venerdì 29 agosto 2008

Welcome to Mars part I


Se mai un giorno un uomo potrà incontrare una razza aliena tecnologicamente sviluppata, ma con usi e costumi diversissimi dai propri, molto probabilmente proverà le stesse sensazioni che al viaggiatore attento possono accadere visitando il paese del Sol Levante.
Non è solo dall’altra parte del mondo, non è solo perché vivono a testa in giù come si pensava anticamente, ma semplicemente perché il Giappone è un meraviglioso mondo alla rovescia.

Dodici ore di aereo, 10.000 km, sette ore di fuso orario di differenza ed eccomi all’aeroporto Narita di Tokyo.

Un tubo collegato direttamente alla carlinga del 747 mi immette nello spazio porto, segue con continuità una sensazione di disorientamento, dall’atmosfera pressurizzata dell’aereo alle luci eternamente accese degli ampi corridoi che portano all’uscita. Distese di moquette grigio a perdita d’occhio fanno da contorno a tapis roulant in movimento. Stranisco, mentre annunci in lingua sconosciuta fanno eco nelle mie orecchie.

Sono in un perfetto mondo di plastica.


“Welcome to Japan”, recita gentile attendendomi all’uscita degli arrivi internazionali il mio anfitrione: Kitaro. D'ora in avanti semplicemente K, come suo costume gentile, molto gentile, tremendamente gentile. Qui è tutto gentile, molto gentile, tremendamente gentile.

L’aeroporto è a due ore di treno (Japan Rail Line) dalla città, ma non è la nostra prima destinazione.
K, ha pensato bene di portarmi a Hakone, località termale a "solo" 350 km dalla grande metropoli, ma ancora due ore di treno e un’ora di autobus non mi aiutano a riprendermi dal viaggio e dal jet lag che mi torturerà per tutta la mia permanenza, solo che io ancora non lo so.
Non chiedetemi cosa ho fatto durante questo primo viaggio, mentre prendo il famoso treno proiettile "Shinkansen" che corre a 250 km orari. Sono così sotto sopra che non mi rendo quasi conto di arrivare alla fermata d’autobus necessario all'ultima tratta di questa giornata che sembra non finire mai. Salgo e mi accomodo su questi sedili a misura di nano, poi finalmente si parte, inerpicandoci sulla montagna tra le curve bagnate di pioggia.
Il Palace Hotel di Hakone mi appare come una terra promessa.

E’ nel “sento”, il bagno termale dell’albergo, che comincio a riprendere vita come una pianta di basilico dopo una copiosa innaffiata.
Nella vasca caldissima si entra già puliti e lavati, quindi lascio la vestaglia tradizionale cortesemente fornita dell’albergo ed ecco che mi ritrovo tutto nudo in mezzo a un gruppetto di giapponesi piccoli rispetto alla mia altezza e mi faccio la doccia seduto su un microscopico sgabello. Appollaiato mi lavo con un microasciugamano in posizione “rannicchiata” fino a che sono mondato da ogni traccia del viaggio e posso gustare le vasche di acqua calda.
Una grande al coperto e una sotto una pagoda di legno all’aperto fra il gorgoglio delle cascatelle tra i sassi e il verde della vegetazione che fa da paravento a questo momento di autentico relax.
Il silenzio è totale.
Nel “sento” non si parla, e cosa mai potrei dire? Conosco solo poche parole di questa lingua strana che ha cinque alfabeti diversi per dire la stessa cosa.

Trascorro una notte ed un giorno a Hakone nella attesa di poter vedere il monte Fuji che invece si nasconde timido dietro una coltre di nuvole. La temperatura fuori dell’albergo è intorno ai 28°, ma l’umidità supera il 90% scoraggiando qualsiasi velleità podistica. In compenso all’interno l’aria condizionata mantiene una temperatura polare di 18°, cosa normale in Giappone, notoriamente abitata da persone immuni alla polmonite.
Il Fuji-Hama non si concede facilmente, come tutto in questo paese.

Il massimo dell’arte giapponese si realizza nel far apparire naturale una cosa creata con infinita cura e lavoro, questa già la dice lunga sulla mente di questo paese.
Niente è mai semplice, diretto, palese, ogni cosa va cercata, capita, conquistata forse sofferta.
Il profumo della sofferenza: intesa come dedizione, dono, forse esercizio di virtù non mi abbandoneranno per tutto il mio viaggio, ma come ho detto prima, questo ancora non posso saperlo mentre mi gusto la mia prima sublime e luculliana cena.

La prima di molti e diversissimi pranzi che mi faranno ampliare notevolmente le idee sulla cucina giapponese, gereralmente nel nostro paese non molto varia.
La mia abilità con gli hashi (le bacchette) riscuote molto successo da parte di K che non conosceva il mio lungo e costosissimo training presso i ristoranti jap di Milano.
Domani partiremo per Tokyo, dove mi aspetta un nuovo mondo come in un gioco continuo di scatole cinesi, quando credi di aver capito...Capisci che non hai capito.
Prima però mi attende una traversata fluviale sul lago Ashi o come dicono i giapponesi: Ashi-no-ko.
Per giungere al lago bisogna attraversare un parco molto bello, ma tremendamente umido che illuminato da un inaspettato sole riesce a far evaporare le mie energie con incredibile rapidità.


Arrivo stremato all’imbarco e mentre attendo il mio turno mi addormento per qualche attimo su una panchina sotto i rami di questi alberi così diversi da quelli a cui sono abituato.
Ora ci si imbarca su queste navi per turisti decisamente Kitsch, fedeli repliche di galeoni spagnoli oppure di battelli americani a ruota in un trionfo di plastica che non contamina però la bellezza del paesaggio.



Concludiamo la visita raggiungendo un santuario Shinto nascosto nella montagna vicino all'ultimo molo della parte opposta del grande lago. E' decisamente bello, dove trovo un "dojo" dove si pratica la millenaria arte del tiro con l'arco (Kyu-Do).
Pare per un attimo di tornare ai tempi del giappone feudale.

E' un regalo che sorprende proprio come una carezza dopo una discussione estenuante.


Continua...

giovedì 28 agosto 2008

Welcome to Mars part II


Immaginate di poter diventare un ape e volare all’interno di un alveare sconosciuto.
Fra le migliaia di api come voi, si aprono alla vostra vista, spazi infiniti e costruzioni di inaudita complessità.

Ecco che Tokyo nelle prime ombre della sera si presenta in abito lungo, fra le luci multicolore e i grattaceli di sessanta piani che mi guardano curiosi dalle finestre illuminate.
Il buio arriva inaspettato e rapido in questo angolo del Pacifico. Alle sette di sera in meno di dieci minuti si passa dal tramonto alla notte più nera.
Sono ancora rincoglionito dal jet lag, che fedele come un cane molesto mi perseguita ed appena mi fermo si erotizza sul mio ginocchio nonostante i miei insulti. Procedo comunque insieme a K uscendo dalla metropolitana di "Ginza Station", per una passeggiata nel quartiere della moda e dei locali fashion: Ginza, appunto.
Il cambio di fuso orario mi regala un sonno insopportabile mentre intorno a me tutto si muove.
Condannato a pinneggiare instancabilmente come uno squalo, altrimenti muoio di sonno nel più grande agglomerato urbano del mondo.
La città invece non dorme mai, molti negozi sono sempre aperti, si può cenare in un ristorante alle cinque del mattino oppure tagliarsi i capelli da un coiffeur trandy, a volte le due cose le si possono fare nello stesso palazzo. Infatti non esiste piano regolatore e può capitare che un uscita della metropolitana porti direttamente in negozio o che saliti al primo piano di un palazzo residenziale ci sia un laboratorio di artigianato tradizionale accanto ad un dentista e poco più avanti un piano bar. E’ imperativo leggere le scritte (in ideogrammi) per trovare ciò che si cerca all’interno di un condominio.
Giusto per complicare le cose le vie non hanno nome (tranne le grosse arterie denominate Dori) e non esiste la numerazione per gli stabili civici. Ogni quartiere ha una numerazione concentrica e crescente per dividere i blocchi abitativi e lavorativi, ma può capitare che un indirizzo sia semplicemente indicato su una lettera come: "12-11-7, Al terzo piano della casa rossa vicino al dentista affianco all'edicola". Pare impossibile ma tutto funziona ugualmente. Spesso si gira con cartine fatte a mano che si possono consultare e confrontare vicendevolmente con gli occasionali dispersi al modo di naufraghi educati.


Ovunque si può trovare una sala di “pacinko”, il gioco d’azzardo nazionale, ufficialmente vietato, ma che quasi tutti praticano. Non chiedete comunque a nessun giapponese se ci gioca... Non lo ammetterebbe mai.
Il “pacinko” è misto fra un flipper verticale e una slot machine. Entro per curiosità in uno di questi santuari del divertimento, a volte disposti su piani diversi ed è un delirio di rumori assordanti, in confronto la strada a sei corsie di Ginza-Dori pare un monastero benedettino.

Immersi in un fumo di sigaretta stagnante decine di giocatori introducono biglie d’acciaio colorate e scelgono combinazioni complicate come un papiro egizio nella speranza di un guadagno facile. Spesso si perde ed a volte si vince, ma non pensate che la cosa sia semplice: si vincono altre palline che arrivano consegnate da solerti impiegati in grosse scatole colorate. A volte impilate una sull’altra per le vincite più fortunate. Alla cassa non vengono dati soldi, ma si vincono piccoli pupazzetti che poi, una volta usciti dalla sala vengono scambiati in un locale piccolo e anonimo, spesso nelle vicinanze a qualche decina di metri di distanza, per yen sonanti.

L’apparenza è salva, come vuole la regola della casa nipponica.
La vita a Tokyo viaggia su due binari paralleli che non si incontrano mai.
Un binario è la vita sociale, l’altro è quella privata: questi due fratelli non si parlano, ma nemmeno si somigliano.

In tutta la città è vietato fumare quasi ovunque, anche in strada. Su tredici milioni di residenti ci sono almeno cinque milioni di fumatori a Tokyo che sembrano non esistano. Fatto salvo ritrovarli a piccoli gruppi in un angolo nascosto dedicato a loro con i posacenere disposti attorno a questa area del vizio come piccoli altari votivi.
L’alternativa è andare al ristornate o in un bar dove è invece permesso intossicare il proprio vicino.

A proposito di bar, credo di aver trovato il bar più piccolo del mondo, solo venti centimetri separano il bancone dalla porta di ingresso. Gli avventori intrepidi possono bere, ma non alzare il gomito per ovvie ragioni di spazio. E' un nulla in confronto al brivido di sfidare impunemente qulunque regolamento sanitario ed edilizio.



Nella città non ci sono cestini, ma le strade sono comunque pulite. Se amate le contraddizioni il Giappone è fatto per voi.
Fissare una bella ragazza è considerato sconveniente, ma può accadere di vedere un buon padre di famiglia leggere un “manga” nella metropolitana dove scene di sesso esplicito vengono disegnate magari in ambientazioni sado-maso, senza che la cosa desti nessun tipo di problema.

Trovate ogni cento metri un distributore di bevande, ma se decidete di allontarvi da i bidoni di raccolta differenziata spesso dovrete portarvi la bottiglia di plastica sino a casa.
Questi distributori sono incredibili, credo che esistano non meno di quaranta tipi diversi di bevande analcoliche dispensate da questi congegni. La mia preferita è il latte di soia alla menta con soda Calpis, ma non domandatemi perché. In condizioni normali non la berrei neanche sotto minaccia armata, qui invece complice il clima la trovo gargantuesca.

Il caldo è opprimente, ma è nulla in confronto all’umidità. Per mia fortuna sono talmente preso dalla vista di questa fantasmagoria di palazzi e luci che mi dimentico di sudare.




