mercoledì 31 dicembre 2014

Road to Myanmar -ultima parte (?)-



Piccoli bungalow di legno, il mio è di fronte  alla spiaggia, sento la risacca mentre mi rado la mattina.
Il ristorante vicino è una piattaforma sopraelevata in legno sotto un tetto di paglia. Mangio con il mare che mi guarda dritto negli occhi.
Nulla da dire, è come una cartolina.
Spiagge di chilometri di sabbia finissima, mare a tre colori che dolcemente degrada nella profondità, alberi di cocco che fanno cornice a questo presepe balneare.
Pochi turisti. Silenzio, aria fresca, belle donne sorridenti che incontro senza cercare.
La felicità non esiste, ma questo è sicuramente un momento che gli assomiglia tantissimo.
Passeggio su questa spiaggia infinita e vedo i ragazzi che aiutano i pescatori a disporre i pesci al sole su una miriade di grandi teli color turchese. Chilometri di pesce, chilometri di turchese.
Le ragazze ridono, e mi sorridono. Sorrisi unici, mai visti di così belli. Sorridono con il cuore prima che con le labbra.
Trovo occasioni per stare in compagnia. 
Forse è merito dell’abbronzatura.
Ogni giorno è diverso nonostante il rituale quasi uguale.
Passo il mio tempo tra pesca subacquea, barbecue su isolette deserte, ristorate la sera, rum con agli amici di notte se non c'è di meglio da fare.
Le stelle grandi come pesche mi guardano e forse mi invidiano.
Ci si incontra la mattina e magari capita di passare la notte insieme.
Volti, diversi, nuovi.
Ogni tanto vado in città che in realtà è un villaggio solamente poco più grade degli altri.
Visito il mercato con la sua gente indaffarata ma che non ha mai fretta.
Lo raggiungo dopo quaranta minuti di autobus, un autobus che in realtà è un camioncino senza sedili, solo panche di legno saldate al pianale di carico.
Non c’è bisogno di fermate o di orari.
Lo aspetti un po', poi lo vedi arrivare, gli fai un segno, ci sali sopra e gli dici dove vuoi andare. Quando è il tuo momento, scendi.
Si viaggia spediti, ma si fa sempre sosta vicino ad un tempio. Tra il rumore gioioso delle campanelle, un ragazzino alto un metro e venti, gira intorno al veicolo e tiene in alto una scodella come un trofeo.
Chi vuole allunga una moneta per il Budda, non c'è bisogno di ringraziare. 
Stretto tra altri, fra le ragazze che vanno a scuola in divisa e infradito, alle signore con i sacchi di riso e le borse colorate della spesa, accanto agli operai che masticano Betel, sono perfettamente a mio agio.
Mentre sono sballottato su questa strada tutta buche, ascolto Beethoven in cuffia e ricambio i sorrisi degli altri passeggeri.
Sono come a casa, anzi qui sono molto più a casa, purtroppo.
Lo so, la contentezza è banale da raccontare. Non c’è pathos, dramma. Non c’è suspense.
Sta in poco posto, ma non è mai piccola.
Posso dire che in quei momenti ho dimenticato chi ero e se non ci fosse stato il passaporto a ricordarmi il mio nome e i miei doveri avrei dimenticato anche loro.
Affascinanti incontri con la bellezza, semplice nell’aspetto, senza fronzoli né complicazioni, ma di un’intensità primitiva che ha in questo il suo valore inestimabile.
Un modo vero di vivere, libero dalla complessità, dai rapporti delle persone complicate nel mondo complicato che ho lasciato alle spalle senza rimpianto.
Non voglio dire di più.
Certamente, ogni cosa è effimera, transitoria, fugace forse priva di un valore assoluto, ma non è questa la natura umana?
Di cosa sono fatto se non d’impermanenza?
Non è più folle insistere nel cercare ad ogni costo un punto fermo quando tutto si muove?
Lascia che sia, dunque.
Così mi parla all'orecchio questa terra.
Se la vita ha il peso di una fiamma, comunque scalda.
Se ogni impeto del cuore è alla fine un “summer love” che male c’è?
In ogni caso sarà comunque autentico in quel momento.
Non saluto nessuno prima di partire.
Quando arriva il mio tempo, parto e basta.
Per me è il modo di non interrompere la connessione con il luogo e le persone che non voglio lasciare, cui voglio bene.
 
Comunque bisogna andare.
Sembra la frase che potrebbe definire la vita.
  
  
 

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