lunedì 10 settembre 2012

Citarsi adosso


“In un qualche angolo remoto dell'universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c'era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire.”

Così scriveva F. Nietzsche, in "Verità e menzogna in senso extramorale".
Una mirabile sintesi, un fulgido ritratto della storia dell’umanità, che cito, come del resto faccio continuamente; Infatti, tutto quello che scrivo, dico e penso non mi appartiene. Dico che non mi appartiene non perché non lo abbia ma semplicemente perché non ho autonomamente deciso di averlo; un concetto che cercherò di spiegare meglio.

Sono nato nudo, incosciente e ignorando ogni cosa.
Al momento della mia comparsa in questa dimensione umana non sapevo se ero un maschio o una femmina, non conoscevo se ero bello o brutto, non immaginavo nulla a riguardo delle persone che cominciavo a vedere per la prima volta.
Tutto era mistero e stupore senza però l’ansia della paura e dell’aspettativa.
Eppure pensavo, provavo sensazioni, emozioni che, però non sapevo definire, ma comunque vivevo pienamente.
Il mio pensiero era così non-verbale, libero e lucidissimo. Non avevo un passato in cui indugiare né un futuro da prevedere, il concetto stesso di tempo non esisteva in me.
Non ero certo come adesso, offuscato da quel continuo soliloquio interiore che accompagna ogni riflessione e precede ogni comunicazione.
All'ora il prodotto della mia mente era adamantino e lucido, perché non mitigato dall’esperienza né contenuto in quello strumento inadeguato che è la parola.

Tutti noi appena cominciamo a vivere una esistenza autonoma creiamo una frattura con la realtà che si palesa man mano formando un'identità sempre più strutturata e con un dialogo interiore inarrestabile e incessante con noi stessi. 
Una conversazione schizofrenica fatta come un sogno che continua anche durante la veglia. 
Lo stesso concetto di autonomia necessita per essere sostenuto dall’idea di separazione, cioè di quella contrapposizione tra ego e mondo che è una costante che accompagna la nostra vita, anzi che è in definitiva la nostra vita.

Sulla presunta soggettività cui diamo il valore di "me stesso" vale la pena farsi qualche domanda.
Snoam Chomskyi famoso linguista, sostiene che se uno scienziato marziano senza preconcetti analizzasse tutti i linguaggi del nostro mondo ne concluderebbe che a dispetto degli idiomi diversi tutti parliamo la stessa lingua.
Vi è una matrice unica e comune, una "grammatica universale" da dove sorge la comunicazione. 
Un’espressività che non è dovuta all’ambiente poiché molto più articolata rispetto agli stimoli dell'apprendimento, ma è biologica e si potrebbe aggiungere con la dovuta cautela che il termine richiede, innata nella nostra natura. 
Il linguaggio cresce in noi come i capelli e le unghie.

Si azzarda anche un’altra ipotesi, sulla base di questo modello e cioè che non solo parliamo tutti la stessa lingua e non ne potremmo parlarne una diversa (nella sostanza e nella costruzione grammaticale), ma addirittura confrontandoci agli altri esseri biologici di questo pianeta: siamo tutti lo stesso animale.
La base chimica è il carbonio, quella genetica è anch'essa comune. Ci differenzia l’attivazione di alcuni geni rispetto ad altri. 
La matrice che ci plasma appare così incorruttibile ed esclusiva,  uno stampo dove nulla pare lasciato al caso e al libero arbitrio.

Cambiando prospettiva e rivolgendo più modestamente l'osservazione a me stesso, ecco che mi rendo conto che nello scorrere del tempo ho accumulato molti enti nella mia memoria, ma secondo questa teoria non potevo fare diversamente che trovare ciò che avevo già.
Infatti ho rinchiuso il mio pensiero e l’idea che ho di me stesso nella gabbia delle definizioni che ho adottato per forza di cose per andare avanti in una società umana.
Ho posto i miei sentimenti nelle strette pastoie della morale per adattarmi al mondo in cui vivo e per non essere un alienato.
Questa impalcatura psichica è stata costruita grazie a tanti strumenti che ho preso in prestito via, via lungo la strada; Li ho quindi usati per utilità, o perché, come detto, non potevo fare diversamente.
Questi attrezzi come ad esempio la conoscenza di elementi condivisi, il linguaggio, alcune abilità ecc. ecc. sono propri della  natura umana e funzionali alle esigenze contingenti, agli usi e ai costumi che questa stessa natura non poteva fare a meno di creare in una società di uomini.
In alcuni casi queste nozioni si sono appiccicate a quel “me stesso” apparentemente in modo casuale.
Nozioni che in sostanza, lo ribadisco, sono dei preconcetti e delle convenzioni come tutte le strutture mentali che condividiamo a cui dovremmo però, dare solo un presunto valore di realtà.
Cognizioni dicevo, che si attaccano a volte come i fogli di giornale buttati via e spinti dal vento; fogli che si attorcigliano alle gambe e non si vogliano più staccare, anzi a volte sono talmente stretti a noi che diventano la nostra stessa pelle.

Sono in definitiva una citazione vivente che elabora e rimpasta gli elementi tirati su lungo il cammino e che presento come miei, ma in realtà non è così.
Tra gli strumenti più importanti che adottiamo  vi è il linguaggio; Esso è in definitiva un contenitore di idee che altrimenti non potrebbero essere trasmesse, quando però, questo sistema ingegnoso e variegato tenta di definire la realtà in maniera esatta paradossalmente se ne allontana. 
Se si vuole spiegare la vita interiore di ognuno e la propria verità soggettiva questo mezzo di comunicazione diviene muto.
Forse, perché la realtà non può essere conosciuta direttamente, almeno quando si utilizzano per coglierla i filtri e le lenti distorcenti che tutti usiamo per vivere, comunicare e guardare il mondo.
Fra le nostre tante esigenze abbiamo bisogno costantemente di esprimerci, di comunicare chimicamente, corporalmente, emotivamente con il mondo circostante. 
Senza interazione con l'esterno, senza ricevere nutrimento dalle sensazioni, moriremmo all’istante.
Talvolta questo strano essere chiamato uomo sente il desiderio di indagare oltre le apparenze illusorie e, chissà poi perché, di scoprire (nientemeno) la realtà ultima, di conoscerla addirittura da se e attraverso se, ma non è facile. Forse è un concetto che va oltre le nostre capacità cognitive.
Quindi, sarebbe opportuno prima di tutto capire cos’è quel “sé” che vorrebbe conoscere la realtà.
Inoltre, la natura cioè la vita, tanto per confrontarsi con l’immensa forza che ci circonda, ci plasma e ci costituisce non parla, ma fa.
A Lei (la Realtà) non interessa essere capita, perché nella sua meravigliosa armonia è conchiusa in se. Basta a se stessa. E' energia pura che obbedisce solo a se medesima.
E’ l’uomo, e solo l’uomo, semmai che deve, per necessità o per ambizione, avanzare lungo questo sentiero incerto su cui vorrebbe incontrarla, toccarla e magari possederla.
Un’impresa che sembra irrealizzabile con i comuni strumenti, poiché ogni idea che abbiamo del mondo è generata dai fallaci sensi e risulta in definitiva una metafora per non dire una menzogna.

Come dare torto a Vladimir Nabokov quando scrive: "Ogni informazione che ho su me stesso viene da documenti falsificati."

Se volessimo indagare poi sulle credenze relative a quella “coscienza” che probabilmente non abbiamo ma che presumiamo con tanta sicumera di avere, sarebbe come cercare di afferrare un miraggio.
Perché è proprio questa presunzione che ci impedisce di cercare quel “qual cosa” che, se mai esite, ci è venduto come una nostra proprietà inalienabile.
Chi si prenderebbe la briga di cercare una cosa che pensa già di possedere? Nessuno, appunto.
E in questo presuntuoso azzardo si può intuire l’errore che determina tutti gli altri.

Costruiamo le relazioni personali e la nostra stessa vita “grazie” alle convenzioni condivise, ma dovremmo invece dire, purtroppo.
Questi non sono che utensili che utilizziamo e che talvolta sono funzionali alla nostra esistenza o meglio sopravvivenza ma, di fatto, si frappongono al reale come mura invisibili di una prigione.
Più accumuliamo dati, convenzioni, nozioni, teorie, modelli e più la cella si stringe finché un giorno soffochiamo nella follia.
Il motore di questo gran d’affare è naturalmente l’intelletto che ci è stato dato dalla Natura probabilmente non perché siamo i migliori ma forse solo perché siamo i più fragili fra gli animali che abitano questo sasso perso nel cosmo.
Questo intelletto tuttavia per esistere necessita di un’identità.

E’ dunque le presuntuose convinzioni che accompagnano questo senso di essere ci spingono addirittura a credere in un’anima eterna, il cui destino è importantissimo e caro ad un Dio che dovrebbe governare non solo questo mondo, ma l’universo intero e che si occupa personalmente, si pensi un po’, fra le molte cose, della nostra vita.
Questa favola se fosse raccontata a un bimbo innocente, forse stenterebbe a crederla, eppure miliardi di esseri adulti su questo pianeta non ne fanno mai oggetto di un’indagine seria.
Forse questa sensazione di identità è così solo uno scherzo del nostro cervello. Un artifizio del nostro sitema nervoso esteso utile per l’autoconservazione.

Secondo il buddismo zen per esempio l’anima non esiste, non esiste un pensatore dietro al pensiero; Vi è solo il pensiero.
Siamo dunque un orologio senza un orologiaio?
"Tic-tac", potrei rispondere se fossi saggio.

In ogni caso, l’uomo comune e anche molte rispettatissime autorità negano questa ovvia constatazione avanzando ipotesi fantasiose e assai complicate per dribblare una situazione semplice ma che non consola, e soprattutto non gonfia come una mongolfiera la nostra esistenza ingigantendo quel minuscolo granello di polvere che siamo ad astro del firmamento.
Il senso di questa drastica riduzione di tante superstizioni?
Tralasciando l'amore per la verità che non alberga mai stabilmente nel cuore dell'essere umano, penso che avendo meno speranze, magari avremmo anche meno dolori perché la speranza (che ci consola del nostro presente) nutre in definitiva la maggior parte delle sofferenze future e ci rende pigri nell'attivarci fattivamente per cambiare il nostro attuale. Perseverando così nella infantile convinzione che "Il domani sarà meglio di oggi" anche senza far nulla per determinarlo.
Dunque, la vita potrebbe essere con maggiore semplicità solo un’anomalia nel panorama dell’universo, breve effimera, certamente temporanea e senza altra ragione che la propria esistenza.

Queste considerazioni cambierebbero qualche cosa nelle nostre vite?
Forse risparmieremmo tempo la domenica mattina disertando le Chiese, si eviterebbero molte guerre di religione, il mantenimento dei preti che si infervorano e ci invitano a pregare questo fantomatico essere celeste che si pensa ascolti tutti, ma in definitiva non parla mai a nessuno. Se non dice nulla forse non esiste. Una spiegazione semplice che non è considerata dalle religioni le quali chiedono un atto di fede, al quale rispondo con la medesima domanda che rivolgeva il Cavaliere alla Morte ne -Il Settimo Sigillo-
“Perché dovrei aver fede nella fede degli altri?”.
Tutti prima o poi cerchiamo Dio e tutti prima o poi troviamo la morte che è  fra tante cose mondane una delle poche cose serie; tra le tante menzogne del mondo è forse l'unica che non mente mai a nessuno...
Dunque l’unica speranza accettabile mi pare essere il dubbio.
Ed è proprio nel film citato che è indicato in forma allegorica una spiegazione al tema cardine della speranza, quando cioè la Morte risponde alle molte domande che tormentano l’uomo con un conclusivo:: “Forse, Dio non esiste” e in quel “forse” si apre lo spiraglio cui possiamo rivolgere il nostro sguardo abituato ormai alle tenebre dell’ignoranza.

"Questa vita ci sembra insopportabile, un’altra irraggiungibile. Non ci si vergogna più di voler morire. Si prega di venir trasferiti dalla vecchia cella che odiamo in una nuova che dobbiamo ancora imparare ad odiare. C’entra anche un briciolo di fede che, durante il trasferimento, il Signore passi per caso nel corridoio, guardi in faccia il prigioniero e dica: -Costui non rinchiudetelo più, ora viene con me-”
Questa citazione di Franz Kafka così ben esemplificava il baratro in cui la vita talvolta "pare" volerci gettare e la speranza che "pare" voglia invece sostenerci. In definitiva però rimaniamo in bilico sul bordo di questo orrido.

Alla luce di questo si ha solo una piccola, eppure grandissima opportunità, non un diritto senza merito come ci vendono gli illusionisti religiosi di professione ma una possibilità da realizzare, nulla di più.
Le persone prenderebbero forse più seriamente il poco tempo a disposizione se avessero ben chiare queste semplici considerazioni?
Può darsi, certo si eviterebbero i danni connessi al desiderio famelico e all’accumulo di una ricchezza smodata e insensata che il più delle volte fa danni al prossimo in una sorta di convinzione di immortalità o una assurda edificazione di una qualche eredità da lasciare ai “discendenti” o ai posteri in un desiderio di eternità che appare ridicolo e puerile.
Forse non eliminerebbe l’avidità, ma se non altro gli metterebbe un freno.

In fondo siamo tutti figli unici e orfani su questo pianeta e questa semplice constatazione ci spinge o ci dovrebbe spingere a divenire una famiglia, fratelli l'uno per l'altro, padre per chi ha bisogno e madre per chi è disperato. Non abbiamo certo bisogno della morale e della religione per giungere ad una conclusione evidente, alla naturale constatazione che si vive meglio in armonia piuttosto che nel conflitto.
Una considerazione che trova spazio a malapena con le persone a noi più vicine per non dire vicinissime.
Mi domando però: "Quale merito c'è in un amore che ama solo se stesso e ama tanto spesso una proiezione di se come nei legami di sangue?
In fondo la monolitica educazione familiare mi pare limitante rispetto alla pluralità dei modi di vivere e di pensare. Potessimo essere figli di molte famiglie non sarebbe più bello? Non avremmo maggiori informazioni e punti di vista? Non è un modello irrealizzabile perchè è già presente in alcune etnie primitive ed è un sistema che forma esseri umani più equilibrati rispetto al modello monofamiliare dove i figli sono spesso considerati una risorsa su cui investire se non addirittura una sorta di proprietà.
I rapporti di parentela dunque, semmai attecchisse una diversa visione delle cose, perderebbero quella aura di sacralità che ora esigono anche quando non lo meritano per indirizzarsi alle sole persone che invece dovrebbero godere tale dono, cioè quelle con cui stiamo veramente bene e, a ben vedere, sono le uniche con cui dovremmo trascorrere il tempo di questa curiosa esperienza che chiamiamo vita.
Quante ipocrisie cadrebbero insieme alle tante assurdità a sostegno del nulla.
Tante, ma penso che la maggior parte dei miei irriconoscibili simili, preferisce di gran lunga un pugno di false certezze ad un vagone di possibilità incerte.



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