giovedì 10 aprile 2008

Parlando di cose allegre...la morte.

Non c'è niente di più istruttivo di un funerale… è un'incredibile occasione per osservare le reazioni e le emozioni della gente, ma soprattutto cosa accade in se stessi.Recentemente ho partecipato al funerale di un amico prematuramente scomparso ed ho potuto così osservare in me un turbinio di sentimenti ed emozioni mai analizzate seriamente.Si sono succedute sensazioni diversissime e altalenanti.
C'è stato subito un senso di incredulità, seguito da una di vuoto, poi tristezza, quindi rabbia ed infine tutto è stato avvolto dall'accettazione della fatalità ovvero dalla realtà dell'esistenza.Penso che valga la pena un poco soffermasi su ognuna di queste emozioni, con attenzione. Leggevo qualche anno fa un articolo di psicologia nel quale si sosteneva che se un evento sconvolge le nostre abitudini la mente ha bisogno di tempo per organizzarsi cioè per accettare e valutare il fatto inaspettato. Tutto ciò per ridurre a qualcosa di noto un fatto sconosciuto. Questo tempo, che chiamerei di adattamento, è riempito dall'incredulità, insomma con la classica frase: - non è possibile!
Quest'incredulità altro non è che un cuscino fra noi e la realtà, ma mi domando perché abbiamo bisogno di questo? Cosa dobbiamo difendere? A cosa ci dobbiamo adattare? Come mai esiste un gap temporale fra la nostra mente e gli eventi percepiti, cioè la coscienza appare incapace di essere presente al fatto, o è indietro con il fiato corto, o è avanti in caccia di farfalle.Se osservo un bambino il cui mondo è costantemente nuovo e sorprendente, in lui non è presente questo "cuscino", questa distanza, egli guarda il mondo con uno stupore cristallino e con un'accettazione totale, qualsiasi favola è reale, qualsiasi prodigio è possibile.Alcuni medici hanno provato con bambini in età prescolare, che dovevano essere sottoposti a piccoli interventi ambulatoriali, un tipo di anestesia "magica"; ossia il medico presentava al piccolo paziente un "guanto fatato" avente proprietà anestetizzanti, eseguiva poi una dimostrazione su un'infermiere che esaltava il valore dello strumento e quindi operava sul piccolo.I risultati sono stati sorprendenti, quasi assenza di dolore, ma ancora più sorprendente è, secondo me, questa capacità di accettazione propria dei bambini che abbiamo perso apparentemente in maniera irreversibile.La seconda sensazione è stata di vuoto, ma vuoto per cosa? Di cosa sono stato privato? Si potrebbe pensare della persona cara, ma più precisamente del pensiero della persona cara che non c'è più, e come se fossi un po' meno vivo.
Con un'interpretazione antropologica la mia tribù (i parenti gia amici i nostri alleati dunque) è, in seguito alla perdita, diventata meno forte come se la mia stessa sopravvivenza sia monca di una sua appendice. Più la persona è vicina, importante, maggiormente mi sento derubato, svuotato.Ancora una volta mi viene da chiedermi se sia veramente così e cioè se veramente è una realtà o una percezione, un prodotto della mente.Nei popoli primitivi dove la vita è estremamente rischiosa e breve, il rapporto con il mondo circostante è strettissimo, quasi non esiste separazione con la natura e gli eventi.Da questa comunione nascono tutte le religioni animiste che vedono in ogni cosa l'espressione di un dio, di uno spirito.
Per contrasto la paura quotidiana rafforza l'adattabilità alla realtà mentre noi uomini civilizzati soverchiati da polizze vita, furto, incendio, cassa continua, mutua, previdenza viviamo nell'incapacità di accettare ciò che semplicemente è. Sorprendentemente lo sviluppo della nostra parte razionale ovvero la capacità di previsione ci lascia completamente spiazzati al presente, sempre più soli in un mondo di solitudine, viviamo noi stessi imprigionati nel perimetro della nostra pelle incapaci di scorgere il fluire della vita.
Si racconta di un monaco Zen che giunto al capezzale di un nobile samurai moribondo gli disse: - sono venuto ad insegnarti come comprendere ciò che viene e ciò che va. Il samurai a sua volta replicò: - come puoi insegnarmi questo se io stesso dopo una vita intera non ho ancora compreso? - Il monaco con tranquillità aggiunse: - E' perché non hai considerato che nulla viene e nulla va. A queste parole il nobile signore sorrise e spirò serenamente. Nulla viene, nulla và… questa verità riecheggia nel cuore, ma non nel cervello poiché la mente non può comprendere il vuoto, non è proprio possibile pensare al nulla, la stessa funzione della mente è inscindibile dal soggetto, ma la realtà è veramente formata di oggetti? Se siamo innamorati (e lo siamo veramente per poco tempo) non vi è spazio per il soggetto, ma solo per il sentimento, difatti nel momento che cominciamo a pensare all'altro come ad un soggetto/oggetto (fidanzata, moglie, amante) non c'è più posto per l'essere. Cioè si crea una separazione dove prima c'era comunione, unità.
Così per l'amico che non c'è più, la nostra ignoranza ci danna e ci condanna alla sofferenza.La tristezza, il pianto… lacrime salate, ma per chi?
Guardavo i parenti affranti gli amici stravolti e mi domandavo l'origine di questo, forse si piange chi è andato o si piange chi resta? Io penso che si riesca a piangere veramente solo per se stessi, nel riflesso della tragedia altrui vediamo la nostra paura della sofferenza, si soffre dunque per chi resta, per i vivi, gli unici con cui possiamo rapportarci in questo mondo, in quanto la morte è una dimensione ignota a cui non possiamo pensare, ancora una volta il vuoto senza forma, inimmaginabile, ingloba anche la sofferenza. Eppure esiste la possibilità di sperimentare tutto questo in vita ed è la dimensione della meditazione, il vuoto sorge dal non pensiero, lui c'è quando noi non siamo, che paradosso! Mi viene in mente la celebre frase di Cartesio "cogito ergo sum" e quindi "se non penso non sono" o meglio se non m'identifico con il mio pensiero non esiste un ego, ma di converso proprio perché "Io non sono" posso essere eterno. Io e la morte non c'incontreremo mai, ma nello stesso tempo la vita non è altro che una preparazione a quel momento, che contraddizione!
Che dire poi della rabbia? Eh sì, perché anche con lei ho dovuto fare i conti. Rabbia perché questo lutto mi appare come uno schiaffo, un dispetto, come quando parliamo con qualcuno e questi si gira e se ne va senza degnarci di risposta, le parole riecheggiano come sospese a mezz'aria, come il soliloquio di un folle.
La follia della vita, la meravigliosa e terribile dimensione della pazzia, egli non è più qui si dice dei morti, ma anche dei folli. Si racconta che nei monasteri buddisti si ospitasse spesso un folle, nei suoi occhi come in quelli di un uomo illuminato si dice si possa scorgere l'altra dimensione, entrambi hanno varcato la soglia, ma in modo completamente diverso. Il primo in maniera inconsapevole, il secondo con il massimo della consapevolezza umana ed ecco ancora …un'altra contraddizione!
Accettare, capire comprendere...forse dimenticare, la mia vita è ripresa nella sua frenetica normalità, sono stato riassorbito dal corso dell'esistenza, cosa è cambiato in me, ho forse dimenticato? Penso di no, ma cosa è cambiato non so dirlo, certo ho una cicatrice nell'anima ed è come la ruga sul viso di un vecchio, essa testimonia la sua vita, forse un antico dolore, forse una gioia, per me testimonierà ciò che ci ha legato.
Che cosa resterà della mia vita? a volte me lo domando e riesco anche a sorridere di tutto il mio affanno, immaginandomi quando toccherà a me ritornare al grande spirito (come lo chiamavano gli indiani d'America), all'energia che sorge, diviene e scompare per poi rinascere chissà dove e in quale forma.
E lui, quel testone del mio amico che non è più con noi, mi piace immaginarlo così, come una risata nel vento.

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