martedì 26 agosto 2008

Welcome to Mars part IV


Rapidissimo come un fendente di spada sibila il treno “Shinkansen”.
Fotogrammi rapidi si susseguono dal finestrino, prima la città e poi la campagna, poi un'altra città e via così sino a destinazione.
A bordo consumo il pranzo frugale e a buon mercato (1.000 yen) dei giapponesi fuori casa: il “bento”. E’ una scatola di legno contenente all’interno una serie di cibi che spaziano dal riso al pesce, dalle prugne acide sino a piccoli sformati di uovo e…non chiedetemi che cosa c’è dentro.
Divoro tutto perché mi piace un sacco.

Kyoto è una piccola città, solo un milione e mezzo di residenti che abitano case insolitamente basse rispetto ai grattacieli della capitale.
E’ la sorella più piccola di Tokyo, entrambe capitali in epoche diverse ma diversissime nell’aspetto e nei modi.
Il mio anfitrione mi informa che “quelli di Kyoto”, come li chiama lui, sono molto formali rispetto a loro, nati e cresciuti a Tokyo, che invece sono molto più diretti e schietti…figuriamoci!
Preparo i muscoli della schiena ad una sequela infinita di inchini e scendiamo all’enorme stazione ferroviaria.
Nel vicino albergo, bello e ordinatissimo, il personale di servizio si spreca, uno ti apre la porta, un altro ti avvisa che c’è un gradino, uno ti accompagna alla reception che è composta di almeno sei impiegati in divisa blu inappuntabile.
Mi pare di essere tornato a militare, ci manca poco che scatto sull’attenti davanti all’ascensore.
Comunque, anche qui nessuno parla inglese e mi godo quella meravigliosa sensazione di isolamento in mezzo a questo mondo d’oriente in costante divenire.
K, prenota direttamente in albergo un taxi privato per la visita alla città.
Dopo pochi minuti di attesa, ci raggiunge un’hostess dell’albergo che inizia una fitta conversazione con il mio accompagnatore. Passano circa cinque minuti di chiacchiere incomprensibili poi, la signorina comincia, in un crescendo rossiniano, una sequela di inchini al nostro indirizzo, dondola sui piedi e la voce è rotta dall’emozione, pare veramente sul punto di piangere.
Guardo preoccupato K e poi la ragazza e come il solito non capisco un cazzo, ma le penso tutte.
Mi hanno perso i bagagli? Il passaporto? Hanno trovato una geisha morta nella mia stanza?
Vorrei porgere un fazzoletto all’impiegata, ma si allontana senza guardarmi. Da quando sono in Giappone penso di essere diventato trasparente. Domando comunque al mio amico quale sciagura ci abbia raggiunto e K, mi dice che il motivo di tanta costernazione è che il taxi è in ritardo di dieci minuti!

“Kyoto style”, è il suo commento lapidario.

Procediamo lungo questa meravigliosa città in questo taxi con i sedili ricoperti da piccoli centrini ad uncinetto, guidato da un simpaticissimo e molto disponibile autista in guanti bianchi che parla però solo giapponese.



Ogni tanto il mio amico ha la bontà di tradurmi con quattro parole la mezzora di spiegazione fatta a proposito dei monumenti e dei templi che visitiamo.
La misura dell’educazione nipponica è particolare: ridondante su quello che non serve e carente sul necessario. E’ il trionfo dell’inutile, ma a loro piace così e io mi adatto come diceva quello che dormiva sui cactus.

La visita al tempio è comunque splendida, una serie di pagode sospese nel verde su plinti di legno alti 30 metri. In sottofondo un coro musicale di cicale inimmaginabile, poi squarci inaspettati di luce.



Arriva la sera e visitiamo il quartiere antico della città con le sue case tradizionali ancora abitate. Transitiamo da “bamboo street”, una via fuori dal centro adagiata tra due ali di foresta di bamboo alti quindici metri e fitti come capelli.
Al ristorante, su tavolini bassi venti centimetri gusto una cena abbondantissima e particolare rispetto alla cucina tradizionale.

Il giorno successivo sono in visita ad un museo all’interno di kiyomizu-dera uno dei più bei templi della città..
Tappa d’obbligo, appena usciti, è la visita alla casa della più grande scrittrice del Giappone Murasaki Shikibu, la creatrice del Genji Monogatari, un poema epico-amoroso dell’anno mille considerato il primo romanzo psicologico al mondo, una sorta di blog in 54 volumi.
In questa occasione gusto il più bel giardino zen che abbia mai veduto.
E’ un’esperienza quasi mistica, difficilmente spiegabile.
Osservando questa costruzione curatissima, la mente si perde nei flutti della ghiaia disegnata e rimbalza sulle pietre disposte ad arte lievemente punteggiate di muschio.

E’ tutto perfetto, ma l’apparenza è di estrema semplicità e naturalezza.
Una foto non rende minimante la sensazione che prova lo spettatore che adagi la propria anima vicino a questo capolavoro dedicato all’impermanenza.

Piego il capo in un piccolo inchino di fronte alla sensibilità e al gusto unico che solo un cuore orientale può partorire.

Visito infine la tomba della scrittrice, semplice e minimale, come mio modesto saluto fra colleghi e riparto per nuove avventure.



Manco però il Palazzo Imperiale, aperto solo ai turisti muniti di passaporto, perché in ristrutturazione. La notizia mi fa sentire un poco a casa, è bello vedere che anche qui le cose possono non funzionare.

Lasciamo Kyoto dopo due giorni e ci dirigiamo dall’altra parte dell’isola, è un viaggio di molte ore che occuperà quasi mezza giornata.
Dopo aver ripreso il "treno proiettile" scendiamo poco prima di Hiroshima e prendiamo la coincidenza (precisa al minuto) con un treno espresso per Izumo. Ci aspetta questa piccola città di pescatori dove sorge uno dei più importanti templi shintoisti affacciato sul Pacifico.
Faccio fatica a rimanere comodo sui microscopici sedili di questo trenino, ma ne vale la pena.

Izumo è la parte più bella del viaggio.

Alloggiamo in un “ryokan”, un albergo tradizionale a conduzione familiare che si snoda lungo una pagoda su un'unico piano. L'albergo è quasi vuoto e sono l'unico occidentale e non ne incontrerò uno neanche per strada sino al mio ritorno a Tokyo.
Materassini di riso intrecciato al suolo (tatami), quadrati imbottiti per dormire (futon), armadi inesistenti, silenzio completo, questa è la dotazione di serie della nostra base operativa.
Il “sento” di acqua calda è degli anni cinquanta, come tutto qui.
La cena è servita in camera dalla proprietaria, una lillipuziana signora anziana che emana una dolcezza e uno stile impareggiabili.
Su un tavolino basso, seduti a gambe incrociate, decine di piatti e cibo squisito, che sazierebbero anche lo stomaco più dilatato, fanno da contorno alla nostra serata.
Sorvolo sul bagno bonsai della camera che richiede: anche sciolte e una notevole abilità acrobatica. Tutte doti che, in ogni modo, padroneggio grazie alla mia innata elasticità articolare.

Mi addormento steso sul futon guardando fuori, oltre le porte-finestre scorrevoli di carta di riso (shoji), che si affacciano sul piccolo giardino interno.
I rami degli alberi bassi e la piccola vasca di pietra riflettono, come perle Akoya, la luna piena: bianca e muta. E' una poesia silente scritta sull'acqua.



Quanto vere mi sembrano allora le parole del monaco errante Ryokan del XVII° secolo.

Profonda Armonia

Nella notte di quiete,
solo nel mio abituro,
suono il Koto senza corde del mio cuore.

La melodia entra nel vento e
nelle nuvole si disperde.
Il suono si fonde con il gorgoglio delle acque
che scorrono ed è profonda armonia.
D’infinito riempie la valle,
libero attraversa le foreste sui monti.

Chi mai, se non un sordo, può ascoltare
questa musica misteriosa?


Continua…

Nessun commento: