venerdì 11 aprile 2008

Parte IV L'Araldo del Male








Prima è bene che ci si prepari al peggio conoscendo gli antefatti.

Il nostro mentore, viveva un momento di confusione.
Le neuro-tossine contenute nella porzione di Camembert deteriorato che aveva ingurgitato prima del viaggio cominciavano a procurargli un effetto sedativo ed a sprazzi allucinogeno.
Chiuse per qualche istante gli occhi in cerca di lucidità, ma dovette immediatamente riaprirli. Un passeggero dell’autobus aveva deciso di accomodarsi vicino a lui.

“Posso?” chiese questo uomo di bel aspetto e dai capelli neri.
Il sorriso lasciava intravedere un diamante falso incastonato nell’incisivo sinistro.
Dicendo così si accomodò senza attendere il suo consenso.
Una rapida scansione fatta dal nostro “matre d’elegance” confermò che anche questo personaggio era completamente vestito di nero, ma fatto originale, indossava sopra l’abito un curioso accappatoio azzurro svolazzante e senza cintura.

Come per risposta al suo esame autoptico questi si presentò stingendogli la destra.
Al contatto questa mano risultò essere caldissima e sudata oltremodo.
“Mi chiamo TanKredi” disse con voce lievemente nasale “Sono il truccatore, parrucchiere e fotografo di questa allegra combriccola” e accompagnò la sua presentazione mostrando il resto dei passeggeri con il palmo aperto rivolto al corridoio come a sostenere un inesistente vassoio.
Tutti gli occupanti si voltarono all’unisono mostrando dei canini insolitamente sviluppati e aguzzi e piegando appena la testa con un ringhio di saluto.
Lesto come una zingara che sfila un portafoglio il nuovo vicino estrasse dalla tasca del suo accappatoio una macchina fotografica digitale e scatto alcune istantanee al volto del nostro campione, ma con un flash accecante.

“Già mi sta sul cazzo” pensò il nostro sommo intenditore a causa di un simile comportamento, ma da buon viaggiatore lasciò aperto uno spiraglio di comprensione nei confronti di questo adrenalinico personaggio.

TanKredi, nello spazio di dieci minuti (che parvero interminabili) con logorroica ed instancabile rapidità raccontò tutta la sua vita dallo stato neo-natale sino all’età adulta e indugiò almeno tre volte sull’evento topico della sua esistenza, ovvero la storia del suo grande amore ora (ahilui) non più corrisposto.
Questa vicenda, tristissima, lo aveva addirittura portato fin nel cuore dei Carpazi in quella terra che una volta era chiamata Transilvania, nel disperato quanto inutile tentativo di riconquistare la sua bella gitana, in quelle terre desolate si era compiuta la sua trasmutazione di cui, però non fece che un lieve accenno.
Questo artista dell’immagine si intestardì poi, per tagliare i capelli al nostro beniamino seduta stante come “forma di benvenuto” cercò di giustificarsi.
L’offerta venne cortesemente, ma decisamente rifiutata.

Crucciato in volto, il visagista cominciò ad alzare sempre più la voce nel proseguire la narrazione della sua storia sino quasi a gridare.
Inspiegabilmente indirizzò il soggetto di tanto odio, che divenne una vera e propria filippica iraconda, contro una contravvenzione ingiusta che gli era stata inflitta dalla polizia municipale nel lontano 1983. Da allora, ripudiata l’autovettura, usava solo la bicicletta per muoversi in tutta Europa, isole comprese.
Casualmente questa di stanotte era la prima trasferta su un mezzo pubblico dopo quasi 25 anni di instancabile pedalare. Una “coincidenza” troppo importante per non essere documentata con almeno 6.000 scatti fotografici.

Raccontò ormai quasi senza voce e senza domandarsi se poteva in qualche modo essere di interesse, le sue ultime difficoltà lavorative.
A causa della fatica di raggiungere i suoi clienti pedalando a volte anche per centinaia di chilometri, si addormentava sempre profondamente nei vari studi una volta che, stremato vi giungeva.
Ignorando così i clienti per cui aveva affrontato prestazioni degne di Pantani.
Si risvegliava poi verso mezzanotte senza più il suo cliente, ma con l’impellente bisogno di tagliare i capelli o almeno sfoltirli a chiunque purché gli si avvicinasse a distanza di forbice.
La voglia era così prepotente che lo spingeva a uscire nel cuore della notte a caccia di capelloni.
Se né aveva occasione narcotizzava una vittima solitaria e la trascinava un vicolo buio dove faceva scempio della sua capigliatura. Poi, ebbro di tanta perversione tricologia, ripartiva sgommando sulla sua mountain bike scassata.
Questa sua “malattia” ammise con mestizia consumata, lo aveva reso meno occupato rispetto ai tempi in cui usava l’automobile. Ormai poteva accontentare solo i clienti sofferenti di insonnia e sordi alle sue lamentele querule.

La sua vita era però ormai finalmente giunta ad una svolta, disse ancora. La battaglia contro la contravvenzione ingiusta era agli sgoccioli, aggiunse illuminandosi solo un attimo in volto, i vari ricorsi presentati anche alla corte Europea di Strasburgo erano in fase di definizione e forse fra sei o sette anni la giustizia avrebbe trionfato, e tutto sarebbe tornato “normale”.
L’originale psiche di questo artista in accappatoio determinarono nel nostro eroe alcune considerazioni non proprio positive e un leggero sentore di inquietudine.
Sommerso dagli scatti fotografici continui di questo cilclista – parrucchiere, il quale non smetteva di fotografarlo neanche durante le brevi pause in cui taceva per respirare, il nostro divo si chiuse in un silenzio compunto e si determinò in lui la volontà che il viaggio finisse immediatamente, ma così non fu.

Questo supplizio terminò solo nell’istante in cui, con uno stridere dei freni, l’autobus si fermò proprio al centro di Piazza Croce.
La piazza era completamente vuota se si escludono le due station wagon funebri messe di traverso e poste a barriera alle vie adducenti alla piazza stessa, vie che formavano appunto una croce da cui la piazza prendeva il nome.

Le porte pneumatiche dell’autobus si aprirono con uno sbuffo e i passeggeri come obbedendo ad un ordine cominciarono a scendere senza fiatare. Si potevano ancora distinguere nella folla alcuni bagliori di flash che davano la posizione del fotografo TanKredi, come una boa luminosa in un mare agitato di pece.
Finalmente libero egli poté riposare.
Gli sarebbero bastati solo pochi secondi, forse un minuto, meglio un paio di ore.
Non fece nemmeno in tempo ad assaporare il tepore del sonno che saliva lungo le gambe sino a coprirlo come un morbido plaid che fu ridestato da un tocco sulla spalla.

Una figura onirica avvolta nella nebbia lo guardava con un sorriso pastorale. Era un frate, un domenicano come notò dall’abito talare bianco e nero. Un uomo giovane, ma con il viso maturo e il cranio completamente rasato che rendeva la tonsura inutile. Il naso importante separava gli occhi intelligenti ed insolitamente irrequieti.

“Che cazzo vuoi anche tu?” proferì con la sua consueta eleganza e pazienza.
Il domenicano sembrò non curarsi dell’approccio non molto urbano e disse: “Fratello, ho poco tempo per metterti in guardia dagli eventi che presto si paleseranno al tuo cospetto”
“Ma come parla questo qui? E soprattutto chi è?” pensò il nostro trasvolatore ormai completamente ottenebrato dalle tossine casearie.
Come per rispondere a questa domanda il religioso continuò: “Il mio nome è Elia, frate Elia di Paullo, ma molti mi conoscono come il “profeta errante di Pantigliate”. Giungo da molto lontano per adempiere il presagio che mi annunciava la venuta di un predestinato. Questo Eletto è chiamato ad una terribile lotta contro il principe delle anime dannate…E questo uomo sei tuuuuuuuu”.
“Minchia!” (antica parola aramaica che significa stupore) disse il nostro prescelto.

“Ecco il mio avvertimento” continuò l’uomo di Chiesa e così dicendo con fulgore parve ergersi nel corridoio dell’autobus ormai completamente sgombro.
Le frasi che seguirono e dal sapor oscuro furono proferite dal sacerdote in tono ieratico con la stessa voce di Vittorio Gasman.
“Mondo sarà chi monderà lo mondo immondo” e subito dopo aggiunse “Dio lo vuole!” ed ancora “Tutto è polvere”.
“Questo doveva essere la presentazione” pensò il nostro adamantino spettatore.
Prosegui poi il sacerdote con voce tonante, scandendo le parole quasi con concitazione e con un leggero accento tedesco che prima il nostro Conte di Massa non aveva notato.

“Diffita te Tankreti anima necra, ma ankora più preparati a compattere per tua fita, und affronteprai reichfurer ti tenepra che fuole difentare patrone ti monto” tacque per qualche secondo come ad accertarsi che la cosa fosse stata ben capita.

Riprese quindi con occhi di brace, ma l’accento era inaspettatamente cambiato in russo, degli Urali, avrebbe detto il nostro prode, esperto glottologo.
“Saraj chiamatu a incontra il no muorto e distruggere lui con astuzia e fuorza… molto Karasciò”.

Era sempre più terrorizzante la premonizione e questo vaticinio si concluse finalmente accompagnato da una forte cadenza francese (forse della Marna): “Je lasc a tuà un petite choise per salvar le tuo cul rosé”.
Dopo questa babele di lingue il nostro intossicato paziente non capiva più niente. La testa gli girava come una giostra. Chiuse gli occhi nella attesa che l’eco delle parole del pio pellegrino smettessero di risuonargli nella testa.
Ridestatosi si accorse che frate Elia era scomparso e solo uno strano oggetto riposava sul sedile al suo fianco. Ciò che aveva visto ed udito forse non era stato altro che un sogno? Mistero si aggiungeva all’ignoto come buio all’oscurità.

Raccolse la reliquia con mano delicata e la ripose in tasca, ma subito la sua attenzione fu catturata da una musica tribale che proveniva dalla piazza.
“Finalmente si fa fiesta” pensò, e scese dall’autobus per vedere cosa mai stesse capitando intorno.




Continua…

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