sabato 12 aprile 2008

Parte II Partire è un pò soffrire




Come un vento freddo e inaspettato è foriero dell’inverno, così il nostro uomo scese dal taxi ancora in corsa di fronte all’ingresso delle partenze internazionali dell’aeroporto di Ibiza.

La velocità con cui abbandonava il veicolo pubblico era direttamente proporzionale al suo ritardo, praticamente un lampo nella notte.
Con consumata agilità che faceva intuire un passato recente di stunt-man in qualche film Western riuscì a guadagnare quasi quattro secondi su un normale corpo che si muove alla massima velocità consentita dalle articolazioni, praticamente un miracolo della bio-meccanica
Portava seco il suo immancabile notebook, in sostanza il suo talismano da cui non si separava mai, pena l’angoscia, ed una valigia semiaperta con alcuni effetti personali ed i suoi vestiti (tutti griffati) che parevano chiedere a gran voce solo una stiratura per essere perfetti. Alcune gocce di pioggia punteggiavano le spalle del suo inappuntabile cappotto blu di cachemire con un solo vistoso rammendo sulla tasca destra.
In poche parole rappresentava un’icona.

Il taxista notò che una scarpa sinistra era rimasta sul sedile posteriore dell’auto, certamente fuoriuscita dalla borsa del nostro beniamino, che seminava come Pollicino i suoi effetti personali ad una distanza variabile fra i sette e gli undici metri, entrambi numeri primi, ma notò altresì che non vi era più nessuno cui restituirla.
Il suo passeggero agile come un acrobata bulgaro era già sparito fra la folla frettolosa.
Il traffico caotico dietro l’autista sollecitava con i clacson di lasciar perdere, e così fece.

Dopo le operazioni di rito che precedono la partenza di un volo, restava sempre poco o niente da fare.

Così lui decise, con pigrizia felina, di utilizzare la connessione gratuita dell’aeroporto per farsi i fatti suoi. Nulla al mondo gli dava un brivido di piacere come connettersi ad internet gratis. Mollemente adagiato su un divanetto rosso, con il suo cappotto abbandonato vicino sulla spalliera del sedile accanto, sprofondò come in un limbo nel suo mondo digitale gratuito, cullato soavemente dal ronzio del computer e percependo il caldo tepore dei circuiti elettronici sulle sue cosce slanciate.

Dopo un tempo che parve breve solo a lui il suo occhio rapace colse l’orario che scandiva la sua partenza.
Similmente ad un maratoneta che si slancia oltre il via dopo il colpo di pistola, guadagnò l’ingresso al “check in” superando quasi tutti e si inabissò nel cuore stesso dello spazioporto.

Si sentiva stranamente leggero, scevro da quegli orpelli che di solito fanno da contorno alla vita, un inspiegabile senso di libertà lo sfiorò come un bacio per abbandonarlo, però quasi subito, non si accorse ebbro di questa fugace sensazione che l’alimentatore del suo notebook aveva deciso di staccarsi dal suo computer e riposare per sempre sul pavimento.

Realizzò solo, quando ormai era il suo turno di esibire il biglietto convalidato che non aveva più il cappotto e con esso anche il suo contenuto, ovvero: tutti i suoi documenti, i soldi, le carte di credito, molti dei suoi cellulari e una confezione di “verrucid” scaduta di validità cui teneva moltissimo.
Un’espressione quasi di Califano stupore si dipinse sul suo volto ormai solcato dalle rughe dell’inquietudine.
“Cazzo mi hanno fregato il cappotto” fu il suo laconico commento ad un evento che avrebbe gettato chiunque nello scoramento più totale, ma a lui parve solo un piccolo fastidio.

Inutili furono i suoi sorrisi (con quella apoteosi di denti), le minacce, le adulazioni.
Il personale del aeroporto era irremovibile: non poteva partire.
Come Ulisse prigioniero della maga Circe, l’isola lo reclamava ed ancor peggio esigeva un riscatto che era già stato pagato, anzi era già stato vilmente sottratto.

In un nanosecondo escogitò un piano alternativo. “Userò la burocrazia contro se stessa” proferì con voce chioccia, “Semplicemente geniale” fu il suo modesto apprezzamento a se stesso.
Sun- Tzu che scrisse. “L’arte della Guerra” (insuperato manuale di strategia) avrebbe applaudito ad un simile allievo.

Con le sue falcate lunghe come quelle di un gigante raggiunse il posto di Polizia e li tesse il primo filo della sua diabolica ragnatela, ma stranamente una sua scarpa, già da molto tempo slacciata, decise di allontanarsi dal suo piede e di stabilirsi in via definitiva in un angolo della sala fumatori. Forse per far compagnia all’alimentatore del suo “tamagochi” di silicio? Nemmeno la Sibilla Cumana avrebbe potuto rispondere ad una simile domanda.
Semplicemente accadde.

La sua usuale plastica deambulazione assunse così una curiosa andatura sinusoidale. Probabilmente causata dal dislivello venutosi a creare, ma egli parve non accorgesene. Anzi gli donava, questo suo incedere lievemente claudicante, un certo non so ché di molto sexy, un po’ alla John Wayne in Sfida all’Ok Corall, se si sorvola forse sul calzino liso sul calcagno che lasciava intravedere la pelle rosea che sfavillava come un opale fra le rocce.

Dopo un’attesa lunga come la colonna dei soldati italiani di ritorno dalla campagna di Russia, fu ricevuto da un sottufficiale della “Guardia Civil” che assomigliava in maniera impressionante al sergente Garcia della celebre serie Tv Zorro (quella degli anni 70’ per intenderci).

Grasso e sudato, dall’incipiente calvizie guardava con sospetto questo curioso passeggero che, in uno spagnolo quasi perfetto, enumerava le circostanze sfortunate che lo vedevano incapace di partire verso la patria natia.
Il poliziotto, annoiato dalla routine delle sue giornate sempre uguali, premette con il suo dito grasso il tasto “enter” del suo terminale per identificare questo curioso individuo e verificare il suo racconto sospetto, ma che aveva il profumo della leggenda.

Grande fu la sua sorpresa per gli eventi inaspettati che seguirono.
Una lista di centododici fogli dattiloscritti e fitti come un alveare enumerarono, in un tempo che parve infinito, tutte le cose perse nella vita del nostro eroe.
La prima risultava essere una tessera della Prefettura intestata alla sua persona già all’età di tre anni, questo dato fece un’ottima impressione sul funzionario.
La stampa fu interrotta due volte per la mancanza di carta e si racconta che la stessa stampante continuò a trascrivere anche nei giorni seguenti i documenti smarriti negli anni di beata gioventù del nostro anfitrione, essi erano continuamente aggiornati dal database della centrale.

Una breve digressione su un fatto curioso che occorse a questa stampante, come raccontato in un trafiletto di terza pagina nel giornale locale spagnolo “La Blatta”.
Il congegno, come sì sul dire, continuò a scrivere “a singhiozzo”in una sorta di rigurgito informatico inspiegabile, proseguendo a stampare l’elenco apparentemente infinito dei documenti smarriti dal nostro viaggiatore.
Inutile fu togliere la spina di alimentazione, la stampa continuava anche di notte.

Alla fine dopo otto giorni di agonia solo i cinque colpi di revolver esplosi dal caporale Rejes misero fine alla sua onorata carriera di stampante al servizio del governo spagnolo.


Tralasciando le notizie di cronaca e tornando al presente, Il “sergente Garcia” restò semplicemente a bocca aperta, mai nei molti anni del suo servizio aveva immaginato che un cittadino potesse perdere così tanti documenti.
Il nostro beniamino approfittò immediatamente della bocca spalancata del malcapitato agente di polizia per una veloce visita odontoiatrica e già che c’era, una breve lezione di stomatologia forense con sottotitoli in inglese.
Tenne la conferenza davanti ad un piccolo auditorio di guardie giunte a curiosare per il rumore incredibile della stampante rigurgitante di fogli le quali rimasero veramente entusiaste dell’ammaestramento improvvisato esso, a detta di molti, fu: “Semplicemente perfetto”.

L’apoteosi fu raggiunta nell’esposizione dei molari e premolari del nostro amico precisamente impiantati e numerati, uno show equestre che, senza tema di smentita, poteva essere definito il suo cavallo di battaglia.
L’ovazione dei poliziotti fu unanime e il premio di tanta capacità oratoria fu una carta provvisoria di imbarco.

Mancava meno di una manciata di minuti alla partenza dell’aeromobile.

Strappata letteralmente di mano al graduato la carta per la libertà, raggiunse come un naufrago stremato l’imbarco, curiosamente nel tragitto venero eiettate dal legittimo proprietario (se medesimo) come moduli esauriti di uno Shuttle, nell’ordine: una camicia di popeline nell’ufficio di polizia, una cintura Fendi su una telecamera di controllo, un maglione in cachemire impigliatosi in una pianta ornamentale (forse un potus) vicino al bar.

Giunto finalmente all’imbarco indossava solo un paio di jeans una scarpa, due calze (di cui una ricorderete lisa sul calcagno), una maglietta bianca a maniche lunghe, ma ghermiva come un mediano di mischia degli All Black nella finale di rugby il suo pc portatile (ormai quasi scarico) e un curioso sacchetto arancio gonfiabile (ma bucato).contenente l’ultimo telefono cellulare superstite.
“Tutto sommato non va affatto male” disse una volta a bordo e sedutosi nel posto numero 15 vicino al finestrino, mentre un’indaffarata hostess si domandava chi potesse aver perso una calza consunta nel corridoio dell’aereo.
Nello stesso istante pochi metri sotto una valigia semiaperta cadeva dall’elevatore di carico, rinunciando così per sempre a visitare la stiva dell’aereo.
Giunta al suolo sparse le sue spore griffate lungo tutta la pista oscurata dalle prime ombre della sera e lucida di pioggia leggera.

Il rombo della partenza si confuse con una sua elefantiaca flatulenza liberatoria (ma poco odorosa) che precedette di poco appena il suo sonno. Era completamente esausto. Tutto avvenne sotto gli occhi allibiti del suo vicino, un anziano viaggiatore Azbeko che mai in vita sua aveva udito una tale assonanza sincretica fra un motore a reazione e uno sfintere umano.

Continua….

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