Procedo con il mio amico fino Mejiro Station dove passerò qualche giorno a casa sua, una villetta insolitamente ampia per gli standard della città. K, mi saluta all’una del mattino: deve andare a lavorare. Comprenderò presto che gli orari lavorativi in Giappone sono più elastici di un paio di mutande rotte. Tutti lavorano a tutte le ore. Comunque per me è arrivato finalmente il momento di dormire.
Peccato che tre ore dopo sia perfettamente sveglio e con una fame atavica che mi attorciglia le viscere. Decido di passeggere per il corridoio e penso con nostalgia alle dormite nelle notti fresche della Versiglia, ma poi mi mi insulto da solo: “Sei il solito provinciale". In un rigurgito di maschio orgoglio grido: "Banzai!" e riprendo indomito a visitare le assi del parquet nel corridoio.

Aspetto paziente che il "cane jet lag" mi addenti, magari un polpaccio, così da tornare in sincronia con il resto del mondo o meglio con questa parte di mondo.

Per ora mi sento come un calzino spaiato mentre vedo l'alba di un nuovo giorno.


Continua...

mercoledì 27 agosto 2008

Welcome to Mars part III


Se cerchi l’anima di un popolo non la troverai nei suoi templi ma nelle sue strade.
Mi sembra doveroso per verificare questo mio pensiero filosofico procedere per esclusione.

Parto quindi di buon mattino verso Kamakura, città molto vicina a Tokyo, dove posso trovare la più alta concentrazione di templi del Giappone.

Mi avventuro per questa scalata in solitaria non senza una certa apprensione. Finalmente libero dalla presenza di K, sempre molto gentile ma un tantino asfissiante, azzardo una fuga solinga come un ciclista nel “Tour de France”.
Nel mio immaginario orrorifico mi vedo disperso nella giungla d’asfalto della metropoli, circondato da soverchianti forze ostili di Samurai armati di ventiquattrore in similpelle sordi alle mie richieste perchè non conoscono una parola di italiano (normale), ma neanche di inglese.



Poi mi sveglio da questo sogno ad occhi aperti e sono all’ingresso della metropolitana “Yomanote” che mi porterà a Tokyo Station e da lì, forse, sul treno per Kamakura.

Un piccolo inciso. E’ un luogo comune pensare che solo noi italiani non padroneggiamo l’inglese o almeno spesso questa considerazione è valida per la maggior parte della popolazione.
Posso rassicurare tutti i poliglotti mancati: i giapponesi sono peggio di noi.
Trovare un impiegato o un passante che parli inglese è un terno al lotto, ma nel caso fortuito di incontrarlo probabilmente non parlerà l’inglese che abbiamo studiato noi.
Forse perché pronunciano la “L” al posto della “R”, come il mio amico K.
Si aggiunga che i giapponesi nella costruzione delle frasi mettono il soggetto alla fine di un discorso e mantengono questa estrosa abitudine anche quando si cimentano in un altra lingua.
Quindi oltre alla difficoltà di traduzione bisogna spesso fare questo curioso sforzo: dati alcuni fonemi certi, quale parola potrebbe avere senso compiuto all’interno di un discorso senza soggetto? Il candidato risolva e dimostri per interpolazione la soluzione del problema.
In buona sostanza non si capisce un cazzo.
Prego tutti i santi ed i beati canonizzati di non avere un infarto e dover spiegare, fra i miei ultimi aliti di vita, i sintomi a un team di medici con occhi a mandorla. Evitando così che invece di salvarmi con il defibrillatore mi spaccino con un clisma opaco.

Superato a piè pari questo piccolo inconveniente con la nota tecnica yoga di “sbattermene altamente”, prendo contatto con l'originale sistema autoctono di pagamento della metropolitana, calcolato in base alla distanza delle varie fermate.
Bisogna “in primis” consultare un enorme mappa viaria posta all’ingresso della stazione (tutta scritta rigorosamente in Kanji incomprensibili), poi scoprire il prezzo corrispondente alla fermata desiderata, poscia andare ad una macchinetta automatica che, dopo aver messo una manciata di yen, fa vincere l’agognato biglietto.
Sono già stremato e mi ronzano le orecchie, ma come un tedoforo procedo con il mio miglior sorriso verso il tornello con il biglietto svettante verso il sole nascente.



Tokyo Station è la più grande fermata della metropolitana. In questo luogo immenso si può decidere se prendere lo “Shinkansen” (il treno proiettile), la monorotaia magnetica superveloce, due o tre altre linee di treni espresso o nove linee della metropolitana; oppure: un gelato, un vestito o un elefante. Si può anche entrare, grazie ad un passante, in uno dei più moderni edifici: il “Marunouchi Building”, con la sua quarantina di piani, dove trovi tutte le cose che ho nominato e anche di più.
Sicuramente chi ha scritto la leggenda del labirinto si era perso come me in Tokyo Station.

Pare un miracolo, ma sono sul treno per Kamakura ed imbrocco anche la fermata giusta per scendere e non ritrovarmi così a Nagano in netto anticipo sui giochi olimpici invernali del 2103. Dopo aver sbagliato due o tre strade di questa ridente cittadina eccomi nel cuore pulsante del suo centro religioso.



Temperatura esterna 36°, umidità 95%, gradini in pietra che mi mancano alla pagoda principale 8.754.
Sudando come uno sherpa nel Sahara mi domando sulle ragioni inconscie del mio viaggio, poi sulla realtà causale dell’universo e le circostanze che determinano che io in questo momento non possa essere a casa mia con l’aria condizionata; Magari spaparanzato sul divano e in mano una birra ghiacciata “Corona” con limone mentre guardo in televisione la finale di nuoto sincronizzato femminile a squadre.
Perché? Mi domando, mentre il sole imbiondisce i miei capelli imperlati di sudore, e vivo immerso in questo microclima da bagno turco che pare avvolgere i miei passi caraccolanti.
Masochismo? Può darsi, ma le immagini che si prestano al mio sguardo meravigliato mi ripagano di questa tortura degna di Guantanamo.



Decido così di rimanere sino a sera e di passare la notte in questa città, domani andrò a Kyoto, non prima però di ritornare a casa di K, che mi farà da guida indigena per le prossime giornate.

Prima di addormentarmi ho una breve apparizione, un Buddha di pietra con capelli biondo platino mi ripete più volte, come un mantra: " Chi t'Ho fa-fà". Inutilmente tento di tradurre questa frase che è probabilmente in giapponese primordiale.

Mi addormento inquieto, mentre Lui: "il cane jet lag", latra sinistro alla mia destra.

Continua...

martedì 26 agosto 2008

Welcome to Mars part IV


Rapidissimo come un fendente di spada sibila il treno “Shinkansen”.
Fotogrammi rapidi si susseguono dal finestrino, prima la città e poi la campagna, poi un'altra città e via così sino a destinazione.
A bordo consumo il pranzo frugale e a buon mercato (1.000 yen) dei giapponesi fuori casa: il “bento”. E’ una scatola di legno contenente all’interno una serie di cibi che spaziano dal riso al pesce, dalle prugne acide sino a piccoli sformati di uovo e…non chiedetemi che cosa c’è dentro.
Divoro tutto perché mi piace un sacco.

Kyoto è una piccola città, solo un milione e mezzo di residenti che abitano case insolitamente basse rispetto ai grattacieli della capitale.
E’ la sorella più piccola di Tokyo, entrambe capitali in epoche diverse ma diversissime nell’aspetto e nei modi.
Il mio anfitrione mi informa che “quelli di Kyoto”, come li chiama lui, sono molto formali rispetto a loro, nati e cresciuti a Tokyo, che invece sono molto più diretti e schietti…figuriamoci!
Preparo i muscoli della schiena ad una sequela infinita di inchini e scendiamo all’enorme stazione ferroviaria.
Nel vicino albergo, bello e ordinatissimo, il personale di servizio si spreca, uno ti apre la porta, un altro ti avvisa che c’è un gradino, uno ti accompagna alla reception che è composta di almeno sei impiegati in divisa blu inappuntabile.
Mi pare di essere tornato a militare, ci manca poco che scatto sull’attenti davanti all’ascensore.
Comunque, anche qui nessuno parla inglese e mi godo quella meravigliosa sensazione di isolamento in mezzo a questo mondo d’oriente in costante divenire.
K, prenota direttamente in albergo un taxi privato per la visita alla città.
Dopo pochi minuti di attesa, ci raggiunge un’hostess dell’albergo che inizia una fitta conversazione con il mio accompagnatore. Passano circa cinque minuti di chiacchiere incomprensibili poi, la signorina comincia, in un crescendo rossiniano, una sequela di inchini al nostro indirizzo, dondola sui piedi e la voce è rotta dall’emozione, pare veramente sul punto di piangere.
Guardo preoccupato K e poi la ragazza e come il solito non capisco un cazzo, ma le penso tutte.
Mi hanno perso i bagagli? Il passaporto? Hanno trovato una geisha morta nella mia stanza?
Vorrei porgere un fazzoletto all’impiegata, ma si allontana senza guardarmi. Da quando sono in Giappone penso di essere diventato trasparente. Domando comunque al mio amico quale sciagura ci abbia raggiunto e K, mi dice che il motivo di tanta costernazione è che il taxi è in ritardo di dieci minuti!

“Kyoto style”, è il suo commento lapidario.

Procediamo lungo questa meravigliosa città in questo taxi con i sedili ricoperti da piccoli centrini ad uncinetto, guidato da un simpaticissimo e molto disponibile autista in guanti bianchi che parla però solo giapponese.



Ogni tanto il mio amico ha la bontà di tradurmi con quattro parole la mezzora di spiegazione fatta a proposito dei monumenti e dei templi che visitiamo.
La misura dell’educazione nipponica è particolare: ridondante su quello che non serve e carente sul necessario. E’ il trionfo dell’inutile, ma a loro piace così e io mi adatto come diceva quello che dormiva sui cactus.

La visita al tempio è comunque splendida, una serie di pagode sospese nel verde su plinti di legno alti 30 metri. In sottofondo un coro musicale di cicale inimmaginabile, poi squarci inaspettati di luce.



Arriva la sera e visitiamo il quartiere antico della città con le sue case tradizionali ancora abitate. Transitiamo da “bamboo street”, una via fuori dal centro adagiata tra due ali di foresta di bamboo alti quindici metri e fitti come capelli.
Al ristorante, su tavolini bassi venti centimetri gusto una cena abbondantissima e particolare rispetto alla cucina tradizionale.

Il giorno successivo sono in visita ad un museo all’interno di kiyomizu-dera uno dei più bei templi della città..
Tappa d’obbligo, appena usciti, è la visita alla casa della più grande scrittrice del Giappone Murasaki Shikibu, la creatrice del Genji Monogatari, un poema epico-amoroso dell’anno mille considerato il primo romanzo psicologico al mondo, una sorta di blog in 54 volumi.
In questa occasione gusto il più bel giardino zen che abbia mai veduto.
E’ un’esperienza quasi mistica, difficilmente spiegabile.
Osservando questa costruzione curatissima, la mente si perde nei flutti della ghiaia disegnata e rimbalza sulle pietre disposte ad arte lievemente punteggiate di muschio.

E’ tutto perfetto, ma l’apparenza è di estrema semplicità e naturalezza.
Una foto non rende minimante la sensazione che prova lo spettatore che adagi la propria anima vicino a questo capolavoro dedicato all’impermanenza.

Piego il capo in un piccolo inchino di fronte alla sensibilità e al gusto unico che solo un cuore orientale può partorire.

Visito infine la tomba della scrittrice, semplice e minimale, come mio modesto saluto fra colleghi e riparto per nuove avventure.



