbio e l'incertezza. "No, no!", urlò a se stesso. Non doveva farsi sopraffare dalla paura, non ora. Per gli Dei, non ora! "Sono il più forte, sono il più svelto", disse quasi sottovoce percuotendosi diverse volte il torace con il piatto del gladio.

Il dolore di quei colpi si allargò come una ragnatela di fuoco sul suo petto segnato dalle ciccatrici e rinnovò in lui quella rabbia e quel livore fermentato in un'esistenza senza libertà. Solo lacrime, violenza e terrore gli erano rimasti come amici in questa vita, se ancora si poteva chiamare così questa sadica rappresentazione.

Quanto lontani gli parvero i giorni vissuti da persona libera. Giorni punteggiati d'amore e di serenità, ma che erano stati sepolti da secoli. Ricordi che ormai appartenevano ad altro uomo. Uomo? Poteva ancora chiamarsi così un essere cui avevano rubato l'umanità? Questa domanda però, non ebbe vita che per un attimo in lui perchè questo genere di pensieri non avevano più spazio per crescere nel suo cervello.

Il portone si spalancò all'improvviso accompagnato dal rumore dei cardini arrugginiti che sferzavano sul legno. Fu investito dalla luce intensa del sole. L'aria pareva densa, riempita delle grida della folla impazzita per lo spettacolo osceno. Respirò a bocca aperta cercando di estrarre da ogni alito la forza che gli serviva per arrivare sino alla fine. Corse rapido i metri in salita del corridoio sino all'arena.

Il suo vagito in quel mondo ostile fu un urlo animalesco, gutturale e profondo rivolto non tanto al suo oppositore, ma al suo destino. Gli occhi trasfigurati dalla rabbia non videro gli spettatori assiepati sugli spalti che parevano una massa indistinta di colori accesi, ma solo chi gli stava davanti. Il lottatore era al centro di questa sorta di teatro e lo aspettava dondolando con noncuranza la spada lungo il fianco. Non gli parve un uomo, ma solo un ostacolo, una barricata eretta contro un atro giorno di vita.

Il suo avversario era sporco ed armato come lui di una spada corta e di uno scudo rotondo, aveva l'elmo aperto sul davanti, quel poco da permettergli di scorgerne gli occhi vitrei. Aveva uno sguardo perso, da folle o semplicemente indifferente perfino al proprio fato; Avvolta ai fianchi aveva una benda rosso fuoco. Allora lui comprese la ragione per cui i soldati di guardia gli avevano fatto annodare come una cintura quel pezzo di stoffa blu, rendendo i duellanti riconoscibili agli scommettitori.

L'altro appariva robusto, con gambe possenti. Calzava delle protezioni di spesso cuoio sulle tibie ed indossava una corazza leggera simile alla sua che copriva le spalle e parte del petto, ma che lasciava libero il ventre e una porzione dei fianchi. Questo permetteva quel particolare tipo di ferita che prolungava il tempo dello spettacolo dilatando l'agonia dei gladiatori. La folla, resa ebbra dal sangue, poteva così godere per più tempo della battaglia.

Questi pensieri corsero rapidissimi nel suo cervello, lampi che schiarivano la situazione e lo aiutavano a prendere la migliore decisione per vincere. Generalmente si opponevano uomini con armi diverse, ma in questo caso il sorteggio aveva deciso in questo modo. Curiosamente, mentre valutava il suo avversario, gli parve di scorgere nell'altro come il riflesso di se stesso. Per un attimo si vide allo specchio. Fu solo un'impressione nella sua mente, fugace e terribile, che passò velocissima lasciandosi dietro solo una nota di stupore, una sorta di estraniazione delirante da quella cruda realtà. Adesso, però non c'era più tempo per i pensieri...Era il momento di combattere, anzi di uccidere.

Ora doveva esistere solo il presente.

Un colpo, poi un altro, rapidi e precisi si susseguono gli attacchi mentre il clangore delle lame rimbalza come un eco tra le staccionate alte dell'anfiteatro. L'apparente indolenza del suo avversario è completamente svanita. Combatte con una ferocia e una forza notevole. I colpi di entrambi sono accompagnati dai grugniti e dagli espiri pesanti che aiutano nella fatica. A parte questo solfeggio macabro il silenzio è totale. La folla, generalmente rumorosa è rapita per qualche momento dall'energia di questo duetto.

La sua intuizione precede di poco il fendente dell'avversario; E' un colpo forte e sordo che si abbatte dall'alto verso il basso direttamente sul suo scudo e regala un dolore acuto al braccio sinistro, mentre il metallo trasmette la vibrazione dell'urto che penetra sin nelle ossa. La sua mano è però temprata dall'allenamento e nonostante il colpo sia potente non molla la presa.

La lotta per la vita di solito dura poche manciate di secondi. Raramente si arriva oltre qualche minuto, ma per chi combatte paiono istanti infiniti colmi di tensione.

Così, dopo i primi assalti, il fiato si fa già corto.

Lui inspira profondamente e appena riprese le forze si lancia in una finta. Prima a destra e poi, rapido con un salto a sinistra. Una mossa che ha ripetuto tante volte durante l'allenamento e che sorprende il nemico. Gli dona uno spiraglio fra la corazza corta perchè l'altro ha fatto l'errore di indugiare più del dovuto con lo scudo alzato.

Quasi non c'è tempo di riflettere, la lama guizza come un serpente con un fendente montante e stretto che tocca. Penetra per pochi centimetri nel costato, aprendo un taglio che pare un sorriso. Non affonda oltre però, o potrebbe rimanere bloccata fra le coste.

"Bastano quattro dita, che il taglio raggiunga gli organi interni" Così gli avevano insegnato.

Ritrae rapido il corpo e la lama, mentre il fiotto di sangue disegna un'onda rossa sulla sabbia e gli lambisce il piede sinistro con grosse gocce calde. Il pubblico finalmente sbotta in un coro di meraviglia.

Quel passo indietro gli evita l'affondo del nemico che lo manca di poco. Poi, la sorpresa per il taglio non dà il coraggio necessario al suo antagonista per incalzarlo.

Di nuovo si ricompongono entrambi in guardia. L'esperienza insegna che un colpo come questo non può bastare. La lacerazione è probabilmente grave, ma lascia ancora troppa vita. In un luogo dove si decide tutto in un grumo di secondi, i minuti valgono come decenni e in così tanto tempo le sorti possono cambiare drasticamente.

"E' più utile stancarlo e mantenere la distanza", pensa muovendosi lungo una circonferenza ideale disegnata attorno al guerriero colpito, come un felino nell'attesa del momento giusto.

La gente sugli spalti urla che vuole vedere combattere. Non c'è spazio su questo palcoscenico di sabbia per la pietà.

L'altro caracolla qualche passo indietro, butta lo scudo a terra e la mano che prima lo reggeva ora preme forte contro lo squarcio per rallentare il dissanguamento che altrimenti gli farebbe perdere i sensi in poco tempo. Una decisione che lo priva di una protezione importante ma cui deve rinunciare per necessità. La mano avversaria si colora sempre di più di carminio come se gli stesse nascendo dal fianco un grosso garofano scarlatto.

Ogni azione pare rallentata, sono eterni i secondi prima di un nuovo contatto e anche la mente diventa muta.

Il pubblico urla esasperato dall'attesa, ma lui non sente quasi nulla, i sensi attenti, la vista sempre più acuta e i colori degli oggetti brillano sotto la luce, una luce luminosissima. Gocce di sudore scorrono da sotto l'elmo che pesa come un macigno. Gira di scatto la testa per liberarsene. Una goccia salata negli occhi lo renderebbe cieco per qualche attimo e invece gli occhi devono restare fissi in quelli dell'avversario.

Sente la paura dell'altro che lo raggiunge come un'onda contagiandolo. "Concentrati", sprona se stesso. "Non sprecare l'occasione, oggi forse gli Dei ti sorridono".

Ecco, il respiro è tornato normale, sente di nuovo la forza nelle braccia e nelle gambe, è il momento. Sferra due colpi rapidi, ma l'altro li para bene, anche se la debolezza si percepisce attraverso la lama nemica sorretta con minor vigore.

Poi, ancora attimi lunghi come una vita e riprende la lotta , i duellanti ora vicinissimi, le spade intrecciate, i muscoli che spingono, i glutei contratti in uno spasmo, nessuno dei due riesce ad avanzare sull'altro.

"E' ancora forte", pensa ma ha una buona occasione in serbo e non la lascia scappare. Si rillassa assorbendo l'impeto dell'altro, trasferendo il peso nei talloni e come una molla restituisce la spinta al modo di un ramo piegato e poi improvvisamente lasciato libero.

E' una spinta che fa con lo scudo, inaspettata ed elastica. Il nemico ferito vacilla, inciampa, appoggia un ginocchio a terra. Tenta una reazione scomposta per scongiurare la fine che sente prossima. Allunga così la sua spada per difendere la posizione esposta, sventola il gladio a destra e sinistra come una ramazza che voglia tenere lontana la polvere, ma è lento. Il gesto è troppo debole e non ha il tempo di rialzarsi da quella posizione in ginocchio perchè lui gli è quasi sopra.

