martedì 10 febbraio 2009

Il Prigioniero -Parte VI-


Lo svegliarono di soprassalto nella notte, in maniera brutale.
Tre uomini robusti vestiti di scuro avevano interrotto il suo sonno.
Il primo pensiero che attraversò la sua mente fu:
“Ci sono, è arrivato il mio momento”.
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Il vecchio non era stato dunque ai patti. Ora che lui stava per vincere tutto avrebbe perso ogni cosa, ma solo perché l’altro era stato sleale.
“Non si fanno patti con il Demonio”, pensò, mentre si metteva i pantaloni.
“Alla fine si può solo rimetterci con il rammarico inoltre di aver, per avidità, perso molto credendo di acquisire a buon mercato”.
Mise la sua anima in pace, finì di vestirsi senza fretta e attese la sua fine.
Questa però non sembrò arrivare.
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Lo fecero invece salire su un potente motoscafo su cui i tre balordi erano arrivati. Lo avevano ormeggiato al pontile vicino alla villa.
La barca aveva due enormi motori che brontolavano sommessi e producendo dei mulinelli di schiuma bianca nel mare scurissimo.
Lo scafo dondolava assecondando la risacca e urtando ogni tanto con i parabordi di gomma la struttura di legno, segnando con questi rintocchi il tempo come un orologio.
L’aria era fredda, umida e pungente.
Probabilmente a causa di un’imminente temporale che stava arrivando. Lo aveva annunciato anche la televisione, ragionò fra sé, forse per quello era vietato il volo notturno.
“Ecco perché non sono arrivati con l’elicottero. Il destino si presenta sempre con un vestito nuovo agli appuntamenti importanti”, valutò, ragionando ancora.
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Sganciate le cime partirono veloci scivolando sopra questo mare di pece, saltuariamente illuminato da una pallida luna che pareva un faro di un carcere che scandaglia il muro di cinta, fra il buio e le nuvole.
Il motoscafo saltava fra i marosi a folle velocità, pareva in lotta contro il tempo, ma lui non sapeva con chi o perchè stava lottando.
Di nuovo il pensiero della fine lo attanagliò, mentre erano al largo.
“Ecco, ora spegneranno i motori, mi metteranno un’ancora legata ai piedi e mi butteranno nel mare. Fine della storia.”.
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L'imbarcazione però non accennava a rallentare, impennandosi fra le onde come un grosso Merlin preso all’amo.
“Mancavano ancora due anni alla fine della sfida”, computò nella sua testa. “Avrebbe potuto attendere che inciampassi (come era già accaduto) in un insuccesso, perché anticipare la mia fine? Che senso aveva questo trasferimento?”.
Queste domande senza risposta si infrangevano contro la sua logica come gli spruzzi del mare contro la prora di questo battello.
“Inutile domandare a loro”, pensò ancora, “quei tre uomini avevano i modi e la faccia di chi non rispondeva alle domande…Caso mai le facevano, le domande!”.
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Incomprensibilmente era calmo, non rassegnato, ma calmo.
Già da qualche tempo in lui era pervenuta una tranquillità naturale, ferma, indeformabile agli eventi che anche adesso lo sosteneva.
Ricordò che questo “dono” gli era arrivato dopo la seconda e ultima operazione, quando stava per perdere tutto nella nuova scommessa decennale.
Stava per disattendere per la terza volta di seguito il suo obiettivo mensile. Rischiava così di pagare non solo il pegno di una parte del suo corpo ma tutto se stesso.
Si era ammalato di un’uretrite terribile aggravata da un’influenza, capitata in quell’angolo di mondo chissà come; questi due nemici si erano alleati e gli avevano tolto le forze.
Era stato così di fronte alla morte e proprio in quel frangente aveva saputo abbandonarsi, non da sconfitto, ma da uomo libero.
Inspiegabilmente aveva amato la “nera signora”, nella stessa maniera cui amava la vita.
Questa imparzialità lo aveva trasformato, aveva operato in lui un ultimo salto che gli aveva permesso di raggiungere un altro stato di coscienza, uno stato più profondo, vero, inalienabile.
Era guarito incredibilmente dopo questa “rivelazione”, in due giorni, miracolosamente, e con impensabili prestazioni di recupero si era salvato.
