mercoledì 15 gennaio 2020

The Wild

Trovare la bellezza in ogni momento e dovunque è il segreto di una vita felice.
Quando si è bambini questa capacità è naturale, ogni cosa è tinta di stupore e meraviglia, questo suscita felicità.
La socializzazione odierna cioè i doveri e le leggi della nostra struttura sociale ci tolgono questa capacità percettiva per sostenere i ritmi della produzione industriale e il consumismo che ne determina la necessità. Ci trasformeremo man mano da osservatori incantati di questo mondo in duri investitori che non fanno mai nulla senza avere qualcosa in cambio. La gratuità sparirà dalla nostra vita per adeguarsi all'imperativo esasperato del guadagno fondato inevitabilmente sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Come potremmo mai vivere felici in un tale contesto?
Infatti, se guardo a un modello diverso di vita per esempio ad alcune tribù primitive che in alcune occasioni ho potuto incontrare in qualche viaggio esotico tale constatazione mi è risultata evidente.
Sebbene non sia un antropologo mi è capitato più di una volta di entrare in contatto con queste realtà sempre in maniera apparentemente fortuita, in Congo, Filippine, lungo il confine Cambogiano e in Birmania.
Proprio in Birmania ci sono piccole enclave primitive dove vivono degli indigeni che addirittura praticano il cannibalismo rituale, ebbene quando fui a contatto con loro, trovai che non erano affatto violenti, ma vivevano in simbiosi con la Natura e in una armonia collettiva incredibile, nonostante secondo i nostri canoni alcuni aspetti della loro vita avrebbero potuto essere giudicati abietti; La bellezza di cui parlavo in loro sembrava sorgere spontaneamente, riuscendo a condividerla perfino con me, tanto era forte il contesto vissuto, tanto era percepibile la libertà che emanavano, una libertà principalmente dall'idea di progresso, almeno quello comunemente inteso.
Questa positività la vissi congiuntamente con la caustica sofferenza determinata dall'assoluta mancanza di comodità.
Forse sarebbe utile comprendere che il mondo moderno è determinato principalmente da regole arbitrarie che generalmente sono percepite come naturali ma in realtà sono funzionali agli interessi economici, poiché l'economia è la base del nostro sistema, e non sono propriamente indirizzate alle esigenze intime di reale benessere delle persone.
Purtroppo queste regole non possono darci altro che oggetti, perché la loro funzione è principalmente indirizzata a una vita comoda, pagata però da grandi rinunce a livello umano.
Andrebbe forse cambiato il nostro mondo, ma all'interno di un sistema aggregativo non è possibile una trasformazione così radicale.
Ogni struttura sociale è auto-conservativa.
Dunque noi restiamo noi e i primitivi restano primitivi.
La scelta di come voler essere pare non contemplata nella nostra esistenza, perché ogni persona non sceglie dove nascere, e necessariamente, secondo il luogo di nascita, dovrà adattarsi alle sue regole che lo influenzeranno profondamente.
Così come ad esempio un aborigeno Ifugao che vive nei villaggi nascosti del nord, sulle montagne dell'Isola di Luzon delle Filippine, non ha scelto di nascere in quel contesto, la sua felicità nell'essere in armonia con la Natura e con un ridotto sfruttamento fra simili è inconsapevole; Ugualmente lo è per la maggioranza dei popoli civilizzati la consapevolezza della propria infelicità.
Non mi è possibile vivere stabilmente in un contesto così fortemente naturale, così come per un indigeno sarebbe impossibile vivere nel mio sviluppato tecnologicamente.
E' questione di com'è formata la struttura della coscienza umana, ovvero il particolare psichismo della nostra specie che una volta creatasi completamente tale impalcatura, non è trasformabile se non in pochi aspetti marginali, ma non è rigenerabile completamente, perché legata alla memoria e all'idea di Tempo.
Esemplificando quest'analisi comparativa un po' naif, mi rammento che proprio in Birmania entrai casualmente in contatto con una guida locale che in barba ai divieti e corrompendo i militari, mi accompagnò in quelle aree interdette al turismo riuscendo a mettermi in contatto con quei primitivi.
Ricordo che ansimando nella giungla, madido di sudore, procedevo con esasperante lentezza, aprendomi la strada con il mio inseparabile Kukri nepalese (ahimè indebitamente poi sequestrato alla dogana italiana) e maledicendo ogni singolo passo che facevo.
Mi davo del folle ad ogni metro percorso e misuravo il mio sentire tra la fatica e la fottuta paura di sentirmi completamente solo a contatto con una Natura ostile; Spesso sprofondavo nel fango con gli scarponi lungo stretti sentieri scivolosi, erano linee appena accennate nella foresta, al cui lato si aprivano orridi senza fondo.
Ero robusto, almeno in confronto alla mia guida che invece trotterellava senza apparente sforzo davanti a me, procurandomi invidia e frustrazione; Con sconcertante semplicità mi avvisò che se fossi scivolato dal sentiero sopraelevato che stavamo percorrendo non ci sarebbe stato nulla da fare per me. Nessuno mi avrebbe salvato, l'unica cosa che mi augurava nel caso fossi caduto era di morire immediatamente.
Sebbene fossi in forma fisicamente portavo nello zaino una scorta di razioni pari a 4.000 calorie giornaliere per far fronte a quelle condizioni climatiche e 4 litri d'acqua potabile per ogni giorno di viaggio preventivato che doveva essere di circa dieci/dodici giorni complessivamente, comprensivo di andata, soggiorno e ritorno. Forse da casa a chi legge sembra poco, ma non è così; Dunque il carico trasportato complessivo dell'attrezzatura, repellente, zanzariera e strumenti per orientarsi nel caso fossi rimasto solo, era veramente pesante.
Il problema del peso dell'acqua lo risolsi parzialmente con le pastiglie disinfettatati e utilizzandole per alcune fonti che la guida conosceva lungo il percorso, ma vi era un grande rischio, perché le scimmie defecavano dall'alto e inquinavano l'acqua e perfino quella piovana non era sicura, perché scorrendo sulle foglie degli alberi poteva contenere dei patogeni di malattie che è meglio non saperne neanche il nome.
Il fuoco non era sempre possibile averlo a causa della cappa di umidità e dei rovesci brevi ma insistenti che rendevano tutto, tutto, tutto bagnato fradicio.
Avevo escoriazioni ovunque che mi tenevano compagnia e la schiena mi doleva come fossi stato Atlante nel sostenere il peso del Mondo.
In poche parole in tre giorni ero già ridotto una merda.
Non credo di aver mai fatto tanto fatica in vita mia.
Infatti lo sforzo nel portare lo zaino non era distribuito uniformemente come nel normale trekking, ma era un continuo cambio di posizione e a volte procedevo perfino a quattro zampe. Insomma fu un supplizio.
La mia dose di Inferno in Terra l'ho avuta ampiamente, ma durante le pause me l'andavo prfino a cercare.
Se questa non è proprio follia, poco ci manca.
Inoltre, la vera difficoltà oltre allo sforzo fisico era mantenere una mente concentrata e determinata, perché il cielo è raramente visibile all'interno di una giungla e crea un senso claustrofobico disorientante che generalmente una persona non si aspetterebbe di trovare e può fare brutti scherzi al sistema nervoso.
Il poco sonno fu sempre inquieto.
I rumori notturni assordanti nel silenzio intermittente faceva da colonna sonora a notti senza luna né stelle.
Nonostante avessi un certo addestramento militare non ero certamente un Merrill's Marauder e dovetti compensare questa carenza con un impegno totale: volevo vivere.
Per circa 8/9 ore di marcia giornaliera non potevo permettermi di farmi attraversare la testa che da un solo pensiero: resta qui, adesso!.
"Passo, ok, nuovo passo ok, attenzione si scivola ok, dov'è la guida? Avanti, ah! ok trovata, tieniti alla radice ok, guarda serpente ok, se ne è andato ok, altro passo ok, togli il ragno dal collo ok Ahia!, un altro passo ok".
