Come una sorta di piccolo Joseph Conrad, da giovane con qualche velleità fuori luogo, affrontai una personale avventura in Congo.
Fu prima della guerra avvenuta sul finire degli anni 90' nel ex Zaire, ora Repubblica del Congo, dopo il genocidio avvenuto invece in Ruanda qualche anno prima le cui ripercussioni violente si estesero però in quasi tutto il centro Africa.
Me ne andai dal ex Zaire all'inizio della guerra civile, dopo un episodio che al confine con il Ruanda mi mostrò i prodomi della guerra innescata dal conflitto tra le due etnie principali (Hutu e Tutzi) che si stava estendendo anche in Congo.
Fu a un posto di blocco vicino al confine Ruandese che pervenni a questa decisione proprio quando venni fermato dai militari al seguito di una fila lunghissima di automobili e persone.
Ero tra i tanti che aspettavano di superare il controllo e proprio prima del mio turno di esibire documenti e lasciapassare fu preso un nero che per qualche ragione era nato dalla parte sbagliata del fucile. Parlava in inglese, probabilmente era Ugandese: "Who keep my parents?". Una litania insistente e disperata che ripeteva. A ricordalo ho ancora in testa quel ritornello.
Lo legarono ugualmente, nonostante le suppliche e lo posero a faccia in giù nel fosso a lato della strada asfaltata, e come niente fosse gli spararono. Semplicemente una raffica, senza animosità; Come un evento naturale. Compresi chiaramente che il "Cavaliere Pallido" dell'Apocalisse era arrivato in quei luoghi.
Un corpo seminudo a lato della carreggiata era quello che era stato una volta un essere umano.
Nessuno disse niente, nemmeno io mi sognai di protestare o almeno commentare. Gli occhi guardano altrove di fronte alle armi, è sempre stato così, fanno questo effetto.
A volte penso che ho visto talmente tanti cadaveri in questa vita che potrei organizzare una gara con un patologo.
Mentre scorrevo oltre quel delitto a bordo della mia jeep con i finestrini abbassati, senti il caratteristico odore che accompagna la Morte in quei frangenti: sangue, merda e polvere da sparo. Il trio infausto lo chiamo, di solito è accompagnato da una stretta alla pancia.
Basta! Dissi a me stesso e venni via per sempre da quell'Inferno per trovarne altri più confortevoli.
Sono passati molti anni. Questi eventi descritti però non erano ancora accaduti e vivevo ancora in un altro mondo, direi quasi di bellezza e di privilegio.
In quei luoghi e quei tempi c'era ancora una sorta di "supremazia bianca" che eticamente non è giusta, ma è obiettivamente una gran comodità in un continente dove sono tutti neri, poveri, disperati, ma più grossi di te; Un paese dove sei solo: bianco in mezzo a una moltitudine nera, dove le armi improprie sono portate liberamente e quelle proprie con uguale disinvoltura.
Non si può immaginare una realtà simile, bisogna viverla prima di giudicare. Dicono quelli dei diritti civili (che si vedono solo quando non servono) "siamo tutti uguali" evidentemente non sono mai entrati in una discoteca di Kinshasa e non conoscono l'odore delle diverse umanità. Evidentemente non hanno mai vissuto in mezzo alla strada a contatto con gente povera e non hanno mai visto i massacri che produce l'Odio.
Certamente quelli bravi, buoni e progressisti di sinistra, insomma quelli che chiamo: "I Comunisti al caviale" cioè quelli con i soldi, che stanno in città civili e sono "apparecchiati" che vivono nella loro casetta termo-autonoma o in un bel attico in centro, quelli che si fanno vedere mentre pedalano in bicicletta (perché difendo l'ambiente) ma hanno il Suv parcheggiato in garage, storceranno il naso a questo racconto, ma della loro opinione a me non fotte proprio nulla. Non mi appartengono quelle ipocrisie.
Tornando alla mia vita vissuta ho curiosamente constatato che, quando le cose mi vanno bene, le rogne me le vado a cercare. Sono vittima di un inguaribile masochismo di cui ora per fortuna sono contagiato in misura minore.
A quei tempi folli ero votato all'avventura e così decisi di partire dalla capitale e lasciare la mia comoda villa per fare un viaggio diciamo "esplorativo".
Vivevo bene, avevo sette servitori: una cuoca, una guardia, un giardiniere e quattro cameriere. Quando tornavo a casa lascivo cadere i vestiti a terra mentre transitavo da una stanza all'altra e la mia domestica mi seguiva raccogliendoli, poi li lavava, li stirava e li metteva nell'armadio. Non si trovano più maestranze così: succubi e a "bon marché".
Non che fossi viziato sia chiaro, perché la mia educazione è stata spartana, però non posso dire che un certo lusso mi risulti molesto. Se l'ho me lo godo.
Sono commenti razzisti?
Niente affatto. Le differenze ci sono, è ipocrita non ammetterlo e ci fanno anche comodo. Il razzismo non ha senso eppure esiste in ogni essere umano, perfino i neri tra loro lo sono e non lo si crede solo perché non lo si conosce. L'africano è strutturalmente diverso dal bianco, ha un'energia interiore che è come una lieve scossa che lo attraversa. Noi bianchi non l'abbiamo e nemmeno gli asiatici l'hanno cioè gli asiatici l'hanno, ma diversa, più sottile.
Semplificando con un esempio, mentre un bianco balla semplicemente (neanche troppo bene) il nero è attraversato dalla musica e posseduto dal ritmo; E quando accade, è posseduto dalla "Forcer" cioè dalla forza, detta precisamente "Fuerza" come in spagnolo, così da loro è chiamata.
Essa non è propriamente della persona, ma nella magia, nei luoghi, nelle maschere, nel rito. La Natura e il Mistero colora la vita in Africa e sono cose tangibili. Non se ne parla, perché sono evidenti in quei luoghi, sarebbe come se noi parlassimo del fuoco che scotta.
Non se ne parla anche, perché il loro modo non è rivelato al bianco sfruttatore, si vergognano con noi. Questa realtà è difficile da capire e spesso se dichiarata è fraintesa, perché interpretata dai luoghi comuni della civiltà occidentale. Se vuoi capire qualcosa di nuovo devi dimenticare ciò che sai.
Un fatto drammatico accaduto a un mio conoscente.
Sei al fiume a pescare e arriva un nero simpatico e ti domanda della pesca, una chiacchierata che dura tutto il pomeriggio. Il giorno dopo torna e ti ammazza per prenderti la canna da pesca. Ma non c'è premeditazione. Gli piace, ha un desiderio che matura al momento e la prende. Il giorno appresso torna nello stesso posto a pescare come faceva il bianco. Perché per loro è figo quello che fa il bianco, il loro massimo piacere è fregarlo. E' come superare il "MENSA" il test d'intelligenza più arduo per un americano.
Se in quel posto cioè dove è avvenuto l'omicidio esiste la Polizia e qualcuno paga l'indagine, allora forse il colpevole se lo prendono e poi cosa gli succederà nessuno lo saprà tranne chi ha pagato l'indagine. Altrimenti non succederà nulla. Questa è Africa.
Non parlo poi dei funerali delle morti ignote che si svolgono in corteo guidato dallo stregone che non è come si crede, ma vestito di tutto punto con la giacca e cappello.
Una volta era morto un noto ladro, ammazzato dalla Polizia. Tutti lo sapevano, ma nessuno lo diceva.
Così la cassa del morto trasportata a spalle lungo le strade era alla ricerca dell'assassino, grazie allo stregone ovviamente.
Un sussulto andava a destra, un altro e andava a sinistra. Perché la bara guidava la ricerca per trovare il colpevole. Un cosa da non credere e si fece oltremodo seria quando il corteo giunse vicino al Commissariato. C'erano circa duecento parenti incazzati e quelli quando perdono la testa sono pericolosi. Uscì dal mandamento un poliziotto con il mitra. Sparò una raffica al cielo e come d'incanto la bara si diresse verso la foresta. Anche questo è Africa.
Non fu un evento generato da una superstizione da villaggio, questo accadde nella città più civile del paese. Pare normale a chi vive in Occidente?
Non credo, eppure successe e probabilmente succede ancora.
Nessun libro racconta queste usanze, nessun documentario le testimonia, perché chi scrive e documenta le ricerche etnografiche è generalmente occidentale e le fa per gli europei e in generale per gli occidentali. I documentaristi si affidano a dei mediatori, a guide locali o altri giornalisti neri che non sono più dei "veri" africani. Ragionano come i bianchi e dunque non mostrano quello che non sono più.
Non portano nessun bianco a vedere queste cose, e lo fanno per diversi buoni motivi. A me è successo sempre per caso di esservi testimone. Ho visto cioè la loro vita per quello che è, senza mediazione, ma può essere pericoloso. Ho perso il conto così delle volte che ho rischiato la pelle.
"La mia Africa" in ogni caso si svolse prima della guerra civile e non fu un Safari e neppure una vacanza in un accogliente Club Mediterranee, ma a un certo punto giunsi a una scioccante scoperta a riguardo della Natura più intensa e selvaggia ed ebbi un profondo confronto con me stesso, oltre gli schemi confortevoli in cui generalmente tutti ci rifugiamo per nasconderci.
L'Africa è un continente forte e non ti lascia indifferente, ebbi così una profonda rivelazione su me stesso.
Non era mia intenzione farlo, ma accadde.
Fu proprio come inoltrarsi in "Cuore di Tenebra" e la mia avventura giunse al suo apice con una rovinosa disavventura.
Partii da Kinshasa per questo viaggio che volevo compiere per conoscere veramente la realtà, diretto a Nord-Est lungo una strada che definire asfaltata sarebbe stato un azzardo e mi inoltrai lontanissimo, in piste sempre meno praticabili; Ero quasi giunto al vulcano Nyragongo, la cui città vicina mi avrebbe fornito i rifornimenti necessari a integrare quelli già consumati e permettermi di continuare il viaggio lungo la catena dei monti Virunga sino all'inizio della foresta dell'Ituri, un'area estesa dove vivono i Bantù, mia prima destinazione, quando si ruppe la jeep con cui viaggiavo in solitaria e certamente da irresponsabile.
Volevo in seguito dirigermi a oriente dove vivono i pigmei e poi a settentrione verso i Monti della Luna, il grande lago Tanganika e infine in Sud Sudan.
Questo era inizialmente il mio ambizioso programma, le cose invece andarono diversamente. Dopo una settimana il mio itinerario si bloccò in mezzo alla Savana. L'autovettura mi aveva piantato in asso completamente.
All'inizio la situazione non mi parve drammatica, infatti l'inesperienza della gioventù mi proteggeva dalla paura, ma non eliminava però i pericoli.
Dopo un po' mi risvegliai da questo assurdo ottimismo e realizzai che ero completamente prigioniero in mezzo al nulla.
Fui certo che sarei morto lì. Mi diedi del coglione centinaia di volte.
Trascorsero tre giorni, ma nessuno passò lungo quella pista dimenticata.
Non c'era un'anima viva in quel luogo, l'unico segno di vita erano i terribili richiami degli animali durante la notte che udivo chiuso dentro l'autovettura, mentre cercavo di combattere il freddo che sopraggiungeva quando la sera diventava notte.
Non si può immaginare quanto è gelida l'Africa quando tramonta il Sole.
Le provviste finirono, ma soprattutto l'acqua scarseggiava ed è la cosa più importante. Infatti senz'acqua in tre giorni diventi un pasto gratis per gli avvoltoi, se bevi la tua urina hai una settimana di vita. Le fonti d'acqua quasi introvabili sono talmente contaminate da batteri portatori di malattie inimmaginabili che tanto vale spararti in testa. La pioggia c'è solo in una stagione.
Quelli che non sanno un cazzo diranno: cerca l'acqua e falla bollire.
Peccato che, ammesso di trovare una fonte, un fiume o una pozza, lì ci trovi anche i predatori che forse non hanno il dono delle domande cretine, ma da mangiare sanno come e dove trovarlo e si appostano dove c'è l'acqua.
Il fucile non serve quando arrivano quindici leoni tutti insieme, e quelli non si spaventano per un colpo o due, vengono avanti a una velocità folle finché non ti mangiano.
Non fai nemmeno in tempo a difenderti, perché infatti non è come nei documentari dove le riprese sono fatte da dentro la jeep.
La Savana ammazza i neri che ci sono nati, figuriamoci i bianchi.
Inoltre, trovare la legna non è facile, perché di alberi ce ne sono pochi e sotto alla loro ombra ci trovi ancora i soliti "amici" predatori e "dulcis in fundo" appena smette di bollire l'acqua, ammesso e non concesso che sei sopravvissuto a tutto questo, ci arrivano dentro le mosche (che sono dappertutto) e sono anch'esse portatrici di malattie terribili e sei d'accapo. Insomma l'Africa è un casino, altrimenti ci rimanevo.
Comunque a parte le lezioni di sopravvivenza spicciola e detto con un eufemismo, nonostante la mia presunta preparazione: ero nella merda completamente.
Così preso dalla disperazione mi inoltrai a piedi nella Selva alla ricerca di un villaggio dove ricevere aiuto. Morire per morire tanto valeva fare qualcosa.
Chi ha esperienza dell'Africa sa che per un bianco inoltrarsi senza automobile nella foresta equivale a fine certa. Non potevo fare diversamente e mi giocai con pessime carte quella che mi parve l'ultima mano al tavolo della vita. Ero fatto e lo sapevo, ma comunque non volevo mollare.
Avevo una bussola e una mappa geografica, perché il GPS allora non era stato inventato.
Avevo anche un fucile Spas calibro 12, fedele compagno d'avventura, ma era inutile, perché nell'erba alta non si vedeva niente. I predatori hanno una velocità impressionante nell'attaccarti e se non hai sufficiente distanza tra te e loro, non hai nemmeno possibilità di sopravvivergli.
Gli Ippopotami che non vidi, insieme al Bufalo Nero Africano che evitai accuratamente sono entrambe le specie considerate le più pericolose, mentre i famigerati leoni sono generalmente cacciatori prevalentemente notturni, le iene invece sono predatrici anche diurne estremamente pericolose e mi regalarono meravigliosi momenti di terrore; Aggressive tanto come i leopardi, quest'ultimi si appostano tra i rami degli alberi e ti piombano addosso dall'alto, al modo che fanno anche certi serpenti, oppure cacciano coperti dall'erba alta appunto.
Questo per dire che tutto è sovradimensionato e micidiale in Africa, perfino i ragni sono grandi come criceti e possono ucciderti.
Comunque mi persi ulteriormente, in quel luogo ove la civiltà non pareva mai essere apparsa.
Fortunosamente, miracolosamente sarebbe più appropriato dire, fui salvato da un nativo, incontrato per caso lungo un sentiero, un nero che mi parve quasi fosse giunto lì ad aspettarmi.
Gli raccontai la mia storia, mentre rideva di gusto e si convinse che doveva aiutarmi.
Trascorsi poi tre settimane nel suo villaggio suo ospite, dove non c'era nulla, a parte la Natura, il caldo soffocante del giorno e le albe e i tramonti d'inaudita bellezza. Le ragazze in quel luogo non erano molto carine e con dei concetti sull'igiene personale talmente fantasiosi da scoraggiare anche il testosterone più ostinato.
Sperimentai il silenzio dell'Africa che è unico. Quando accade è totale, indescrivibile. E' quasi solido.
Animali e Natura come se si fossero messi d'accordo si placano.
Non c'è più rumore, suono, verso o parola. Un'interminabile silenzio che dura pochi istanti e ti sorprende alle spalle per rimanerti dentro.
La mia Toyota fuoristrada (sono le migliori sebbene si fosse guastata) rimase dov'era, lungo quel sentiero lontano dal villaggio dove non c'era nessuno che potesse ripararla.
Questo amico africano per fortuna si prese cura di me e da lui appresi chi era veramente: uno stregone (Sorcier).
Mi aveva visto nel suo sogno ed era l'unico motivo per cui ero ancora vivo.
Con quest'uomo in un francese stentato parlammo di molte cose e di altre incredibili e magiche ne fui invece testimone.
Però dopo quasi un mese di vita "agreste" non ne potevo più e lo supplicai di riportarmi al mondo che conoscevo; Alla cosiddetta Civiltà in cui la dicotomia della vita mostra tutta la sua inadeguatezza, mentre dove ero, in quel luogo via dal Mondo, tutto era uno.
Il mio salvatore mi aveva detto che un cugino di un suo cugino mi avrebbe aggiustato l'autovettura, ma bisogna capire che lo sport nazionale africano è raccontare palle. Dunque nessuno aggiustò un bel niente.
Mi accompagnò infine, ma dopo molta insistenza, preghiere e lamentele alla "maison des blancs" perché diceva: "Lì non potrai essere felice, resta qui".
Io però non gli credetti. Volevo un caffè, fumare una sigaretta, guardare la televisione. Sognavo l'aria condizionata, la carta igienica e non sopportavo più le mosche e le zanzare che erano dappertutto. Ne avevo fin sopra i capelli di lavarmi i denti con le foglie e coprirmi di argilla per non scottarmi alla canicola africana. Ero stufo di cagare in un buco nel terreno in mezzo ai topi.
Ero un giovane uomo, un pochino superficiale, sebbene già mi facevo molte domande.
Nel delirio di onnipotenza che si chiama gioventù, credevo di poter ignorare il dolore e il disagio, ma dovetti ricredermi; Mi era possibile farlo, ma non come condizione stabile, solamente in momenti estemporanei.
La matrice psichica che si forma nei primi anni di vita è immodificabile. Una volta conosciuta una realtà confortevole non è possibile dimenticarla per un'altra disagiata, non si fa caso che le nostre molte esigenze sono in realtà semi velenosi.
Per questo affermo che la libertà è solo degli animali selvaggi. Noi siamo tutti prigionieri non solo dell'utile, ma del comodo.
Finalmente partimmo. Furono diversi giorni di cammino nella Savana. Attraversammo paesaggi sempre diversi, ma senza quasi parlare.
Tutto intorno era pericolo, ma grazie a quell'uomo la speranza aveva ancora senso di esistere. La sua calma era pari solo alla sua straordinaria forza. Scalzo attraversava i rovi come niente fosse, oppure lungo lembi di terra su strapiombi, si teneva in bilico con la lancia come un funambolo, facendomi strada. Quando camminava sembrava un felino, l'incedere era nobile, eretto, bello come un principe povero, non possedeva nulla, ma si muoveva come se non gli mancasse niente. In una parola: Magnifico!
Ho ricordo di quando dovemmo attraversare un piccolo fiume e lui non sapeva nuotare. Così me lo caricai sulle spalle e guadammo insieme quello che si rivelò invece un torrente per fortuna non molto profondo. Lui rideva come un bambino, mentre io facendo la faccia feroce, fingevo di volerlo abbandonare nell'acqua, perché gli dicevo che non mi era piaciuto quello che aveva preparato per il pranzo.
Lui (uno Stregone non rivela il suo nome) improvvisava la scenetta di supplicarmi, mentre piangeva dal ridere, ma rifiutavo ogni tentativo di conciliazione, dicevo: -Cucini troppo male, non è possibile perdonarti, non meriti di vivere-
E giù un altro scossone.
Ridemmo così tanto che ricordo mi fece male la pancia. Momenti spensierati, attimi di fuga, poi l'angoscia mi catturava nuovamente. Che devo dire? L'ho amato come un fratello.
Non si crede e non penso di essere un fifone, ma la paura e il disagio che la Natura provoca, insieme alla constatazione della sua abbagliante bellezza e straordinaria potenza, in un uomo civilizzato (addomesticato) quale sono, può quasi portare alla follia. Ti senti come risucchiato in un altrove e la mente vacilla, hai come un mancamento e rischi di andartene via.
Dovetti così fare appello a tutte le mie risorse fisiche e psicologiche per non perdere il senno.
Quando si vedono i documentari delle spedizioni realizzate da troupe attrezzate nelle varie parti del Mondo, magari in luoghi quasi inesplorati, si assapora solo la bellezza di quei posti, ma non si può sentire la solitudine che si produce dal confronto personale tra se stesso e il mondo naturale, esso ti trasmette tutta l'inadeguatezza della dimensione umana, rispetto a quella forza immensa che percepisci provenire dalla Natura, ma che in realtà è propria del pianeta; Questo ridimensiona drasticamente le personali certezze rendendole evidenti a quello che sono: realtà arbitrare.
Insomma per dirlo con semplicità non fu come una gita in campagna.
Entrambi eravamo sfiniti e una strana malinconia ci seguiva lungo il percorso. A volte mi pareva di vederla, un essere incappucciato, vestito con una specie di mantello scuro che ci pedinava a debita distanza. Vicino a quello Stregone avevo a volte strane visioni. La magia è contagiosa. Compresi molto bene che non appartenevo a quella realtà. Era troppo per me quel Tutto, e non ero ancora pronto a un simile distacco dal conosciuto. Più avanti nella vita forse avrei avuto modo di superare quel limite, ma allora non potevo immaginarlo.
Fu così un viaggio a ritroso verso il Mondo noto, e fu talmente faticoso da renderlo interminabile.
Un cammino lungo le mie paure, attraverso le meschinità proprie delle necessità che emergono dal profondo, quando si è oltre i limiti dall'orrore e dalla morale.
Liberato da ogni convenzione, l'essere umano si accorge che la sopravvivenza è l'unico comandamento necessario ed è l'unico ad aver senso.
Le umane preoccupazioni spesso futili, gli usi, i costumi, la Legge della società civile e perfino la personale Etica non trovano posto in quel Mondo autentico, perché sono prive di oggettività.
Ecco che la Realtà, in quei luoghi e in quelle condizioni, rivendica la sua assolutezza prepotentemente; Il resto sfuma e così ti accorgi che non è mai veramente esistito.
Il senso personale di quel Calvario Infernale patito si concretizzò in una fulminante verità: Il Mondo è un'effimera scenografia, davanti a cui l'Uomo si esibisce credendosi un protagonista. Una Verità che mi accompagna ancora oggi.
E' un fragile Teatro la vita umana.
Queste sono le mie modeste considerazioni, tra l'altro nemmeno originali. Un conto però è leggerle e un altro è viverle.
Ad ogni modo giungemmo infine al limitare dell'inizio della civiltà, e ci salutammo. Ero felice e profondamente triste nel medesimo tempo.
L'agognato confine si presentò inaspettato. Ricordo il caldo di mezzodì, l'erba alta sino al ginocchio e gialla, l'azzurro intenso del cielo senza una nuvola. Colori brillanti che si sovrapponevano piuttosto che cose. Le prime abitazioni mi apparvero strane con i tetti coperti dalle tegole rosse e i muri bianchi, non ero più abituato a quelle forme.
Ah! Quella era finalmente la civiltà.
Indelebile rimane in me l'ultimo consiglio del mio compagno d'avventura: -Tu ne crois pas au landiman- cioè mi disse: "Non credere al domani".
Non mi voltai, mentre andavo. Non volevo mostrargli le lacrime che mi scendevano lungo il viso, sgorgavano semplicemente, non ne avevo controllo, sopraffatto da sentimenti opposti e confusi. Era un moto inarrestabile che mi sussultava nella pancia come una danza tribale: una danza d'addio.
Confesso che pensai di avere un'allucinazione, temevo che le abitazioni dei bianchi sparissero improvvisamente.
A furia di stare in quel villaggio con i neri ero diventato una sorta di Bantù sbiadito, avevo perso la familiarità con la civiltà.
Mi affrettai a raggiungere quelle case come se potessero partire via da quel luogo da un momento all'altro. Il mio passo era concitato come quello di un bambino spaventato dopo che si è perso e va incontro finalmente alla mamma. Mi sorprese questa mia inquietudine ingiustificata.
