giovedì 19 aprile 2018

Medusalemme




Oggi, sul far del giorno, ancora nel dormiveglia, mi è tornato in mente un libro che mi fu regalato diciassette anni fa da una donna, me lo diede poco prima di morire.
Lo conservo nella libreria in sala, un po' in disparte rispetto agli altri volumi; Nella prima pagina c'è una dedica in cui quella ragazza mi confidava il suo amore, la chiamo ragazza nonostante all'ora avesse quasi 90 anni; D'altronde i sentimenti non conoscono il Tempo, e questo insegnamento fu il suo vero regalo, perché compresi che un cuore resta giovane solo finché sa donare.

Riflettevo così su questo libro ricevuto, scritto da Sandor Marai, il titolo è: "Le braci".
Un'opera molto interessante non solo per lo svolgersi quasi immobile del racconto, ma per i suoi contenuti nascosti, sotto "le braci" direi.
E' in concreto un monologo, dove due uomini, dopo trent'anni si rincontrano. Mentre un personaggio non si è mai mosso da casa e monopolizza la storia, l'altro ha viaggiato per quasi tutto il mondo ma non proferisce parola se non una frase alla fine del racconto.
Tutto si svolge (ma non si risolve) in un'unica notte di confronto tra i due che una volta furono amici.
Su entrambi grava un'ombra, un orribile sospetto che attanaglia però solo l'uomo che nel libro è protagonista ma è anche una voce narrante nel medesimo tempo, e questo dona alle sue parole un più profondo significato.

Il libro è in sostanza un turbinio di domande, ragionamenti, tesi e confutazioni detti a voce alta oppure pensati da questo interprete del tormento.
C'è la grande abilità narrativa dello scrittore che sostiene la storia, mantenendo una tensione parossistica senza mai annoiare. Estende questa "attesa" fino allo spasmo, così la sospensione di un chiarimento cresce, cresce e cresce ancora per liberarsi infine come un elastico a lungo trattenuto, ma solo nelle ultime dieci pagine; Una tecnica che rasenta il virtuosismo e incanta. 
E' un peccato che un tale scrittore si sia tirato un colpo di pistola in testa, nondimeno non mi stupisce.

Ecco che sotto la coperta un po' troppo calda per la bella stagione incombente, ho compreso stamane come il libro sia in realtà una metafora della vita.
Nel monologo immaginato dall'autore così carico di pathos, si sommano tutte le domande senza risposta dell'esistenza.

Ho realizzato, intanto che sonnecchiavo lucidamente che ragionare, elaborare, fantasticare, perfino i pentimenti, e la filosofia con cui ci s’interroga sul divenire, sono in realtà: senza responso.
Domande oltremodo inutili, perché un’eventuale replica ha senso solo se riferita a un soggetto che chiede e domanda. 
Guardando in prospettiva la vita come non domandarsi l'assurdità di tale compito, perché oltre la porta che si trova in fondo a questo breve corridoio d'anni non c'è posto per nessun soggetto. 
Chi l'attraverserà? Nessuna mente potrà oltrepassare "il dopo". Quale ego sopravvivrà senza un corpo? Chi mai potrà fruire di qualche soluzione o di un'eventuale spiegazione?
Se mai ci fosse...

Sebbene questa esondazione di quesiti mi sommerga, il vivere pare essere solo un continuo avvicendarsi di contingenze e di necessità. Esse dominano per poco l'attenzione, comparendo e occupando la vita per poi scomparire come se non ci fossero mai state...Come quando si è sazi, e sembra che la fame non sia mai esistita.

Inoltre mi domando a proposito di queste domande inutili (contraddittoriamente, mi verrebbe da aggiungere), perché si affollano e si spingono per farsi avanti se non c'è nulla da vedere? 
Al di là dei personali (e opinabili) interessi non c'è nulla di veramente importante, senza voler parlare dell' Aldilà dove nessuno ha certezza che esiste e parimenti idea di cosa abbia importanza e merito. 
Lo scopo della vita è finire, è troppo duro ammetterlo? 

Ad ogni modo è un'alternanza di opposti l'esistenza. 
Non ci sono stelle fisse, quale rotta allora si può mai tracciare?
La vita senza sofismi è un avvicendarsi di condizioni che si manifestano e poi scompaiono, si mascherano e si mischiano per poi di nuovo disgregarsi.
Simile a una danza di meduse che vidi durante un'immersione nel mar di Banda, al largo dell'Isola di Sulawesi, incontrai un banco enorme di queste meravigliose creature che si avvinghiavano una all'altra così che parevano divenire un solo essere planctonico e poi, improvvisamente si separavano di nuovo, salivano verso la superficie e sparivano confondendosi con la luce che le attraversava. 
La medusa è come la mia continua riflessione, perché essa cresce e giunta a un completo sviluppo, regredisce; Continuando la sua esistenza quasi eterna percorrendo il medesimo cerchio vitale, forse non solo senza fine,  ma senza un fine, mi verrebbe da puntualizzare con il mio proverbiale ottimismo. 
Di fatto la mia abilità di scrivere si totalizza a somma zero, il senso di vuoto e di stranimento nel mio occasionale lettore è voluto, lo rivelo solo ora. 
Esemplifico, racconto, ma non si ricava niente, perché addito sempre un miraggio. 
Non vi è oggetto nel mio dire, non c'è alcuna risposta anche se a volte pare di averla sulla punta delle dita e poi...Scivola via come acqua se si stringe il pungo per catturarla. 

Come gli eventi nella dimensione umana e perfino in quella oggettiva, essi si manifestano e fanno continuamente ritorno nell'indifferenziato da dove provegono e riprendono un nuovo ciclo.
Ogni cosa perviene al condizionato, dall'incondizionato. 
E' il  mistero che tutto avvolge. 
Ogni accadimento si manifesta in modo palese, ma senza un vero centro e poi scompare alla vista e ai sensi. 
E' mai esistito? Chi può dirlo?

E' una sorta di occulta manifestazione, un qualcosa che comunque resta incomprensibile, perché non sostanziale…

Insomma riflettevo su questo, poi naturalmente non ho più dormito, va che pirla che sono.


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