Manco però il Palazzo Imperiale, aperto solo ai turisti muniti di passaporto, perché in ristrutturazione. La notizia mi fa sentire un poco a casa, è bello vedere che anche qui le cose possono non funzionare.

Lasciamo Kyoto dopo due giorni e ci dirigiamo dall’altra parte dell’isola, è un viaggio di molte ore che occuperà quasi mezza giornata.
Dopo aver ripreso il "treno proiettile" scendiamo poco prima di Hiroshima e prendiamo la coincidenza (precisa al minuto) con un treno espresso per Izumo. Ci aspetta questa piccola città di pescatori dove sorge uno dei più importanti templi shintoisti affacciato sul Pacifico.
Faccio fatica a rimanere comodo sui microscopici sedili di questo trenino, ma ne vale la pena.

Izumo è la parte più bella del viaggio.

Alloggiamo in un “ryokan”, un albergo tradizionale a conduzione familiare che si snoda lungo una pagoda su un'unico piano. L'albergo è quasi vuoto e sono l'unico occidentale e non ne incontrerò uno neanche per strada sino al mio ritorno a Tokyo.
Materassini di riso intrecciato al suolo (tatami), quadrati imbottiti per dormire (futon), armadi inesistenti, silenzio completo, questa è la dotazione di serie della nostra base operativa.
Il “sento” di acqua calda è degli anni cinquanta, come tutto qui.
La cena è servita in camera dalla proprietaria, una lillipuziana signora anziana che emana una dolcezza e uno stile impareggiabili.
Su un tavolino basso, seduti a gambe incrociate, decine di piatti e cibo squisito, che sazierebbero anche lo stomaco più dilatato, fanno da contorno alla nostra serata.
Sorvolo sul bagno bonsai della camera che richiede: anche sciolte e una notevole abilità acrobatica. Tutte doti che, in ogni modo, padroneggio grazie alla mia innata elasticità articolare.

Mi addormento steso sul futon guardando fuori, oltre le porte-finestre scorrevoli di carta di riso (shoji), che si affacciano sul piccolo giardino interno.
I rami degli alberi bassi e la piccola vasca di pietra riflettono, come perle Akoya, la luna piena: bianca e muta. E' una poesia silente scritta sull'acqua.



Quanto vere mi sembrano allora le parole del monaco errante Ryokan del XVII° secolo.

Profonda Armonia

Nella notte di quiete,
solo nel mio abituro,
suono il Koto senza corde del mio cuore.

La melodia entra nel vento e
nelle nuvole si disperde.
Il suono si fonde con il gorgoglio delle acque
che scorrono ed è profonda armonia.
D’infinito riempie la valle,
libero attraversa le foreste sui monti.

Chi mai, se non un sordo, può ascoltare
questa musica misteriosa?


Continua…

lunedì 25 agosto 2008

Welcome to Mars part V (the end)


Il falco stalla nel cielo, poi con volute sempre più strette discende verso il nido.

Allo stesso modo il mio viaggio procede toccando cose nuove e altre già viste e vissute, ma in punti diversi, più profondi direi. Poi alla fine di questa lunga cabrata mi attenderà il ritorno a casa.

Le giornate a Izumo sono state una stretta di mano sincera con la parte più bella del Giappone.
La bellezza semplice dei posti, la calma e il sorriso delle persone, tanto diversi dalla frenesia delle città, mi fanno capire quanto tutti alla fine ci somigliamo.

Il volo JAL interno, che ci riporta Tokio è pieno di malinconia. Una parte di me è rimasta su quelle scogliere, fra i rami degli alberi votivi dove si legano le preghiere affinché il vento le porti agli Dei.
Negli occhi le immagini del faro sul mar del Giappone, un mare sempre agitato che pare cucito al cielo pieno di nuvole.


Sensazioni che mi fanno nuovamente respirare dopo l’atmosfera lievemente opprimente della grande città di Tokyo.
Già i ricordi si affacciano come un gruppo di ragazzini curiosi: sento i tamburi, del tempio mentre si consuma un rito antico, mi restano negli occhi i rimasugli di terrecotte in una fabbrica dove si producono a mano come trecento anni fa. Tutto si accumula nella mente e sento il bisogno di mettere le cose nel loro giusto ordine.

