venerdì 11 aprile 2008

Parte III L'Inizio dell'Ombra










Simile alla mola di un fabbro su di un pezzo di ferro grezzo le ruote dell’aereo scalfirono la pista d’atterraggio, nera come una lapide, sollevando intermittenti nuvole grigiastre.

I suoi occhi si aprirono di scatto nell’istante stesso in cui il velivolo tocco il suolo natio.

Egli era perfettamente riposato e di ottimo umore, diversamente i suoi vicini invece avevano un colorito cinereo e versavano nello scoramento totale.
Loro, avevano dovuto subire diversi suoi attacchi gassosi (simili all’antrace) prodotti da quel meraviglioso laboratorio chimico che era divenuto negli anni il suo intestino, ma purtroppo a causa del Camembert deteriorato che aveva mangiato prima di partire il “laboratorio” non produceva le solite scorie gassose innocue.
A nulla valsero le proteste e le apnee prolungate di questo manipolo di eroi presi d’assedio, solo le maschere ad ossigeno calate dall’alto grazie al “May day” attivato da uno Stuart di buon cuore permisero a quei poveri passeggeri di arrivare a casa.

Si mostravano, però ormai allo stremo, in quanto le bombole erano quasi completamente esaurite.
Il passeggero Azbeko aveva anche cercato di coalizzare la resistenza con una sortita contro il venefico autore di questa atmosfera modificata, ma nel momento stesso dell’attacco, preparato con cura ed armati i compagni con coltelli di plastica e pezzi di ala di pollo avanzata era arrivato l’annuncio della discesa, vanificando il loro colpo di mano. Solo l’apertura dei portelli li salvò da una fine orribile.
Benignamente il fato concesse a loro una nuova possibilità di esistenza.

Incurante di tutto, il nostro claudicante beniamino si diresse verso la soglia dell’aeroporto per dirigersi alla “navetta” di collegamento che lo avrebbe portato nel cuore tentacolare della metropoli lombarda.
Inspiegabilmente giunto quasi all’uscita, alcuni cani poliziotto abbaiarono furiosamente al suo indirizzo, ma bastò una sua semplice occhiata per far cambiare il loro bailamme in un guaito sommesso, era una capacità (unica nel suo genere) che aveva sviluppato nel suo precedente lavoro di import-export e che più volte lo aveva liberato dalle tediose operazioni di controllo alle frontiere.

Finalmente giunse all’aperto. L’autobus di linea muggiva come un Bufalo Cafro nel fango, nella attesa di aggiungere alla sua soma i numerosi passeggeri che cominciavano a salire nonostante l’ora tarda.
Li avrebbe poi trasportati nei vari quartieri di Milano che formavano visti dall’alto dei quadrilateri contigui tra loro come risaie vietnamite.

La notte era senza stelle e senza luna come si dice siano le notti ove si compiono i Sabba.

I passeggeri che si incolonnavano alla volta di questo autobus erano stranamente tutti vestiti di nero, i visi erano pallidissimi ed emaciati se si escludeva il rossore delle cornee degli occhi, occhi che non promettevano nulla di buono, occhi da predatore.
Anche il conducente era affatto stano. Una vistosa gobba campeggiava dietro la sua spalla destra e lo faceva muovere in maniera eccessiva per verificare, con uno sguardo strabico, la disponibilità di posti a sedere alle sue spalle. Ad ogni sbirciata maldestra proferiva la stessa battuta “Lupo ululì castello ululà” e tutti ridevano, inspiegabilmente.
Fra gli ultimi a salire ci fu lui, ma trovo posto comodamente nel centro dell’autobus.

All’interno un odore di incenso ammuffito si attaccò ai polmoni e alle nari comunicanti del nostro anfitrione che però rimase apparentemente immune al senso di soffoco.
La nera compagine dei passeggeri era stata perspicacemente valutata dal nostro viaggiatore come “ Una compagnia teatrale gotica di passaggio”.
Questo perché I suoi pensieri vagavano altrove.