Così via, tutto il santo giorno.
Nonostante la concentrazione (estenuante) mi sentivo ugualmente come un bambino perso nel Tunnel dell'orrore di un Luna Park. Inorridivo al pensiero di slogarmi una caviglia e rimanere lì per quel poco "sempre" che mi avrebbe atteso in quel caso.
Non credo di essere un fifone, ma determinate esperienze ridimensionano la misura del proprio coraggio.
Almeno mi successe così.
Avevo avuto già altre esperienze estreme, nel Golfo Persico e in Africa, molti anni prima, ma non erano comparabili con quella che vissi in quei momenti.
Quando si è molto giovani le cose sono più sfumate.
L'incoscienza della gioventù probabilmente non mi poteva più proteggere nella maturità.
Non ero certamente forte come credevo, ma lo diventai (almeno in quei momenti) perché non ci fu altro modo per uscirne vivo.
La Natura ha una forza immensa, è anche bellissima, ma ti mette una fortissima soggezione per non dire che ti fa paura.
Lei ti ricorda chi comanda in questo mondo.
Bellezza, libertà e terrore camminavano insieme in quei luoghi.
E' un terrore diverso rispetto alla paura della morte che ti coglie improvvisa nei momenti di pericolo, è qualcosa di soverchiante e asfissiante che può farti impazzire. Non ti abbandona mai.
L'unico modo che trovai per superare quel disagio che mi stava facendo perdere il senno fu di abbandonarmi. Arrendermi al selvaggio e piano, piano mi quietai.
Mi parve a un certo punto che le piante e il terreno mi parlassero, ma la mia parte razionale faticò moltissimo a considerarlo come un fatto naturale.
Il condizionamento della mia vita di uomo civile era molto restio ad accettare questo nuovo modo di essere.
Abbandonarmi al selvaggio fu come stapparmi la pelle di dosso un pezzo alla volta.
Non credo di esserci riuscito completamente, forse solo un po'.
Generalmente nelle città non lo percepiamo questo richiamo.
Siamo presuntuosi, ci sentiamo al sicuro e sfruttiamo questo mondo come fosse nostro, ma appena al di fuori dall'area di comfort artificiale, l'essere umano prende necessariamente di nuovo contatto con la sua insignificante piccolezza e con tutta la sua fragilità.
Un bagno di umiltà che non rinfresca ma brucia.
Mi ritrovai così a dover piegare la testa di fronte a tanta maestosità e potenza e conobbi il mio posto nel mondo: un posto assai piccolo.
Poi, finalmente dopo giorni che mi parvero eterni, accadde...
Ebbi un'esplosione inaspettata dentro al cuore alla vista di un uomo simile a quello che viveva sulla Terra quarantamila anni fa, l'indescrivibile percezione del suo silenzio interiore.
Fu come uscire dalla macchina del tempo in un passato remoto.
Lo stupore non solo di trovare qualcosa di strano, fuori da ogni categoria sperimentata, ma nella paradossale condizione di ritrovare qualcosa che avevo dimenticato dentro di me, senza sapere di averlo mai posseduto.
Una sorta di primitività sepolta nelle parte più profonda dello spirito. Mi sentivo solo nella Natura dove esistevo, qualunque cosa fossi, senza fronzoli, senza carta di credito, senza false sicurezze.
Io e il Mondo indifferente, eppure tanto vicino al cuore del creato che mi pareva di sentirne il battito, ero all'unisono con il respiro della Vita che mi circondava, anzi mi sovrastava.
Fu sconvolgente.
Non è possibile esprimere il dirompente effetto e insieme l'acuto dolore nella costatazione che il modo di vivere che avevo condotto sino a quel momento mi aveva derubato dell'autenticità e con essa della mia reale umanità.
Un'umanità non certamente fatta di quei falsi atteggiamenti perbenisti che si mostrano agli altri per sembrare buoni, ma qualcosa di viscerale e perfino spietato, così com'è la Natura nella sua abbacinante bellezza e spaventevole purezza.
Emozioni sicuramente contraddittorie, ma fortissime che mi dilaniavano ricongiungendomi a volte per pochi istanti a una condizione ancestrale dimenticata.
Ancora oggi, in alcune notti sogno di essere ancora lì e tra sollievo e inquietudine questo sogno mi sveglia.
A volte trovo che scorrono delle lacrime sulle mie guance, ma non so perché.
Credo che a differenza di questi primitivi, la mia esperienza sia nel mio bagaglio culturale vissuto, in questo caso nella scoperta di una società diversa, diversa soprattutto da quella che immaginavo, e nella mia soggettiva capacità di comprensione, sicuramente parziale, di questo dato sconosciuto e alieno.
Ho riscontrato inoltre che nell'immersione in questo mondo diverso si è ampliato il mio, ma nello stesso tempo lo ha reso più angusto e soffocante proprio dall'inevitabile comparazione.
Le contraddizioni stridenti vissute sempre di più al mio ritorno nel sistema "civilizzato" mi procurano ancora dolore.
E' forse il prezzo della conoscenza; Un'acuita sensibilità dona inevitabilmente una sofferenza più intensa, nulla di più.
Sarà per questo che da allora faccio un po' fatica a farmi capire?
Forse, sperimentando una diversa comunicazione con quei primitivi, si è determinato in me un cambiamento radicale, infatti non riesco quasi più a parlare senza dire qualcosa che sento vero, ugualmente provo un disgusto profondo per quest'ipocrisia inconsapevole con cui ci rapportiamo gli uni agli altri nella società ordinaria, e questo disagio non mi abbandona quasi mai.
E' pazzesco riconoscere quanto un essere umano autentico riesca a esprimere con uno sguardo o con un semplice grugnito, una comunicazione che è oltre la parola; E' quasi telepatica, dovuta più che altro a "sentire l'altro" piuttosto che intenderlo, grazie al linguaggio.
Noto così che in questo mondo tecnologico dove le informazioni sono rapidissime e spesso ridondanti, tutti parlano molto senza dire nulla.

Tra i molti fatti strani che mi sono accaduti in quel luogo perso nel nulla, mi capitò che piacevo a una ragazza del posto; Fu qualcosa di unico il modo con cui lei si avvicinò a me.
Lo racconto con un certo pudore e non sono sicuro che sia da descrivere, ma lo voglio comunque ricordare a me stesso.
Ero appena arrivato in quel villaggio ed ero talmente stanco e stralunato che non avrei visto un serpente nemmeno se lo avessi avuto sul braccio, neanche se mi avesse morso.
Invece lei la notai subito.
Lei era molto giovane, di una bellezza semplice e primitiva; mi guardava con un'intensità curiosa e percepivo il suo desiderio fortissimo, ma stranamente non mi creava imbarazzo.
Generalmente una pulsione carnale assomiglia a una forte onda, bella, ma ha sempre un leggero strascico malizioso. Ci si sente un pochino usati quando si è oggetto di tale desiderio.
Lei invece era perfetta, emanava un'emozione senza sbavature, stranamente notai che non c'era confine tra il suo copro e la giungla alle sue spalle; il suo limite si confondeva veramente in un tutt'uno con ciò che la circondava.
Ricordo che mi strofinai gli occhi pensando di vederci male.
Così semplicemente si avvicinò, visto che ci guardavamo da un po' ma non mi decidevo, mi fece un sorriso radioso, mi prese la mano e mi portò con se.
Un gesto dolce e sicuro, fatto con un candore e un'intensità scioccanti.
Ero come ammaliato da quell'evento inaspettato.
Non so descrivere il rapporto tra un uomo e una donna libero dalle sovrastrutture e dalle storture delle convenzioni. Libero perfino dal sopravvalutato linguaggio, perché parlava un dialetto incomprensibile. Invece, mi pareva di comunicare con lei continuamente, ridevamo perfino, grazie a un muto umorismo che ci faceva intendere molto bene.
Erano tutti momenti di intensità inconcepibile, non sempre meravigliosi sia chiaro, certamente non facili, spesso il suo comportamento era incomprensibile, ma quei momenti avevano quello strano sapore agro-dolce delle cose vere.
Azzarderei che avevano quasi il gusto dolce-amaro della verità.
Non necessariamente amore romantico, certamente non solo sesso, ma qualcosa di diverso, unico appunto, indefinibile, almeno con le parole con cui generalmente mi esprimo dicendo però in questo caso, poco.
Intenso, libero e selvaggio questi gli aggettivi che lo hanno caratterizzato, ma non rendono l'idea.
Come era possibile che una essere umano potesse esprimere tanto senza dire nulla?
Lei emanava un sentimento di un calore potente talmente eloquente che di rimando le mie emozioni sembravano un balbettio.
Come faceva a essere così vera e inconsapevole nel medesimo tempo?
Gli insegnai qualche parola così che potessimo intenderci, mentre lei mi insegnò il silenzio.
Ricordo che mi metteva il palmo della sua mano aperta sulla punta del naso e lo muoveva in tondo delicatamente come quando si fa rotolare un uovo sodo per frazionarne il guscio, poi mi guardava dritto negli occhi e sollevando un poco il mento, diceva:" Tu bello".
Mi commuove ripensarci, era quasi infantile nella sua bella ingenuità, ma era anche incredibilmente seria in certi momenti.
E' indelebile nella mia memoria come un tatuaggio nel cervello l'immagine della piccola Miou-Miou, vestita con un enigmatico sorriso, ritta con fierezza, i piedi minuti e scalzi appoggiati sopra una pietra che la facevano sembrare solo un po' meno piccola.
Quando me ne andai, i suoi occhi parevano trattenermi dolcemente, esprimendo un miscuglio di accettazione fatalista per l'addio e la dignità conscia di appartenere ad un altro luogo, forse addirittura ad un altro mondo.
Certamente più saggia di me era consapevole che ogni cosa nasce, cresce e muore.
Una legge universale che ignoriamo, ma in quei luoghi è scritta dappertutto.
Sentii che mi guardava dentro sino nell'anima, ma senza giudicarmi.
Lei per me fu una sfinge asiatica di irresistibile fascino.
Quel posto, lei e le altre persone che conobbi mi sono inevitabilmente entrate dentro, sotto la pelle, una sorta di amore verde che allora mi torceva lo stomaco come una malattia, ma che invece mi stava guarendo dalla mia disumanità; Insomma così fu, ma purtroppo non potevo restare per molte e ragionevoli ragioni che qualche volta ripensandoci mi appaiono tutte ugualmente sbagliate.
Certo, probabilmente sarei morto dopo qualche anno di quella vita durissima, ma non fu il solo motivo che mi spinse ad andare via.
Sentivo di non appartenere completamente a quel luogo, ma ugualmente non appartengo nemmeno a dove ora vivo.
La grande metropoli con i suoi grattacieli alti come alberi centenari, la giungla d'asfalto nel suo monocromatico fulgore, gli animali pericolosi che ci vivono che si chiamano tra loro: uomini.
E' un parallelismo che non regge al mio sentire interiore.

La libertà appartiene agli animali selvatici e forse agli uomini ancora primitivi. L'essere umano civilizzato è troppo meschino e non la merita. Questa è la mia sincera e amara constatazione.

A volte percepisco che sebbene ami questa Terra così diversa secondo i luoghi, molti bellissimi e con aree ancora quasi incontaminate e lussureggianti, in definitiva non vi appartengo.
Non sono di lì, non sono di qui, nemmeno di là....non sono e basta.
Altre volte invece mi sfiora un altro pensiero cioè che sono morto allora, andandomene.
Onestamente non ho risposte.
Certamente il prezzo che ho pagato è stato alto, e non parlo dei rischi, degli sforzi, dei disagi, ma della sofferenza di tornare ad un mondo che ora non posso più percepire come reale.
E' un costo salato che pago ogni giorno, non sempre volentieri.

In termini generali penso che questo sia il motivo per cui le persone non osano mai mettere veramente in discussione le proprie certezze, non sfidano il proprio se stesso, rinunciando anche per poco a tutto ciò che le conforta e le sostiene; In quanto tale revisione, comunque drastica, credo sarebbe annichilente per molti di loro.
Difatti a volte sento di essere come morto, certamente sono vivo, ma provo distacco dalle cose e mi preoccupo poco di me stesso.
Guardo ogni cosa con disincanto, particolarmente me stesso, non identificandomi più nel mio carattere né nella memoria.
Sono e non sono, non saprei spiegarlo meglio.
Bisogna forse essere un po' particolari per fare questo salto nel buio (o nella luce), e questa capacità secondo me si sviluppa attraverso un particolare vissuto destrutturante.
Oppure essere profondamente masochisti per aprire gli occhi su ciò che non si potrà mai raggiungere.
Se dovessi descrivermi direi però che nonostante molti difetti, quando inciampo nel mio Destino, allora gli vado incontro, qualunque esso sia.
La routine di un lavoro ordinario o gli imprevisti di un viaggio straordinario per me hanno lo stesso merito. Azioni incredibili e piccole meschinità le giudico identiche, non hanno peso nel misurarmi.
La frustrazione è spesso stata la mia più cara compagnia e certamente una severa maestra, ammorbidendo un poco un ego bellicoso e presuntuoso, quasi irriducibile. Sembrano qualità ma non lo sono così tanto. Questo però è un'altro discorso.
Non assegno allora un giudizio di valore a queste diverse condizioni di vita e non cado certamente nella menzogna del "buon selvaggio" ma bisogna comprendere che ogni tipo di società fornisce vantaggi e svantaggi.
Proprio per questo non esiste un perfetto Eldorado su questo pianeta.
E' necessario inoltre comprendere un punto nodale.
Il personale inferno è determinato dai propri desideri, qualunque essi siano, a prescindere da dove si vive. Ovviamente in una società che si fonda sul desiderio, sul consumo conseguente a tale desiderio e sulla volizione come lo è la società attuale e nei suoi sotto-modelli, la distanza da uno spontaneo benessere interiore è siderale e ahimè presumo incolmabile.
Lo sviluppo tecnologico ha sacrificato a una condizione naturale oggettivamente difficile, una comoda , ma disumana.
Si è scelto di vivere forse più a lungo, piuttosto di vivere con maggiore intensità.
L'innocenza propria di una vita semplice però una volta persa non è possibile averla indietro e anche su questa constatazione bisogna essere realisti.
Personalmente sono convinto che siamo quasi arrivati al limitare estremo del nostro modo di vivere, fondato sulle macchine e sui tempi di produzione delle macchine, e la distruzione di una vita incontaminata lontano da questa produttività esasperata è parimenti inevitabile.
Sono le condizioni di un sistema, e la logica del sistema stesso che determina il risultato conseguente; mai come ora il numero degli esseri umani è stato così grande, mai come adesso si è viaggiato e consumato così in abbondanza, questo avrà un costo che dovrà essere spesato in un modo o nell'altro.
Questo rischioso punto di passaggio non è una vera sfortuna dal mio modesto punto di vista, ma la necessaria opportunità di un reale cambiamento.
Ovviamente parlare di questi argomenti incerti svilisce il valore di questo discorso, perché lo rende opinabile e non desidero procedere in tal senso.
Diciamo allora che è il mio modo di fare humour.
Per concludere, e lo dico solo a titolo personale, non sono molto ottimista in termini di sopravvivenza umana, almeno com'è inteso oggigiorno l'essere umano.
Il mio scrivere ha per tale motivo questo sentore di malinconia, una sorta di vago rimpianto per l'uomo che ho conosciuto, ma non per quello che verrà, che mi auguro sarà migliore.

Questa indistinta tristezza mi perviene dalla constatazione che se mai l'osservazione della mia vita mi ha insegnato qualcosa, è che tutti (me compreso) non hanno mai perso l'occasione, a causa dell'avidità e della paura, di fare di ogni opportunità di una vita migliore, un'occasione persa.