La spada dell'altro arriva fiacca sul suo scudo, mentre lui fa passare sopra di esso la sua lama. Radente il bordo, sorgendo inaspettata e stavolta è dentro completamente la difesa avversaria. Entra così di netto con la punta nel collo, appena sotto l'orecchio dove non c'è protezione dell'elmo, e affonda la lama come nel burro fuoriuscendo dall'altro lato.

Uno spostamento laterale da continuità all'attacco e apre maggiormente la ferita mentre sfila il ferro e si tira fuori della portata di un contrattacco imprevisto. Una precauzione che risulta per sua fortuna inutile. L'altro lascia la spada e si porta entrambe le mani al collo. Mentre lapilli di sangue escono dalla ferita mortale al ritmo sistolico del cuore. Piscia vita direttamente sulla sabbia e da quel buco si ode un sibilo strano.

"E' forse l'urlo silenzioso della morte?", si domanda in un attimo di chiarezza il superstite.

Il nemico cade faccia avanti, mentre le natiche e le gambe hanno per qualche momento delle convulsioni. Ballano l'ultima tragica danza.

"Vivo, sono ancora vivo", pensa mentre una boccata d'aria gonfia il torace come un mantice. E' madido di sudore. La tensione però, non lo abbandona e la pelle punge come colpita da migliaia di spilli invisibili. Lentamente gli torna l'udito e con esso la musica folle di questo mondo. Sente le risa sguaiate della gente e man mano distingue il suo nome: "Por-zius! Por-zius!". E' il nome che i Romani gli hanno dato e che è scandito dal pubblico nello stadio.

E' davvero un magro guadagno questa notorietà, rispetto al costo per continuare la perpetuazione, ma questo è il suo prezzo, almeno per ora. Rende un ultimo sguardo al corpo esanime che pare un fantoccio pallido e lacero. "Ormai sei finalmente libero", pensa con mestizia. "Forse sarebbe stato meglio se...No, meglio non pensarci", scaccia dalla sua testa questa osservazione che potrebbe affievolire la sua voglia di vita.

"Questo era l'ultimo. Oggi è finita", ragiona infine togliendo l'elmo e si dirige verso i sotterranei. Il buio delle segrete lo attende per inghiottirlo, ma anche per accoglierlo.

Si passa le mani stanche tra i capelli bagnati, mentre saluta il sole che lascia alle spalle con un lungo sospiro da condannato.

Novel in Progress...

mercoledì 2 marzo 2011

Tanto va la gatta al lardo...



Come già commentato in un’altra sede, allungo il brodo delle mie preposizioni con una chiacchierata di più ampio respiro.

Nelle sale è arrivato “127”, la storia vera di un escursionista solitario che incappa in una frana, rimane prigioniero e si libera da una situazione apparentemente senza via di uscita con un’amputazione. Il titolo rimanda alle ore di calvario di questo povero cristo.

Conoscevo già la notizia dalla cronaca, la vicenda è stata veramente drammatica; Visto che nella realtà il poveretto si è dovuto tagliare il braccio con un coltellino e poi ha camminato sotto il sole per quaranta chilometri, tutto questo dopo aver trascorso giorni di immobilità sotto un masso che gli era rotolato addosso e gli imprigionava l’arto.

Questo sventurato sostiene che questa esperienza gli ha cambiato la vita (come dargli torto) ed ora per lui nulla è impossibile, almeno così afferma.
Conduce con successo dei seminari di motivazione (molto in voga in U.S.A.) dove insegna il suo “segreto” per riuscire nella vita.
Alla fine, puntuale come una cambiale, di questa storia hanno realizzato il film.

E’ veramente un “happy end”, in linea con l’opinione (molto americana) che ognuno è padrone del proprio destino, ignorando però che niente diverte il Fato come questa affermazione.
Mi pare ovvio che l'appuntamento è solo rimandato, il nostro beniamino non ha certo vinto la morte, ha avuto solo una proroga di qualche decina di migliaia di giorni, almeno mi auguro per lui.

Se volessi puntualizzare a proposito di questa intensa avventura, ci sono per lo meno molte circostanze che sarebbero potute andare storte, nonostante l’impegno dimostrato dal protagonista, ma dire semplicemente “non era il suo momento” non è bello come rappresentare una storia di trionfo sulla Grande Falciatrice.