Una volta accomodatisi egli già pensava alla sua Dea Malese e in quel istante una vistosa protuberanza si gonfiò come un “air bag” che esplodeva dopo un tamponamento, deformando i jeans ora insufficienti a contenere tanta mascolinità.
La cosa non era sfuggita allo sguardo attento e lievemente osceno di una giovane ragazza punk seduta nell’altra corsia di sedili che ne era come ipnotizzata.
Questa biondina con capelli corti e irti come aculei indossava un collare di borchie che accarezzava il suo collo diafano. Vestiva una minigonna di tessuto scozzese bianco e nero che le copriva appena le cosce stranamente ben tornite rispetto al corpo magro inguainato in un giubbotto di pelle. Calzava due piccoli anfibi che facevano intendere piedi perfetti.
Il viso regolare e le labbra vermiglie aperte in un’espressione di stupore facevano da contorno ad un nero mascara che le disegnava gli occhi ancora più neri.
Lei fece in modo, quasi ingenuamente, che l’occhio indugiasse su questa pulsante mostruosità, ma badando che la cosa fosse notata da lui (la zoccolina) e, in maniera impercettibile, lasciò trasparire cosa desiderasse aggiungere a se stessa in quel momento.
Solo una dilatazione della pupilla in perfetto sincrono con il guizzare della sua lingua appuntita fra i denti, lunghi e bianchissimi, sottolineò il suo invito quanto mai esplicito.

“L’affare si ingrossava” come si usa dire a Wall Street.

La convocazione però fu prontamente disattesa come lasciò intendere un sospiro mal celato della giovane che segui allo sguardo di lui che si posava ostentatamente altrove, egli resisteva come novello Ulisse alle prese con il richiamo di questa Sirena Punk.
“Fra le tante virtù mi doveva capitare la più indecente?” Si domandò il nostro Lombricone fra se, “Ma io me la tengo, ben contento…” sentenziò soddisfatto nella sua mente e chiosando con un’espressione dialettale massese a mezza voce disse:” Gabisci!”.

Ignorando così definitivamente la procace giovinetta guardò oltre il finestrino e se possibile oltre se stesso.
I suoi pensieri furono nuovamente interrotti dalla partenza del mezzo pubblico che già sfrecciava verso la città e fendeva il buio rapido come una coltellata in un vicolo.

Ebbe modo di notare (distrattamente) che le tendine di questo autobus erano di raso nero, mentre i sedili, di un viola quaresimale, si abbinavano molto bene con la moquette grigio scuro che copriva i pannelli laterali e il pavimento,
Un vistoso crocifisso rovesciato campeggiava appena sopra l’uscita centrale.
Mah!? Fu il suo commento deciso.

La musica che era diffusa dai piccoli ma potenti altoparlanti sistemati sopra ogni posto era Metal molto duro, con testi incomprensibili probabilmente di una lingua primordiale forse foggiano, cantati con voce baritonale da Leone di Lernia.
Solo il suo orecchio addestrato a carpire suoni interessanti (come una particolare suoneria di cellulare) all’interno di una cacofonia assordante gli fecero decriptare alcune frasi.
La sua era un’abilità che lo aveva salvato molte volte dall’isolamento in casa di suo cugino (il sordo malefico) consentendogli di rispondere almeno al telefono.
Il testo della canzone diffusa, di sapore oscuro, era un requiem, ma le parole erano pronunciate al contrario.
Sollevò, come il signor Spok della serie Star Trek, un sopracciglio di ineffabile constatazione.
La velocità dell’autobus aumentava proporzionalmente al volume di questa preghiera satanica in una folle corsa verso il mistero, forse verso gli inferi.
“Ummmm?” solo questa annotazione usci dalle sue fauci numerate.

Il suo respiro rimase, però calmo e il suo animo quieto come quello di Attilio Regolo di fronte ad una ferramenta.
La sua mano però sfiorò i genitali in un attimo di debolezza, in un gesto apotropaico.

Giunti in prossimità di Piazza Croce avvenne quanto sto per raccontarvi, ma al solo descriverlo provo un brivido di sudore freddo sulla fronte e in altre parti del corpo che non nomino per educazione.

Continua…

Nessun commento: