martedì 3 giugno 2008

Bonoboville


In uno dei viaggi che accompagnarono la mia gioventù, mi capitò di perdermi nella grande foresta pluviale del centro Africa nei pressi delle colline del vulcano Virunga dove ora le mappe indicano il Congo.

Dopo vari tentativi di tornare alla civiltà, mi resi conto che mi ero smarrito irrimediabilmente in questo angolo di mondo rimasto agli albori della preistoria e mi rassegnai a vivere come un primitivo.
Non fu facile, ma per fortuna non vi erano predatori pericolosi. Comunque fosse non avevo a disposizione che poche risorse, qualche utensile ed i vestiti che avevo indosso. La necessità di nutrirmi e di ripararmi dalla pioggia e dall’umidità di notte incalzavano.
In breve tempo persi peso e disperavo di potermi salvare né tanto meno di tornare al mondo civile.
In quel frangente e in maniera del tutto casuale e fortuita feci amicizia con una tribù di Bonobo, e fui adottato da queste meravigliose scimmie antropomorfe.
Da loro appresi molti elementi utili alla sopravvivenza e in poco tempo cominciai a vivere con loro e come loro.

In particolare strinsi amicizia con il loro capo branco che, vecchio e saggio, mi prese a ben volere.
Il suo nome era Gian Giacomo De Marinis.
Un giorno come gli altri ero in sua compagnia e mangiavamo banane guardando il calar del sole appollaiati su un ramo alto di una mangrovia secolare e mi domandò: “Ue, Visir, ma che vita fate voi esseri umani?”.
“Una vita molto complessa e raffinata”, dissi sputando un seme di tapioca che mi si era infilato fra i denti un mese prima”.
“Racconta, che oggi sono curioso”, mi chiese interessato De Marinis.

“Devi sapere che l’uomo civilizzato non sta mai fermo. Appena comincia a stare sulle proprie gambe, impara a parlare e poi deve andare a scuola e comincia a studiare sui libri”.
“Pensa tu!”, commentò Gian Giacomo, guardandomi con quegli occhietti rossi, ravvicinati e intelligenti, che rilucevano nei riflessi di questo tramonto arancio bello da togliere il fiato.

“Perché voi non avete i libri?”, chiesi di rimando.
“A che serve? Le cose importanti della vita non si imparano leggendoli”, disse.

Compresi che la conversazione sarebbe stata dirompente per le mie convinzioni e ne fui subito felice.

Continuai il mio resoconto: “Allora, dopo la scuola, che può durare molti anni, dove uno impara quasi tutto senza sperimentare quasi niente, l’uomo comincia a lavorare”.
“Oh bella, questa mi è nuova: cos’è sta storia del lavoro?”, mi chiese.
“Il lavoro e come quello che fate voi quando prendete il cibo dagli alberi, come quando vi spulciate. Come quando giocate a rotolarvi. Solo che non è divertente”. Spiegai.
“E allora perché lo fate?” si informò stupito voltandosi verso di me.

Non sarebbe stato facile spiegare.

Con un sospiro rassegnato continuai: “Il lavoro serve per guadagnare il denaro, questi è fatto di carta disegnata, ma ha un enorme valore per noi, più ne hai più poi fare quello che ti pare, prendere quello che ti piace, trascorrere il tempo a far nulla oppure viaggiare, mangiare andare a divertirti”.

Rideva, De Marinis, sollevando le sue spalle pelose in un sussulto, appena riuscì a smettere disse: “Anche noi facciamo le stesse cose, ma non abbiamo bisogno di questi pezzi di carta; se voglio qualche cosa basta allungare una delle mie quattro mani per prenderla oppure cercarla o dividerla con un amico che già la sta usando. Per mangiare, divertirsi o viaggiare non serve altro che un po’ di tempo e buona volontà…Scusami Visir, le cose necessarie costano poco, ma sta cosa dei soldi mi pare una stronzata”

“In effetti, in una prospettiva più semplice pare anche a me, ma come ti dicevo la nostra società è complessa e deve far fronte a molti problemi che sarebbero irrisolvibili senza denaro” cercai di spiegare, ma già annaspavo nell’acquitrino delle mie preposizioni.

“Adesso mi spieghi questi problemi quali sono, ma prima toglimi una curiosità quando hai tanti soldi cosa ci fai esattamente?”, incalzò.
“Devo dirti che per guadagnarli non è facile, tutti li vogliono, ma nessuno li molla volentieri, ma se riesci ad accumularne a sufficienza (impiegando molto tempo e lottando molto) puoi essere ricco e godere di molti lussi”
“Che lussi?” chiese facendo una smorfia schiacciando un pidocchietto che aveva messo casa sul suo ventre.
“Case da favola, macchine di lusso, cibo raffinato, donne” insomma le cose belle della vita.

Scuoteva la testa poi si fermò e mi guardo con sguardo severo.
“Amico mio, i veri lussi della vita sono solo tre”, e poi continuò, “Il tempo, che anche l’uomo più ricco non può comprare neanche con il tuo denaro, lo spazio intorno a se, come in questa foresta infinita e da ultimo il più prezioso… Il silenzio. I vostri uomini ricchi le hanno queste tre cose?”.

“No” dissi grattandomi la testa.
“E allora, secondo la mia opinione non sono ricchi, ma solo molto indaffarati” e ricominciò a ridere.

Cominciavo ad innervosirmi, non era divertente farsi mettere in scacco da una scimmia di 90 cm. Per di più che rideva alle spalle della civiltà che sognavo ogni notte di poter raggiungere.

“Non è come vivere nella jungla, o meglio è una jungla, ma noi dobbiamo combattere con il freddo le intemperie, abbiamo bisogno di case, strade, negozi” aggiunsi infervorato.
“Andate a vivere al caldo, semplicemente” disse.
“Noi siamo tanti, tantissimi”aggiunsi.
“Fate meno figli, che ci vuole?”, concluse con una scrollata di pelo.

Dopo qualche minuto di silenzio, incalzò sulfureo: “Poi, le case danno solo preoccupazioni, da quanto mi hai raccontato, devi arredarle, mantenerle, pare che ti tocca vivere per loro e non loro per te, le automobili sono pericolose, te le rubano, cosa inaudita da noi che non c’è nulla da rubare perché non esiste la proprietà privata. Se anche voi nascete nudi, come noi, non puoi certo pretendere che una cosa sia tua, al massimo è in prestito. Le femmine poi, qui puoi averne quanto ne vuoi. Godiamo di una libertà sessuale totale, in fondo è il divertimento più sano e facile che esista, la Grande Scimmia ha detto -fate l’amore non la guerra- e fece una breve pausa.
Sbottai: “Proprio a me doveva capitare una scimmia hippy!”
Poi riprese: “Guarda non ho idea cosa sia –hippy- ma a me sembra la cosa migliore che hai detto fino ad ora”.
“La nostra società si basa sul diritto di proprietà”, affermai quasi alzando la voce.
“Forse è quello il problema, se vuoi volare sulle liane devi essere leggero, lo dice anche il nostro proverbio più famoso”, mi parlò come se stesse spiegando la cosa ad un Gorilla ritardato mentale.

Il sole era quasi tramontato, le stelle, grandi come noci di cola luminose facevano capolino sulla volta celeste.
Udivo in lontananza gli ultimi richiami dei krakatoa che salutavano il giorno morente.
Il silenzio della sera saliva verso le cime degli alberi insieme alla nebbia, con loro la calma e la pace si stendevano sul branco addormentato come una coperta.
Osservavo queste piccole scimmie, abbracciate fra loro, che riposavano e pareva si fondessero con la grande foresta. Tra loro e il mondo non vi era separazione.

Gian Giacomo si rivolse a me con un tono molto sereno e dolce: “Senti Visir, tu mi sembri una brava persona, non hai la fortuna di essere bello come un bonobo, ma tutto sommato non sei male. Hai però delle strane idee su cosa è bene per te stesso, permettimi come amico di consigliarti”.

“Dimmi ti ascolto” dissi a bassa voce sdraiandomi vicino a lui e facendomi scaldare dal suo pelo caldo.

“Voi uomini siete sulla strada della infelicità, siete troppi, e il numero porta avidità. Vi siete complicati la vita, negandovi le cose basilari dell’esistenza: amicizia e amore, ma queste due piante sacre per crescere devono stare lontano dal profitto.
Vivete forse qualche anno in più, ma sono anni disperati, pieni di tensioni inutili, avete bisogno di curarvi con complessi strumenti e medicine chimiche perché non siete felici, se foste felici non vi ammalereste così spesso; se copulaste di più e accumulaste di meno già sarebbe un inizio, ma poi siete gelosi, volete possedere, volete conservare. Vi dannate contendendovi le cose invece di gioire nel condividerle.
Non si può solo inspirare per vivere, bisogna anche restituire l’aria. Guarda…”

E così dicendo indicò le cime degli alberi che ondeggiavano sopra di noi imbiancate dalla luna.
“Senti il respiro del Mondo?”
“No”, dissi profondamente triste, “I miei pensieri corrono troppo, non sono qui che in minima parte, sogno la mia casa, la mia vita prima di qui, sogno un caffè e una sigaretta. Ho perso la semplicità per sempre”.
Mi accarezzò la testa con le sue mani rugose, era triste per me, così emise un grido verso il cielo: “uuhuuhuuaahaaha” e con esso si liberò della sofferenza.
“Vuoi tornare alla tua vita?” chiese con malinconia.
“Si, amico mio”, risposi con un filo di voce.
“Bene, domani ti accompagnerò alla cosiddetta civiltà, sarà un viaggio lungo e faticoso, poi tornerò da solo alla foresta. Sappi che ci mancherai.”
“Anche voi…tanto”, e mi addormentai.

Partimmo all’alba, camminando fra arbusti intricati, valli dimenticate, mi ricordo che attraversammo una cascata, mentre lo portavo sulle mie spalle (anche se i bonobo amano l’acqua non sanno nuotare) rideva come un cucciolo.
Molti giorni trascorsero, giorni di fatica. Per tutto questo viaggio non parlammo mai, come se si volesse entrambi evitare di rompere quella flebile decisone di fare quello che stavamo facendo.
Alla fine in un meriggio dal caldo torrido si fermò.
“Sei giunto, Visir, oltre quelle cime di baobab troverai il primo villaggio degli uomini”.
“Grazie” dissi esausto dal viaggio.
“Non ringraziarmi, non sto facendo il tuo bene, ma lo dovrai capire da solo”.
Ci salutammo come fratelli, con piccole pacche sui testicoli come si usava tra noi scimmie.

Poi mi si avvicinò all’orecchio e disse piano una frase.
Scossi la testa emozionato e cominciai a camminare nell’erba alta, non mi voltai più indietro.
Quello fu il nostro addio.

Vivo in questo mondo ormai da molti anni come una scimmia nuda.
A volte, col buio, quando nessuno mi vede salgo su un ramo alto di un albero e grido alla notte: “uuhuuhuuaahaaha”, come ho visto fare al mio amico, capita anche che questo mi aiuti.

Poi, nel mio letto la sera ripenso a loro, a De Marinis, alle chiacchiere sulla Mangrovia, a tutti gli amici veri ed affettuosi del mio branco, alla loro vita semplice, a volte breve, ma immensamente felice.

Sempre riecheggia inaspettata la sua ultima frase, è un monito alla mia vita.
Nei miei momenti di quiete mi pare di sentirlo, anche ora, che mi dice: “Ricorda…Non credere al domani”.

8 commenti:

Jean du Yacht ha detto...

"Ricorda... non credere al domani".
Brividi mentre leggevo la frase.
Brividi per qualche istante.
Ci sto ancora pensando.
+ tardi qualcosa.
Forse.

Haemo Royd ha detto...

Il commento mi riservo di farlo domani

Visir ha detto...

De Marinis direbbe: "Siete simpatici per non essere delle scimmie".

Poi felice correrebbe a rotolarsi con le sue dodici splendide amanti pelose.

Ah! Se rinasco voglio essere un Bonobo.

Octuagenario ha detto...

Un bonobo magari sarebbe auspicabile, ma Bobo no!

Haemo Royd ha detto...

Se rinasco voglio essere un bacillo di Doderline (batterio saprofita che vive in vagina ed è responsabile dell'acidità di questa a protezione dalle infezioni micotiche)

Jean du Yacht ha detto...

Non andate fuori tema.
Per non credere al domani, bisogna dimenticare ieri.
Saluti e baci(lli).

Octuagenario ha detto...

Pensa se rinasci villo intestinale...

Octuagenario ha detto...

Terza richiesta di delucidazione: ma se nella tribù dei Bonobo vige la piena libertà sessuale, si accoppiano anche le scimmie cesso? Se sì, si tratterebbe di pubblico assistenzialismo o carità cristiana?