Scrivere è più facile che parlare. Almeno per me.
Ho più tempo per riflettere e sistemare le cose che mi
passano per la testa.
E’ come mettere in ordine una dispensa, poi sarà più semplice
cucinare un buon piatto avendo tutto a portata di mano.
Cos'è dunque la scrittura? E’ musica.
Fatta però con le parole come note musicali, i
periodi sono in realtà accordi, le battute del dialogo che frammezzano la narrazione
sono il canto, talvolta con una piccola dissonanza, mentre la melodia in
sottofondo è la sceneggiatura.
L’esposizione è dunque una canzone; Qualche
volta esce una sinfonia, altre volte un motivetto leggero-leggero di quelli che
si fischiettato sul cesso.
La musica suscita emozioni attraverso i suoni e questi poi sensazioni e
immagini; Similmente è per la narrazione dove, però le immagini sono lo strumento
principale, passando dal cervello arrivano a toccare il cuore. Senza emozioni le immagini si stingono.
I fatti per diventare ricordi devono immergersi nella tintura delle emozioni e dei sentimenti. Altrimenti i momenti della vita passano e divengono come i vice-presidenti americani, nessuno si ricorda più che fine hanno fatto.
La vera difficoltà non è lo scrivere in sé, cui basta prestare
attenzione al ritmo, alle figurazioni che si suscitano e non fare grossi errori di sintassi.
Il vero scoglio è invece avere qualche cosa da dire.
Nel saper incidere sulla pelle
del lettore la copia del nostro disegno pensato, ma un disegno originale.
A volte ho dentro come un
demone narrante, fa tutto lui e mi sento uno strumento di qualcosa d'altro, ed è il momento che esce qualche cosa di buono.
E' ovvio come la morte che il nemico di ogni autore è la noia: la noia del lettore.
E' molto difficile essere originali, ma almeno bisognerebbe sforzarsi di essere divertenti e interessanti. Una canzone
con una nota sola non può che sfinire, un motivo già sentito ti fa guardare da
un’altra parte.
Il senso che guida la lettura, ma anche la vita è la
curiosità. La ricerca dello stupore però non deve diventare
il padrone della storia.
La curiosità è un muscolo non un osso. Muove non sostiene.
Lo scheletro di un’opera è il senso profondo della vita che
esprime. Profondo, inteso come vero; Non nel senso di colto, pomposo,
accademico.
Avere qualche cosa di originale da esprimere, di effettivo e
sentito da buttar fuori, ecco cosa serve, lo ribadisco.
Certamente è stato scritto già tutto, spesso male, a volte
bene, raramente benissimo, ma nello stesso tempo ogni volta che un uomo esprime
se stesso con autenticità grazie alla parola scritta, rianima questa entità eterna che è memoria dell’uomo,
della sua umanità, delle vicende che lo vedono protagonista e spesso reo di
molte azioni discutibili.
In alcuni casi è una costruzione asimmetrica d’incastri,
fatta di personaggi, immagini, situazioni da impilare una sull’altra.
Non
necessariamente deve essere dritta, basta che stia in piedi.
Si potrebbe dire che, semplificando, è una trappola ben
congeniata per l’attenzione e nei casi migliori: per la riflessione.
Al momento opportuno, zacchete! Scatta una tagliola, un
trabocchetto che fa sentire una vertigine, che inumidisce una guancia, che
disegna un sorriso che instilla il silenzio nel lettore lasciandolo più ricco
di non si sa bene che cosa.
Per preparare questa esca ci vuole solo un po’ di mestiere e
un po’ di talento.
A chi crede che bisogna avere ben presente un interlocutore
in questa comunicazione mi permetto di disilluderlo.
Si scrive per se stessi, perché si parla a se stessi e si
vive in se stessi, sempre e comunque. In particolare quando ci si rivolge a
qualcuno.
Proprio ieri mentre prendevo il sole in piscina la mia vicina parlava in continuazione, parlava da sola.
Una conversazione a volte arrabbiata, a volte allegra.