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“Salvato? Per quanto?”, la sensazione che questa nuova domanda non lo riguardava solo in quel particolare frangente, ma che lo accompagnava in ogni momento della sua esistenza, e in quella di tutti, ridusse ad una proporzione accettabile un’incognita così grande.
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Fu sballottato contro il parapetto a causa di un’onda più alta delle altre e ritornò per un attimo al suo presente, al pozzetto dove era seduto nella barca.
Il timoniere, poco distante da lui, in una posizione sopraelevata maneggiava sicuro il timone, a gambe larghe, e manteneva la rotta nelle tenebre. Assomigliava un poco alla sua vita.
Aveva dovuto costruire una barca robusta, cioè il proprio corpo, tracciare la rotta disegnando una mappa con punti di riferimento reali nella sua mente, guidare con il timone del proprio sistema nervoso le emozioni per arrivare dove voleva arrivare.
“Dove?”, Domandò a se stesso. “E dove altro?”, Si disse ancora, e in maniera del tutto naturale si rispose: “Alla fine”.
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Guardò il cielo, stringendosi nello spesso giaccone di lana grezza che gli avevano fatto indossare e ringraziò le stelle.
Aveva imparato a fare anche quello.
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Osservò le sue dita della mano sinistra. Ne mancavano tre, due c’erano ancora otto anni prima, pensò, quando, e gli parve che allora fosse ancora giovane, aveva rilanciato la sfida con il Numero 1.
Pazzo? No. Ora sapeva perché aveva fatto una cosa del genere.
Quello che non sapeva o meglio di cui doveva avere conferma era del perché aveva accettato tale sfida il suo antagonista.
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Comunque si era sbagliato perché lo sbarcarono illeso dopo due ore.
Fu trasferito su un fuoristrada e giunsero, qualche ora dopo, allo scalo internazionale. Prese, insieme ai suoi accompagnatori, giusto in tempo l’aereo per gli U.S.A.
“Tornava a casa? Pareva ormai quasi certo, se solo lui avesse mai avuto una casa!”, questa battuta lo fece ridere, pescando così lo sguardo torvo dei suoi nuovi compagni di viaggio, che lo squadrarono stupiti con quelle facce da galera.
Avrebbe potuto fuggire, chiedere aiuto, ma lo avrebbero raggiunto comunque, tanto valeva arrivare fino in fondo a questa partita e scoprire tutte le carte del mazzo.
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Dodici ore di volo sono lunghe. Approfittò di questo tempo per analizzare la sua situazione alla luce dei nuovi eventi che per un poco avevano cambiato l’idea che si era fatto della sua esperienza, del suo incubo, come una volta lo definiva. Adesso aveva una considerazione diversa del suo passato.
L’intuizione che era balenata nella sua anima molto tempo fa, mentre ragionava su quel lettino steso al sole durante l’attesa dell’arrivo del Numero 1, aveva preso corpo nei successivi otto anni.
Quello che allora aveva accantonato come un’assurdità alla luce della sua nuova maturità era risultato vero.
Aveva dubitato, e lo ammise candidamente con se stesso, nel momento in cui aveva visto quei tre uomini strapparlo al sonno e aveva pensato che erano venuti per ucciderlo, ma ora che le cose sembravano seguire una logica era sempre più convinto della sua interpretazione dei fatti.
Aveva però bisogno di un’ultima conferma.
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Entrò profondamente in se stesso, percepì la propria integrità completa, si fuse con naturalezza nell’ambiente circostante e separò la sua mente dal suo corpo, come aveva imparato a fare per sopravvivere e in questo modo si sentì completamente libero.
Dopo un tempo che non avrebbe potuto definire, si riappropriò del suo fisico. Sentì che le sue emozioni si erano placate, determinando in lui uno stato di serenità, bellezza e perfezione che forse appartenevano alla “vera” normalità di un essere umano.
In questo modo vide più chiaramente la sua situazione.
Poi finalmente atterrarono.
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Al di fuori dell’aeroscalo c’era una bella limousine bianca ad attenderli che, veloce lungo l'highway, li portò lontano, in strade sempre meno trafficate sino in campagna.
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Giunti di fronte ad una principesca residenza che si ergeva dinnanzi ad un piccolo lago artificiale, pensò: “La casa del Numero 1, non c’è bisogno di domandarlo ai passanti”.
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Camminando nell’ampio salone all’interno di questa enorme casa vittoriana, udiva l’eco dei suoi passi e quello dei suoi angeli custode sulla pavimentazione a scacchiera, bianca e nera, di marmo pregiato.
Lo aspettava, al centro di questo ampio locale dal soffitto alto sino al terzo piano, il guardaspalle del vecchio.
L’uomo pareva una statua posta a monito per i visitatori.
Il gigante congedò con un’alzata del mento i tre balordi che si allontanarono senza una parola. Bastava certo lui da solo a fare per loro tre.
Da vicino sembrava fatto di granito.
La voce che uscì da questo “Frankenstein” fu invece gentile, virile, ma con una nota di fondo malinconica e triste.
“Venga, il Signor Richards l’aspetta, mi raccomando…E’ molto malato, ma voleva assolutamente vederla prima…Prima di…Insomma lo vedrà da se”.
Questa raccomandazione quasi materna strideva con l’uomo che la pronunciava, il contesto in cui era detta e soprattutto la storia che vi era dietro.
“Era veramente una situazione bizzarra”, ragionò, “ma ogni vita a suo modo lo è nella sua unicità”.
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Salirono lungo l’ampia scalinata sino al primo piano dove “boiserie” in legno avvolgevano le pareti facendo da continuazione ideale al pavimento di legno anch’esso ma di tonalità più chiara. Percorsero un corridoio ampio e lungo che si snodava lungo tutto il piano della grande casa, era punteggiato di porte a destra e ampie finestre a sinistra, ogni tanto un grande balcone dava uno scorcio sul parco meraviglioso.
Le pareti erano impreziosite da dipinti di grande gusto.
Giunti infine in una spaziosa anticamera, arredata con mobili antichi e al cui centro era sistemata una coppia di divani gemelli , si fermarono.
Gli fu indicata una porta di legno bianco finemente intarsiato di una stanza da letto, indugiò pochi secondi e poi entrò da solo.
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Disteso nel grande letto, leggermente sollevato da una pila di cuscini, respirava a fatica con una maschera ad ossigeno il Numero 1.
L’unico segno della sua tempra eccezionale lo davano i suoi occhi.
Erano l’ultima ridotta posta a baluardo della sua vita. Il corpo aveva capitolato già da un po’, ma gli occhi erano illuminati dalla fiamma del suo spirito invitto.
Sorrise, nel vederlo entrare. Un tipo di sorriso che non pensava potesse appartenere ad un uomo così: di una dolcezza infinita e carico di una serenità che pareva già provenire dall’altra dimensione.
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“Buongiorno, Peter”, disse il vecchio spostando con la mano segnata di macchie senili, la maschera dell’ossigeno.
“Buongiorno Signor Richards, ora conosco il suo nome, ma vorrei conoscere l’uomo che c’è dietro, se possibile”, stranamente le sue parole fluirono dal suo cuore come se il male trascorso non fosse stato che un piccolo inconveniente sul loro comune sentiero.
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“Ho chiesto alla morte di aspettare un poco solo per questo”, disse ancora l’anziano con voce bassa ma nitida,
“Dovevo essere sicuro che ogni cosa fosse al suo posto e come vedi ogni desiderio è esaudito per l’uomo che sa come chiedere”, sorrise ancora e parve ringiovanire per un attimo.
“Hai capito?”, chiese e subito si interruppe per tossire.
“Si”, rispose Peter.
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“Ogni pianta per essere forte deve conoscere le sue radici più profonde”, continuò il vecchio, con un leggero fischio nel respiro affannoso.
“Ho preparato una raccolta documentale di chi ti ha preceduto in modo, bada bene, tu possa decidere se continuare in questa difficile cosa o vivere la tua vita godendo ciò che hai conquistato.”, ebbe un singulto ma riprese.
“Inoltre, quando non ci sarò più, riceverai un piccolo regalo che ti aspetta nella stanza accanto. E’ il mio studio privato che ora è tuo, come tutto il resto”.
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“Lei, ha fatto di me un uomo, insegnandomi con spietata bontà come operare in me stesso un cambiamento dettato da una coscienza libera dal dolore e dal piacere. Una lotta terribile che ho vinto grazie ha sforzi e sofferenze cui mi sono liberamente sottoposto”.
Si interruppe un attimo perché l’emozione lo sopraffaceva, nonostante l'esposizione del suo sentire fosse così logica, quasi impersonale.
“No, no!” disse Richards, con uno sguardo severo.
“Non devi essere triste! Io resterò nel tuo ricordo come un amico e non come un Maestro, ora tu sei completo”.
“Come mai ora? Perché state morendo?”, domandò Peter.
“Tu eri pronto già da un po', ti ho ben valutato nella tua crescita. Ti avrei comunque mandato a prendere, la malattia è stata solo una circostanza, niente di più”, espose il vecchio con il suo tono pacato e convincente che lo contraddistingueva in ogni occasione.
"E quei personaggi ambigui di cui si è servito in tutta questa storia?", chiese Peter, voleva sciogliere ogni nodo.
"Ah! Quelli...", disse il signor Richards, con una nota di vaghezza,
"...Sai com'è, Peter, un buon allevatore di purosangue deve conoscere tutti i ladri di cavalli", aggiunse con arguzia a conclusione della questione.
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“Vorrei che lei restasse ancora un po’ con me, ho ancora da imparare”, disse Peter serio e stupendosi dell’affetto che sgorgava dalle sue parole con naturalezza.
“Sei giunto al punto in cui puoi imparare da te stesso. Il mondo è troppo piccolo per due Numeri 1”, rispose l’anziano intervallando la sua risata sommessa ai colpi di tosse.
“E poi…”, aggiunse, “...Nulla è per sempre”.
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Trascorse qualche secondo di silenzio in cui il vecchio parve riandare con il ricordo ad un passato remoto, gli occhi si velarono di una leggera patina di sogno, improvvisamente riprese come se si fosse svegliato.
“Sappi che anche io ho avuto in dono la tua stessa sorte. Ero giovane, molto giovane e vivevo una vita di espedienti, lasciandomi trasportare dalle circostanze come un relitto dal mare.
Quando incontrai il mio mentore, vissi le tue stesse difficoltà, ma patii molte più amputazioni. Paradossalmente persi l'uso delle gambe per imparare a camminare.
Come vedi ho trovato un allievo migliore di me. Non potevo desiderare di meglio. Perdonami, se puoi, del male che ti ho fatto, ma era l’unico modo che conoscevo per salvarti da te stesso”.
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“Voi non mi dovete nessuna scusa! Io ho avuto molto di più di quello che ho perso”, lo interruppe Peter.
Il vecchio fece un gesto stanco della mano come a scacciare queste gentilezze superflue e concluse.
“Il mio tempo è arrivato, ora lascia che mi raccolga in me stesso. Ti lascio per un posto migliore non devi affliggerti. La morte è solo un passaggio, una porta niente altro.”, fece ancora una breve pausa e disse le sue ultime parole:
“L’uomo è più grande delle sue sofferenze”.
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Gli parve che gli avesse strizzato l’occhio, dopo aver pronunciato questa frase che gli aveva dato i brividi, ma non ne fu sicuro.
Poi sulla stanza calò un silenzio liquido di serenità.
Passarono vicino le ultime ore, senza una parola, mentre il sole faceva il suo percorso nel cielo andando a morire anche lui nella sera.
Come quell'uomo affrontò il momento che a tutti tocca incontrare fu il suo ultimo insegnamento.
Ad un tratto il vecchio trasse un profondo respiro e parve quasi sollevarsi dai cuscini, espirò lentamente e chiuse gli occhi sorridendo per l’ultima volta.
Il suo viso pareva quello di un bimbo con le rughe.
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Passarono ancora molti minuti, forse anche un'ora. Pareva che il tempo si fosse fermato, le immagini della sua esistenza erano bloccate su questo fotogramma: lui, il vecchio, la stanza. Un attimo gigantesco avulso dallo scorrere delle cose.
Poi una mano delicata si appoggiò alla sua spalla e lo ridestò.
Numero 1, Signore…Prego, ci sono cose che l'aspettano”, disse la signorina Tippy che era entrata da un po’ nella stanza senza fare rumore.
“E’ vero c’erano cose che andavano viste e fatte”, disse a se stesso e scosse la testa in cenno di assenso.
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Con passi lenti si diresse nel suo nuovo studio e aprendone la porta, ebbe la netta sensazione che stava varcando una soglia, non solo verso il passato, ma anche verso il futuro.
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.Terminerà nella prossima con il finale…

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