lunedì 24 novembre 2014

The Road to Myanmar


Parte prima

Di solito faccio così. Lavoro sodo per due o tre anni, metto da parte un po’ di soldi, poi mollo tutto per un mese e vivo come capita in un posto diverso.
Questa volta la mia destinazione è la Birmania, o come si dice adesso la Repubblica di Myanmar.  Un viaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo, infatti si dice che è un paese arretrato.

Se voglio andare lontano devo così affrontare un lungo viaggio.
Personalmente più mi allontano dalle mie abitudini e dai posti che conosco più cose mi lascio indietro, ed è questo il senso del mio viaggio.
Stavolta parto anche da solo.
Generalmente preferisco la compagnia degli amici, pur odiando gli inevitabili compromessi nel viaggiare con altri, comprese quell’esigenze dovute al confronto con il carattere e le abitudini delle persone, perfino con le abitudini delle persone cui voglio bene; Mi adatto, e spesso non lo includo nella lista delle cose troppo sbagliate.
Amo dunque incondizionatamente l’umanità composta dalle persone a me prossime? Non proprio, forse è meglio dire che ne sono attratto fortemente, nonostante il mio sia un sentimento contraddittorio, diciamo che è un amore mal corrisposto.
Avevo, in un impeto condivisorio, proposto ad alcuni amici il mio itinerario ma avevano tutti dei buoni motivi per non sostenerlo.

E’ lontano, ci sono le malattie, la malaria, la febbre Denge, la gonorrea perniciosa, l’unghia incarnita asiatica e così via. E poi, non so cosa troverò, perderò i miei clienti se parto con te adesso.
Insomma, tutte quelle buone ragioni che ti fanno sentire quel formicolio nello stomaco e che chiamiamo prudenza, coscienza, quando in realtà è solo paura dell’ignoto.
In definitiva era un viaggio che volevo fare da solo, ma non lo ammettevo a me stesso, quindi non mi è dispiaciuto il loro cortese diniego.  
Credo che fosse mia intenzione, forse inconsciamente fare un tratto in solitaria  lungo quella strada iniziata molto tempo fa per vedere il mondo, e vedere me stesso in modo diverso facendo esperienza di quel mondo.

Parto dunque solo, senza nessuna garanzia, ho un itinerario ideale nella mia mente e nient’altro, a quale scopo questa sorta di mini avventura?
Vedere se ho ancora le palle per vivere arrangiandomi, se mi merito l’esistenza nella sua dimensione meno addomesticata e così magari incontrare la bellezza se la saprò cogliere. 
Non che sia un vero viaggio da esploratore, nulla d’impossibile o veramente pericoloso, ma già essere fuori dagli schemi, senza ausili di agenzie, guide o intermediari è un passo avanti verso un’emancipazione dallo scontato, almeno per me che da qualche anno mi ero ammansito un po’ troppo.
Ho solo il biglietto intercontinentale prenotato.
Poi, sarà tutto in mano alla mia capacità di sopravvivenza, alla fantasia, all’organizzazione personale e ovviamente a ciò che domina la vita: la fortuna. 
Libertà estrema? No, non è proprio così, ma almeno ci vado vicino, perché è nelle nuove esperienze che colgo l’espressione più bella del mio spirito.

La mia prima tappa è una sosta intermedia: Hong Kong. 
La televisione avvisa che è in fermento per questioni politiche.
Nella realtà la vita scorre nel consueto tran-tran proprio della grande isola d’oriente. 
I mezzi di informazione lanciano proclami terrificanti e immagini di scontri in piazza, io vedo solo gente che placidamente si reca al lavoro e mangia agli angoli delle strade.
Le ipotesi attendibili sono solo due; O la televisione dice solo minchiate, oppure sono finito in un universo parallelo, è l'unica spiegazione che riesco a darmi.
Ci sono naturalmente tanti cinesi, ma sai che novità! Nella mia città ve ne sono altrettanti, solo che qui i caucasici sono pochi e sono guardati a volte con curiosità; In particolare le signorine cinesi guardano i maschi bianchi di aspetto non proprio da buttare in maniera un po' sfrontata.
Diciamo che ho colto una certa attenzione da parte delle donne del posto. Non ho tempo per approfondire quest’argomento, interessantissimo e gratificante, perché voglio raggiungere la mia destinazione prima possibile.

Sono così a Yangon (ex Rangon) nel cuore della notte.
Zaino in spalla con il suo contenuto minimale ma comunque pesante: due jeans (uno dei quali indossato) un solo paio di scarpe Adidas ai piedi, tre magliette, costume da bagno e articoli da toilette, giacca a vento super compatta e un pile tecnico, poi gli immancabili infradito. Una cartuccera di condom per i momenti romantici se mai capiteranno messi in una tasca a pronta estrazione nello zaino… Il resto non mi serve, anzi non lo voglio.

Appena uscito dall’aeroporto, dopo le lunghissime pratiche d’immigrazione e superato il vallo di una polizia gentile ma severa, faccio subito amicizia con un tassista nella piazza antistante, mentre ci fumiamo una sigaretta contrattiamo sul prezzo della corsa e evito di farmi fregare per andare in città, forse mi guadagno la sua simpatia, perfino un po’ di rispetto non facendo la figura del solito turista babbione.
Durante il tragitto in automobile che mi porta a Yangon Downtown, faccio prima una sosta per mangiare assieme al mio chauffeur. Nel cuore della notte, in un posticino alla buona, ma sempre aperto. Dopo una cena fantastica (la cucina Birmana è grandiosa) mi accompagna in un albergo a buon mercato, ma dotato di aria condizionata che è un lusso cui non voglio rinunciare, visto l’umidità notevole della città. 
Spendo circa dieci dollari per il taxi (circa trentacinque minuti di viaggio), più cinque per la cena, mentre il mio hotel costa 35 dollari U.S.A. al giorno. Tutto sommato un buon affare.
La stanza è un po’ spoglia nel suo arredamento anni settanta, ma è l’ultima cosa che m’interessa.
Voglio una doccia che desidero come un templare il Santo Graal, e voglio liberarmi del bagaglio che vivo come un giogo e una zavorra.

Vorrei anche dormire e sarebbe ragionevole farlo dopo venti ore di viaggio, di cui quindici di aereo, ma è inutile.
Ogni volta che vado a oriente è la stessa canzone, per tre o quattro giorni soffro il jet- lag.
Forse è l’adrenalina, forse ho un bioritmo che non vuole cambiare, in ogni caso sono sveglio come un grillo nel grande letto che mi accoglie generoso ma senza regalarmi il sonno.
Così approfitto della difficoltà per farne un’occasione, mi alzo e vado in esplorazione, tanto non ho sonno e non dormirò per altri due giorni, ma non lo so ancora.
Vedo gente che passeggia di notte sopra i marciapiedi alti un metro (per via delle piogge monsoniche) mastico Betel, una sorta di “smart drug” locale ma legale, che da un certo vigore anche se è leggermente cancerogena, ma in fondo cosa non lo è ai giorni nostri?
Ascolto musica dal mio mp3 e intanto capito per caso in un tempio buddista con le guglie dorate sempre aperto. Poi sul far del giorno i mercatini, la gente che incontro che mi guarda e mi sorride, sono l’unico bianco in un mondo con gli occhi a mandorla. 

Provo una sensazione d’incredibile libertà interiore che mi sopraffà e mi accompagnerà come un amico fidato per tutto il tempo che rimarrò in questa meravigliosa nazione.
Nei giorni successivi vedo quasi tutto di questa caotica città.
Le mete solite e più importanti (Swedangon Paya) i vari templi sparsi, il museo nazionale, il Buddha sdraiato lungo 64 metri, ma anche le cose semplici incontrate per caso che sono sempre le più belle e speciali.
Due parole per Swedangon, un'opera grandiosa dell VI secolo che toglie il fiato. Le guglie degli Stupa sono d'oro con oltre 7.000 pietre preziose, in cima alla più alta (circa 98 metri) c'è un enorme diamante che cambia colore a secondo della posizione dello spettatore.
Gustarsi il crepuscolo in un simile contesto mi avvicina a una spiritualità profonda che le parole sono inadeguate a esprimere.
Ci sono così momenti in cui il corpo diventa un respiro e il respiro si confonde con il vento.
La sensazione che pian piano mi entra dentro è di familiarità con questo posto e con il suo popolo che trovo semplice, quasi primitivo, umanamente vero.
Quasi tutti emanano un calore che non trovo facilmente in Italia, da noi in città le persone sono sempre più macchine e meno esseri viventi.  Il gelo che hanno dentro ferisce come ghiaccio affilato la pelle di un cuore sensibile o almeno di chi è ancora normale, umano direi.
Dunque non mi sento solo in mezzo a questa gente ed è una vera sorpresa per me.

Curo il jet lag con un personalissimo metodo, una medicina che mi sono  prescritto. Sono la cavia di me stesso.  Red Bull di giorno per non cedere al sonno improvviso che arriva inaspettato e Vodka Absolut (comprata a Hong Kong) la sera per dormire. Sembra un buon piano, ma inutile.  
Di giorno sono schizzato come un broker di Piazza Affari e di notte sono un insonne ubriacone ciondolante.
Faccio amicizia con un sacco di ragazzi e ragazze del posto e anche qualche turista simpatico, con tutti questi nuovi amici  trascorro i pochi giorni dedicati alla capitale in una bella atmosfera accogliente.
Poi, inaspettatamente un piccolo trauma mi riconnette a un bioritmo normale e mi cura da questa patologia che rischiava di rovinarmi la vacanza e la salute.
E’ proprio il giorno della partenza per Bagan o meglio la mattina che dovrei prendere l’aereo alle 6.30 con un volo interno. Accade in questo contesto la mia guarigione.
Avrei potuto preferire il più pittoresco tragitto in chiatta lungo il fiume (13 ore) oppure l’autobus (15 ore) ma le strade sono generalmente dissestate e quando sono disponibili, hanno tempi biblici di percorrenza. Queste considerazioni mi fanno decidere per la soluzione più semplice: un volo interno (circa 110 USD).
Completamente scombussolato, sono convinto di avere ancora un giorno davanti a me e invece ecco che apprendo con stupore di aver regolato male il calendario sul mio cellulare (scambiando la mezzanotte con il mezzogiorno). Un cellulare inservibile come telefono ma che uso come sveglia e come macchina fotografica.
Realizzo questa illuminazione nella nebbia della mia cura notturna.
Il mio disorientamento cognitivo è dunque all'apice mentre sonnecchio quando suona il telefono in stanza. E’ la reception che mi rivela, quanto sono coglione e che devo partire, proprio quando finalmente mi ero addormentato da un’ora.
Apprendo inoltre di non essere il solo rincitrullito a Yangon, mi fa compagnia il personale dell’hotel, infatti, si erano dimenticati di me e mi hanno svegliato alle 5.15.

Evidentemente quegli "storditi" si sono semplicemente dimenticati di chiamarmi con un ragionevole anticipo, nonostante glielo avessi raccomandato, anzi li avevo scongiurati con preghiere in latino e in tutte le lingue conosciute, perché mi piace fare le cose con calma. 
Passo invece dall’ottundimento ameboide di un sonno ipnotico e fumosamente alcolico a un’efficienza paramilitare da marines sotto attacco vietcong in meno di tre minuti.
L’adrenalina è veramente una grande invenzione.
E’ come tuffarsi nella Taiga ghiacciata dopo una sauna all’inferno.
Tre “rincoglionitissimi” facchini dell’hotel mi aiutano raccattando ogni cosa che ho disperso come Pollicino nella mia stanza, e poi saltano sullo zaino come fosse un tappeto elastico, pare intatti che la mia borsa si è ristretta sotto effetto del clima o di chissà quale maledizione equatoriale. La scena sarebbe comica se però capitasse ad un altro.
Alle 5.40 uno stralunato essere umano che mi assomiglia esce dall'hotel ed entra in un taxi materializzatosi provvidenzialmente davanti all'hotel.
In realtà non è un vero taxi ma l’ogiva di un razzo Sputnik, il cui conducente o per meglio dire, il cui cosmonauta viaggia a non meno di mack 3 con accelerazioni di 3G, infischiandosene di qualunque segnale di prudenza posto agli incroci;  I semafori per questo kamikaze in cerca della morte sono solamente decorazioni luminose che punteggiano una pista di decollo. 

La strada è tutto una buca, e nel chiarore di un’alba magnifica realizzo che essa sarà l’ultima che vedrò nella mia vita. 
Non è male come ultimo sguardo al mondo, penso.
Scorre sotto di me velocissimo l'asfalto come un tapis roulant cui hanno applicato per errore il motore di una Porsche 911.

Nonostante i pronostici negativi ho una certa fiducia (ingiustificata) nel collaudatore di questo prototipo di Shuttle travestito da taxi, anche se mi sembra invitabile che ci schianteremo. 
Mi raggiunge una rassegnazione che mi ricorda la sensazione che provo ogni volta che faccio la dichiarazione dei redditi.
Ingollo le ultime due Red Bull rimaste che rotolano sul pianale dell'auto come barili nella stiva di un Brigantino colto dalla tempesta. Spero mi diano il coraggio di guardare la morte in faccia con un minimo di dignità, ma ogni nobiltà e decoro è rimasto nella mia ex stanza d'albergo.
Considero filosoficamente la mia posizione umana nell'universo tutto in un contesto tanto strano, mentre sono sballottato come in una centrifuga di una lavatrice.  Realizzo tra un saltello e l'altro che almeno sono in sincrono con questo samba automobilistico.
Miracolosamente invece arrivo in aeroporto alle 6.15, in tempo per il check in che dura solo alcuni minuti.
Non ho la minima idea di come ho fatto, lo giuro contemporaneamente sulla timurti indiana e sul manuale delle giovani marmotte, ma sono sul volo giusto.
Destinazione Bagan, dove troverò il più importante sito archeologico e monumentale birmano.
Confesso però che in quel momento non me ne frega un cazzo.

Mi addormento come un naufrago sulla spiaggia, esausto.
Il seggiolino/poltrona dell’aereo mi pare una nursery accogliente e vorrei solo evaporare.
Dopo un’ora e mezza di sonno ristoratore, atterriamo.
Lo stidire degli pneumatici mi fa da sveglia.  
Scendo da quest’aereo a elica che sfida le leggi aeronautiche ma anche quelle del buon senso, e attraverso questo aeroporto playmobil che pare costurito per il doposcuola.

Sono inaspettatamente sobrio, attento, pieno di energia e mi sorprende alle spalle la felicità.

 

2 commenti:

bla78 ha detto...

Visto il nuovo canale tv Agon Channel? Stanno facendo casting per tantissimi nuovi programmi in partenza e in più hanno annunciato che Sabrina Ferilli condurrà "Contratto”, il talk show di punta del canale in onda in prima serata

Visir ha detto...

E chi se ne frega, non lo vogliamo mettere?