Potrei raccontare molto di quello che ho visto ancora, ma sarebbe per me ragione di vera felicità riuscirne invece a trasmetterne il senso e l’emozione. Non è facile.

Che parlino allora le immagini come in un film muto d’altri tempi.
Istantanee rubate al mondo che suggeriscono senza spiegare. Additano senza accompagnare: la strada si percorre sempre da soli.

Passo così le mie ultime giornate nella capitale gironzolando nei quartieri della city e in quelli del commercio di Asakusa e Rappongi dove compro regali per gli amici e piccoli oggetti per me stesso.
Navigo sul battello, lungo il fiume Sumida che si dipana come un rotolo di seta colorato ai miei piedi.


Poi sono a “Chyoda”, il quartiere della residenza imperiale, appena velata alla vista da una pioggerellina fitta e inaspettata come spesso accade in questo periodo dell’anno.



La sera a Shibuya è una caleidoscopio di colori lanciati da un taxi.


Concludo l’ultimo giorno con una visione dall’alto: salgo sulla Tokyo Tower. A 250 metri dal suolo si può anche cominciare a credere di essere più vicini a Dio.



Mi sento comunque diviso, mentre il mattino preparo i bagagli, c’è in me una frattura: fra questo e l’altro emisfero del mondo.
Calpesto il suolo dell’isola di Honshu, ma la mente è già con un piede in Italia.

Saluto K, che forse è un po’ sollevato dal liberarsi di questo straniero tanto diverso da lui. Saluto anche i suoi amici, con i loro serate trascorse al karaoke, i film giapponesi in tv che hanno una sceneggiatura tanto lenta che una telenovela in confronto pare un action movie. Mi mancheranno anche un pochino gli inchini e i sorrisi forse un po’ finti, ma che comunque sono meglio delle facce incazzate dei milanesi.
Sono un pò estraneo a questo mondo, e come potrebbe essere diverso? Sono certamente molto lontano dal panorama che mi circonda, dagli impiegati che esausti dormono sulla metropolitana o in un atrio di un grande palazzo. Non mi appartengono le signorine in “yukata” che sorridono con la mano davanti alla bocca. E' solo folklore per per me i ragazzi che si incontrano nel metrò per sfoggiare i loro vestiti strani e che li fanno sembrare delle icone di un fumetto.


Mi rendo conto che il Giappone non è solo quello che si vede in città e più in generale non certo quello che si vede, ma penso che comunque un piccolo strascico del suo profumo mi sia rimasto addosso. Mi lascio così alle spalle una folla di volti e sensazioni e porto via qualche cosa, ma anche lascio qualche cosa: tutto si paga, in un modo o nell’altro.

Posso solo dire: "Domo arigato gozai mastè", ma ora…E’ tempo di andare.

martedì 5 agosto 2008

Avviso ai naviganti II

Tradimento! Aita, aita! Accoruomo.
Il dolce Aghirre è stato abbandonato dal "perfito" Pizarro (anaffettivo causa regressione senile) sulla via delle Americhe, propro quando si era in procinto di salpare con il galeone Prada: Luna Storta.

Lesto come nuvola di Drago, il vostro beniamino però ha cambiato destinazione.
Partirò per il Japan, destinazione Tokio. Poi esplorerò il Pacifico, magari dopo anche il Giambellino.
Fra le pagode sempiterne e i fiori di ciliegio, conferirò con alcuni monaci shintoisti dei massimi sistemi e della distillazione del sake.

Non cambia nulla...Come ha detto la signorina dell'agenzia di viaggi: "Alla fine Caracas o Tokio è la stessa cosa".
Ho annuito, facendo finta di aver capito il senso filosofico profondo di questa frase.

Volerò su un triplano: un Fokker rosso il 10 d'agosto (che fa anche rima) e torno verso la fine del mese.
A tutti tranne ad uno: Tora! Tora! Tora!