La maggioranza l'avrebbe giudicata affetta da una malattia mentale. Una patologia che invece sono convinto abbiamo tutti, ma asintomatica.
Stava parlando secondo la mia personale diagnosi con la persona più interessante che non conosceva: se stessa.
In quella donna il soliloquio interiore che ci accompagna per tutta l'esistenza era solo più manifesto, forse più sincero.
La sua "oratio concepta" si era fusa con la "oratio prolata".
Vale la pena riflettere che quando si da voce ai pensieri in realtà li si mistifica nell'adattare il proprio dire alla situazione, alle persone presenti, all'oppurtunità.
La scritttura rende questo meccanismo automatico ancora più forte, in virtù del fatto che quello che è scritto resta.
Offre però, una maschera al suo autore che permette al suo volto di esprimersi liberamente; Grazie alla manifestazione del suo modo di vedere il mondo, piuttosto che nel senso compiuto di quanto è scritto.
Quindi, la menzogna dice comunque la verità.
Chi scrive è un malato, a differenza di chi non lo fa che è molto più
saggio e vive forse più comodo, .
Almeno nell'accezione più estesa di malattia.
La sua energia vitale, la sua sensibilità, l’intelligenza e
infine la sua attenzione non sono dirette come nella maggioranza degli esseri
umani, verso l’esterno, il mondo, la realtà palese.
Questo poligrafo è un paziente solo apparentemente sano, infatti egli non si occupa volentieri
di aggiustare la falciatrice, dei propri affari, di lavorare,
di correr dietro all'altro sesso, di fare carriera.
Gli piace guardare il panorama, mentre passeggia in se
stesso e così implode, generando una storia, a volte una poesia.
Perché?
Non c’è una buona risposta a una domanda simile.
Almeno io non l’ho trovata. Forse è uno sfogo, magari un modo di andare oltre l'ovvietà della vita. Si gioca a fare Dio, creando paesaggi e personaggi e facendogli vivere una storia.
Ho notato che quando vivo molto intensamente (?) o per
meglio dire sono molto occupato e coinvolto nel mondo materiale non ho necessità di
scrivere.
L’identificazione con il tangibile mi allontana dal mistero chiuso in
ogni essere vivente, perfino quello dentro di me.
Giusto ora mi rendo conto che scrivo quasi sempre, cazzo!
La benzina con cui alimento il motore diesel(!) dei racconti è
la disillusione. La sofferenza, la rabbia e l’ironia con cui curo la solitudine,
ma non quella fisica di aver gente attorno, quella determinata dall'incomunicabilità assordante
con cui vivo la mia vita di relazione.
La disperata constatazione che una profonda
comunione con l’altro è impossibile. Certamente lo è con le parole.
Allora perché comunicare?
Credo che nei migliori dei casi sia un modo di suggerire, di mettere un seme nell'altro, di aprire una porta che non necessariamente deve essere attraversata.
Un'occasione di autoanalisi tramite un prodotto artistico. Un modo di specchiarsi in una pagina scritta.
Chi vive senza
una forma d’arte qualsiasi nella propria esistenza è più fortunato dei poveri cristi che si danno una gran pena per cercare tramite l'arte, la bellezza.
Perché la bellezza è l'ultima e l'unica destinazione dell'anima. La bellezza convince tutti, persuade senza bisogno di avvocati.
I miei simili però, non cercano la bellezza ma la soddisfazione e a quanto vedo non hanno grosse inquietudini, tormenti.
Almeno non hanno quelli che ho io.
Forse non colgono per loro ulteriore fortuna, l’agghiacciante panorama
del vivere nel suo scenario complessivo su cui il mio sguardo invece cade, anzì inciampa.
La sofferenza in loro è determinata il più delle volte da un
problema fisico, materiale; Cose come i soldi, l'influenza di stagione, la promozione in ufficio che non arriva, la suocera che invece arriva ospite per un mese in casa.
A volte sono torturati da un dolore psicologico, cioè dalla frustrazione nel non poter raggiungere
quello che vogliono oppure nel perdere quello che credono di possedere.
In loro, la nevrosi non è generata dal confronto con una società fatta di regole arbitrarie, ma dal non passare quel traguardo che quella medesima società gli indica come auspicabile e fonte di felicità.
La connotazione che li rende uguali, ma non migliori è l'acriticità con cui guardano il mondo.
E' paradossale che una società iniqua che produce sofferenza e disagio in tutti, perfino nei ricchi, prometta la felicità ai suoi sostenitori più convinti. Come si può dare ciò che non si possiede?
Il quadro
dell'ordinarietà è così sempre disegnato a tinte forti, ma resta banale, senza offesa per nessuno.
Personalmente sono andato oltre, ma non certamente più avanti. Pratico solamente altri giochi.
Fino a quando? Credo, finché esaurirò la scorta di rompicapo
che questa esistenza mi mette a disposizione. Poi andrò a ramengo come tutti.
Mi distraggo, e a ben vedere ci
distraiamo tutti, nell'attesa dell’ultimo rebus che non possiamo risolvere.
Il Test Kobayashi dell’Esistenza per chi sa di che parlo.
Un’immagine vale mille parole.
Prendo a prestito un ricordo
che coloro con una mano di pittura per esemplificare il mio pensiero.
Da bambino quando andavo al Luna Park c’era la giostra. Tutti i bimbi cercavano di prendere la “codina” per fare poi un altro giro
gratis.
Invece di cercare di prendere il premio, quando ci salivo
sopra, guardavo la giostra, i bambini, il giostraio, gli spettatori, il sole,
la nuvoletta in fondo a destra.
Mi divertivo
con il gioco, ma anche con l’immagine generale; Ero fuori da quel contesto,
osservandolo; Anzi direi che era il contrario: Perché ero ancora di più in quella circostanza.
Solamente vi entravo con altre prospettive.
Una volta ho anche preso al volo la “codina” ma solo perché
mi sventolava davanti e ho fatto come il gatto quando acchiappa il passerotto. Non mi ha dato un’ebrezza particolare.
Mentre eseguivo queste piroette della coscienza in groppa ad un cavallino di plastica, mi domandavo il senso di quel daffare.
L’effimera
soddisfazione di un altro giro di giostra, quando poi si conosceva già
l’esperienza.
Qual era il senso di ripetere lo stesso gioco continuamente?
In quel caso, un divertimento
circolare che dava l’impressione di andare chissà dove, ma che in realtà ci faceva
restare sempre nello stesso posto.
Una metafora della vita? Forse, ma solo per chi se
ne accorge.
Ovviamente ero un bambino disturbato, però "E’ così bravo a scuola" diceva la maestra.
In ogni caso non se ne accorse
nessuno allora e neppure se ne accorgono adesso.
Da piccoletto, trascorsi così un periodo come assiduo frequentatore di giostre.
Ci andavo da solo o in compagnia di qualche amico per provare ogni attrezzatura.
Da bambino godevo di una
certa liberà. I miei genitori erano convinti sostenitori dei vantaggi di un’educazione
siberiana: arrangiati e sopravvivi.
Non mancavano mai però, di volermi bene, anche quando tornavano a casa stanchi dopo il lavoro.
Qualche volta mi punivano per una marachella, ma con amore, senza esagerare.
Tornando alla mia esplorazione tra i giostrai, devo confessare che il momento topico della mia peregrinazione fu banalmente: il Tunnel
del Terrore.
Inutile aggiungere che non
mi spaventò per nulla.
Il vero orrore lo avevo già colto, ma fuori da questo
spettacolo allestito alla belle e meglio. Durante la visita mi accadde però un fatto stranissimo.
All'interno del tunnel, oltre ai soliti pupazzi, scheletri, streghe
c’era un fantasma. Un fantasma vero.
Nel senso che era un operaio delle giostre
con un lenzuolo sulla testa.
Il “clou” di questo spettacolino si compiva grazie a questo
figurante che sbucava fuori da un angolo buio, e spaventava a morte il visitatore di
turno.
Quando toccò a me invece restai impassibile come un bonzo
vietnamita che si da fuoco.
Il poveruomo rimase credo deluso, perché mi seguì come
un segugio e non contento mi fu addosso.
Fu un "faccia a faccia" o meglio, un musetto di
bambino contro un lenzuolo bianco del Ku Klus Klan.
Dal carrellino su cui ero appollaiato, in risposta alla sua
invasione terrorizzante, gli piantai un cazzotto.
Una botta talmente forte che cadde indietro e sparì.
Un colpo a mano aperta, tipo karate che mi uscì d’istinto, manco
avessi preso la cintura nera il giorno prima.
Lo beccai probabilmente alla radice del setto
nasale. Quindi fuggii rapido come un ninja, saltando giù dal mio girello
e senza completare il tour, per evitare complicazioni.
M’informai dopo qualche giorno, grazie ad un amico mandato in avanscoperta della situazione.
Il tizio non lavorava più nel Tunnel del Terrore, al suo posto c’era una sorta
di trespolo con sopra il lenzuolo di scena.
Avevo così stroncato una brillante
carriera di una comparsa horror.
Non mi sentivo in colpa, secondo la mia etica -se l’era
cercata-.
A nove anni devo dire che avevo già una bella “castagna” che mi è tornata utile in diverse occasioni.
Disprezzavo le prepotenze sui deboli che non ho mai perpetrato, ma non perdevo occasione
per menare le mani con chi cercava di mettermi sotto. Avevo capito quasi subito,
nella mia visita su questo pianeta che c’è sempre qualche -pezzo di
merda- travestito da essere umano che ti vuole mettere sotto.
Spesso i nani (intellettualmente e
spiritualmente) per alzarsi, cercano di montarti sulla testa e piegartela sotto il loro peso.
Quasi da subito ho cominciato a combattere per difendere la
mia dignità, ma con buon senso, altrimenti marcirei in
prigione come pluriomicida.
Tornando al mio discorso ambizioso sullo scrivere, si vede come con il piccolo aneddoto raccontato si possa viaggiare nel tempo e nello spazio senza alcuna fatica. Addirittura si possa viaggiare nella vita di un altro.
Anche il significato può cambiare, può
essere compreso letteralmente o metaforicamente perché la parola, in particolare la parola scritta ha
più dimensioni.
Si può leggere in superficie, prima, dopo, in stralcio e in profondità.
La bellezza della scrittura è nella sua multi-dimensionalità.
Ci sono anche diverse forme retoriche che sono strumenti meravigliosi per
incantarci in qualche storia e allargare magari i nostri orizzonti.
Come si usa dire: La mente è un
paracadute, se non l’apri non serve.
Ecco che mi appresto a dare consigli, cosa che odio, perché
inutile.
Consigli a me stesso.
Il
migliore che mi rivolgo è quello di non vedere il compimento dei miei sogni; Perché è l’attrito che genera il calore, l’energia si produce dalla decomposizione e dal decadimento
di uno stato. La metamorfosi che si traduce in azione e in effetto.
Quando tutto scorre liscio, senza fatica, è il segnale che si
va in discesa, che si sta scivolando verso il basso.
E' come in una conversazione.
Sull'ovvio e sul
banale siamo sempre tutti d’accordo.
Appena però si esce dai luoghi comuni e dalle categorie condivise
i problemi di comprensione saltano fuori come i funghi dopo la pioggia.
Mi auguro così l’insuccesso? Non saprei cosa rispondere.
Mi torna in mente un detto della montagna: "Se non hai freddo, hai portato troppi vestiti. Se non hai fame, hai portato troppo cibo. Se ce la fai e arrivi in vetta, forse vuol dire
che era troppo facile".
Non so, forse non serve vedere altre cose, ma scoprire cose diverse in ciò che tutti abbiamo davanti agli occhi.