Curiosamente osservo che nella società moderna (?) l’accento è posto molto spesso sulle possibilità quasi infinite dell’uomo, sulle sue capacità di dominare la Natura, gli animali, la Vita grazie alle prodigiose scoperte delle scienze. Queste meraviglie liberano man mano l'essere umano dal giogo degli eventi casuali, dalla povertà e delle malattie.

Viviamo inoltre in una società democratica, i diritti umani sono rispettati e tutelati da un apparato che sulla carta è efficente e giusto.

Peccato che non si vive sulla carta.

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Guardandomi attorno infatti, non vedo tutta questa indipendenza, questo pionierismo positivista, questa originale singolarità di ogni esistenza portata finalmente a fioritura.
Vedo solo molta gente triste, conformista e omologata che non ha neanche lontanamente quelle qualità che invece, per qualche ragione sconosciuta, si attribuisce su modello dei cosiddetti "esempi noti" cui, secondo l’interesse personale, si ispira.

Il concetto di progresso, ora largamente condiviso, è legato all’idea di nuovo. Inevitabilmente viene sostituita la tradizione con l’avanguardia.

Il rischio non calcolato è che con l’acqua sporca si butti via anche il bimbo, cioè rinunciando a priori a ciò che esisteva per cambiarlo con qualche cosa di nuovo, quindi migliore, si rinunci di fatto a dei sistemi che in realtà funzionavano meglio.


Sorvolando con magnanimità sulle mode e su gli atteggiamenti esteriori che contagiano ormai tutti, non resta che constatare la povertà assoluta di idee originali.
Il massimo della dialettica poi, oggigiorno è in un’affermazione (banale) e nella sua negazione.

L’analisi termina prima ancora di iniziare riamanendo confinata in una discussione da "Bar Sport", senza altro sostegno ai propri principi che le considerazioni fideiste ad uno schieramento o ad uno schema preconcetto.

Il modello imperante rimanda alla discussione calcistica, manichea e senza costrutto. L’analisi oggettiva è una terra straniera, non si ragiona con il cervello proprio, neanche per errore.

Apprendo con stupore osservando oltre le apparenze che, per qualche ancora più oscura ragione, la maggior parte di noi si attribuisce una parte di quelle doti che incarnano l’Uomo con la “U” maiuscola, magari non proprio come “l’Uomo di Successo” proposto dalla società, ma abbastanza.
Questo meccanismo di identificazione largamente diffuso mi lascia sempre con un gran sorriso.

Ma chi è questo “Uomo di Successo”?

Solitamente è rappresentato (venduto?) come, uno strano animale composto di parti diverse assemblate. Un pezzo di “Marlboro Man”, un altro di Padre Pio, ma con la scaltrezza di un manager rampante. Ha il volto d’attore, il corpo d’atleta, lo spirito di un poeta, il cuore di un torero e, alla bisogna, il pisello di Rocco Siffredi.

Lo stesso avviene, ma con opportune modifiche degli optionals, per la cosiddetta “Donna di successo”.
Questo animale fantastico, questa Chimera, è evidente che non esiste né mai potrà esistere.
Dove mai si è visto un essere con una commistione di elementi così diversi e totalmente positivi? Giusto al cinema e nei fumetti.

Ecco che allora il "popolino" indulge, diciamo così, nell’attribuirsi una sorta di “potenzialità virtuose”.

Magari non ha il coraggio di ammantarsi di queste qualità pubblicamente, ma interiormente pensa di possederle; Qualità però che non esprime in nessuna causa ma solamente perchè, si giustifica, ha avuto di meglio da fare o è stato solo sfortunato nella vita.
Ma se una cosa non si manifesta in nessuna occasione non è forse ragionevole pensare che non esista?
Questa semplice considerazione non intacca lo stato di sonnambulismo di questi “Figli del Progresso” nel luminoso percorso di tenebra che li accompagna.

Non stupisce che non si riconoscano in questa immagine... Non si sono mai guardati allo specchio.

Ecco che questo essere umano, attribuendosi caratteristiche semidivine, cioè pensando di avere il controllo quasi completo della vita (ma dove?), sviluppa, più o meno consapevolmente, un’arroganza che lo allontana dal Mondo, dalla Natura e forse anche da Dio. Certamente si discosta dal suo simile e dall'’esistenza, rinunciando alla serenità di fluire nel grande torrente dell'esistenza con consapevole umiltà.

La vita invece, aderendo a questo modello tanto in voga, diventa una competizione. Una corsa frenetica cui non basta più possedere, ma l'imperativo è consumare...e conusmare il nuovo; non c'è bisogno di ribadirlo.

E' palese che queste pseudo filosofie sono solo meschine operazioni di marketing.

Andiamo in giro coperti di marchi pubblicitari come manichini di un negozio, praticamente siamo delle "reclame" deambulanti e ci piace pure.

La ricchezza, in questo odierno, non ha più neanche lo scupolo del pudore e viene esibita come una virtù in spregio ai poveri.
Tutti alla fine ci si siede a tavola con il Diavolo senza altra giustificazione che questa tavola è molto lunga.

Ci si sente al riparo così dalla responsabilità solo perchè si è lontani dall'origine dei problemi dimenticando che è solo un gioco di prospettive.

In definitiva non ci si vuole accostare al mistero della vita, si preferisce una menzogna plausibile piuttosto che abbandonarsi a ciò che è più grande di noi.
Capita anche che alcune di queste nullità, di cui è composto il pianeta in gran maggioranza, si incuriosisca a corsi di un paio di week-end per scoprire e potenziare queste presunte capacità.

Il mercato dell'occulto o delle religioni offre un ampio catalogo di prodotti. Questi signori che non si sono mai degnati di valutare seriamente se per prima cosa sono disposti a pagare il prezzo per diventare persone un po' più libere sono convinte che bastino poche ore di "effetti speciali" per sanare i guasti di una vita intera.

Nell'intenzione l'impegno è lodevole, ma nei risultati si sfiora il ridicolo.

Bisognerebbe forse ricordare a questi campioni che il più grande ostacolo alla conoscenza non è l'ignoranza, ma l'illusione della conoscenza.

Comunque sia mi sembra che "in primis", si dovrebbe prendere coscienza del desolante vuoto interiore che esiste dentro di noi e anche dalla pretenziosa facciata che presentiamo al mondo con una, più o meno, convincente maschera di auto inganno; questo tanto per cominciare.

Le nostre opere e azioni poi, che consideriamo così importanti non sono altro che scarabocchi su questo mondo eticamente vuoto.


Invece, questo dubbio sfiora pochissimi e l’indagine in tal senso non è neanche presa in considerazione. Si passa direttamente alla cassa a cercare di ritirare il premio, stupendosi di trovarsi, il più delle volte, con una mano davanti e una di dietro, come diceva mia nonna.

Ora, cercando di sorvolare sulla banalità che è sempre in agguato nei commenti a situazioni del genere vale la pena riflettere su un paio di considerazioni, almeno a mio modesto parere.

La prima è che non ci conosciamo quasi per nulla e a voler guardare bene, facciamo di tutto per non metterci alla prova per conoscerci.
Rimanere veramente nudi di fronte a se stesso non è cosa da poco. Se applicassimo metà dell'intelligenza e dell’impegno che usiamo per riempirci lo stomaco, correre dietro al sesso opposto e sgomitare nella vita per possedere degli oggetti futili, avremmo le forze e il tempo sufficiente per avere ottime indicazioni sulle nostre pretese virtù e sulle nostre meschinità nascoste ad arte.

La seconda considerazione invece, più sottile, è che ogni esperienza personale non è trasferibile ad altri.
L'illuminazione o più prosaicamente, l'intuizione, dipende molto da chi vive l’esperienza e in quale momento la vive, ma soprattutto dalla domanda che alberga dentro di lui. Sia che questa domanda sia formulata coscientemente o inconsciamente.
In particolare mi pare che cercare di condividere l’insegnamento appreso a caro prezzo con la massa di esseri umani, spesso ipnotizzati dal tran- tran quotidiano, è come pensare che masticare una cicca possa aiutare qualcuno digiuno di matematica a risolvere un’equazione.

Non parlo però, solo di fatti estremi, di eventi eclatanti, di guerre, di pestilenze, di invasioni di cavallette o di atti eroici al limite dello straordinario che rivelano a volte aspetti della nostra natura, ma voglio porre l’accento sulle piccole intuizioni che accadono nel quotidiano, rivelandoci spesso la realtà per quella che è.
Quanto spesso è capitato ad ognuno di noi che parole, immagini colte al volo abbiano aperto mondi inaspettati nella nostra vita? Non sarà successo spessissimo, ma accade.

Come già scritto tutti inciampiamo prima poi nella verità, però di solito ci si rialza e si continua a camminare… come se nulla fosse.
Forse sarebbe più onesto ammettere che amiamo le nostre catene e anche l’uomo più coraggioso ha paura di se stesso.