Invece con i sentimenti profondi che provavo verso chi mi aveva aiutato fui timido, me ne pento, non glieli mostrai completamente dandogli sbrigativamente le spalle e allontanandomi. Non che fossi stato proprio irriconoscente, gli avevo lasciato il mio fucile che per loro è una vera ricchezza, ma invece ero solamente sconvolto e completamente sottosopra.
Così di quel uomo cui devo la mia vita non ne seppi più nulla.
Per molto tempo, però ci siamo incontrati nei sogni.
Da un po' questo non accade più.
Quindi scrivo questa storia per ricordarlo e descriverlo a chiunque legge e dirgli che Lui è esistito, mi chiamava "Monsieur..." e io lo chiamavo "Monsieur Lui" in un modo un po' canzonatorio, allora non si usava "Monsieur" per i neri; Comunque al Mondo vivono uomini straordinari ed è forse il motivo per cui il Mondo ancora gira ed esiste.
Nel mio curioso modo di essere, pago il mio debito e offro un tributo, celebrandolo. Cose strane che non si possono spiegare. Appaiono a volte presuntuose certe mie affermazioni, ma nell'essenza autentica non esistono le forme variegate delle convenzioni, dove è buona norma con la gente premettere ogni propria Verità con un "forse" oppure un "magari".
E' così oppure non è, non c'è altro modo di essere.
Come vita o morte, amore bruciante oppure odio furioso, sono elementi drastici cui un Uomo deve conciliarli profondamente e accoglierli con gratitudine nel suo Sacro il cui significato è "separato" un luogo dove gli opposti convivono.
Può un uomo quale sono testimoniare di cose così grandi?
Credo di si, in fondo anche l'oceano è riassunto in un bicchiere d'acqua.
Personalmente fatico a scendere nei particolari di quanto mi è accaduto, in quanto il ricordo è inciso nella mia anima con la sofferenza ed è come una cicatrice che mi indica un antico sbaglio; Esso però si è rivelato con il tempo e la fortuna, un'esperienza formativa fondamentale.
A me piace pensare che troverò la risposta che cerco, giunto al fondo di me stesso. Vissuta ogni esperienza e colto ogni sapore della Vita.
La conoscenza in me attraversa inevitabilmente il dolore, il pericolo, l'ignoto. La mia strada è solitaria, l'ho constatato: tutto è fatica.
E' il Destino che ho scelto e lo abbraccio totalmente. La mia accettazione del divenire è completa.
Nel vivere non mi concedo alcuna pietà, a volte sono duro con me stesso, eppure ogni sera mi perdono e lo faccio per iniziare una vera nuova vita ogni nuovo giorno.
Grazie! E' ciò che sento profondamente nella meravigliosa esperienza di vivere. Questa gratitudine mi dona contentezza, nonostante le delusioni e le paure che sono determinate dal male di vivere. La natura dell'esistenza è tragica, bisogna ammetterlo con onestà. Siamo in cammino verso la nostra tomba e l'oblio sarà il nostro epitaffio; Questo è vero per l'esistenza materiale, per l'Oltre invece?
Chissà! Un avverbio che pronuncio sorridendo.
Mi piacerebbe ogni tanto e sarebbe comodo fare una vita come quella degli altri, ma non succede.
La mia domanda però rimane: È possibile essere civile e nello stesso tempo migliore?
E ancora di più: È possibile essere veramente umano?
Cosa vuol dire veramente, cioè realizzare: essere Uomo?
Sono in cerca di quella risposta, cammino ancora lungo quel sentiero dimenticato africano e talvolta a lato di esso, nell'Alba ancora fredda, scorgo dei fiori coperti di rugiada, sono come occhi che piangono e mi guardano.
Cammino svelto, perché sono ancora in caccia per giungere al "Luogo delle cose Vere" così lo chiama il mio Spirito.
Lungo una pista inesplorata, sempre nuova e senza indicazioni che gli altri chiamano Esistenza;
Io invece la chiamo: Significato. Questa è la mia caccia.
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