venerdì 11 aprile 2008

Parte VIII La Casa Senza Tempo


Simile ad un uccello rapace che discende in cerchio verso il proprio nido con volate sempre più strette egli cercava la strada più breve per giungere alla propria casa.

Quanto era cambiata la città in questi due anni di volontario esilio, pensò osservando i marciapiedi ancora solitari, mentre sfrecciava lungo una lingua d’asfalto che rifletteva le prime luci del far del giorno.
Riandava con la memoria agli eventi passati, agli amici salutati, ma mai dimenticati. Procedeva a ritroso nel tempo con il ricordo, mentre il suo corpo andava avanti tanto velocemente nel suo presente che era quasi nel futuro.

Il sole nascente andava crescendo in questo giorno ed era speranza di cose nuove… finalmente di un vero giorno nuovo.

Così giunse alla avita magione.

Un antico detto indiano recita: “Se alla fine della notte riesci a tornare a casa, in realtà non ti sei mai perso”.
Con questa sensazione egli salutò il suo appartamento, mentre l’arancione di un’alba magnifica filtrava dalle tapparelle appena un poco sollevate.

Era infinitamente stanco, sin nelle ossa.
Il suo letto sopraelevato e il silenzio delle stanze lo attiravano come un libertino è addescato da una meretrice. Avrebbe dato qualunque cosa per tre ore di sonno, ma pensò sorridendo di averne a disposizione forse un po’ di più prima di darsi da fare per riavere i propri documenti, di riconquistare la propria identità e con essa la propria vita… forse.

Questa casa, vissuta nell’aspetto era in alcune sue parti disadorna ed in altre caotica, aveva un potere magico non solo su di lui, ma su tutti quelli che vi entravano.
Lì il tempo e l’entropia si fermavano.
Come una sorta di ritratto di Dorian Gray immobiliare essa assorbiva lo scorrere delle cose ed anche le storie dei suoi occasionali abitatori relegandoli o regalandogli un lembo di limbo.
Era come abbeverarsi al fiume Lete, elargiva l’oblio (che è componente essenziale della felicità).
Non per caso gli orologi di questa dimora erano fermi da sempre.

Egli, infatti, nei rari momenti in cui era costretto ad abbandonarla subito invecchiava.
A volte solo andare in edicola ad acquistare il giornale lo faceva trovare al suo ritorno con una nuova ruga.
Inutile dire cosa aveva lasciato indelebilmente sul suo volto due anni di lontananza.
Questi pensieri malinconici affollavano la mente del nostro “ragazzo di quaranta anni”.

In quel preciso istante suonò il suo ultimo cellulare.

“Sono il marchese Alberto” proferì una voce dal telefono “Alberto degli Ulivi detto Zazà 9000” aggiunse senza che ce ne fosse bisogno, ma con un’erre moscia rivelatrice della sua condizione aristocratica.
“Ho chiamato i tuoi otto numeri diversi di cellulari, ma solo questo è funzionante…sei arrivato?” la voce lasciò trasparire una nota di ansia.
“Si” rispose il nostro protagonista con uno sbadiglio.
“Ho dei regali per te” aggiunse il Marchese, non senza una certa concitazione muliebre nell’ultima frase che gli faceva pregustare il nobile gesto “Fra dieci minuti posso essere a casa tua”.
“Ok” concluse laconicamente il nostro assonnato anfitrione.
Non fece a tempo a riporre il telefono su uno dei suoi tanti comodini ingombri all’inverosimile di cose inutili che già squillava il campanello della porta.

Apparve così il suo amico per antonomasia.



Uomo di ancor bel aspetto, il marchese Alberto, era alto e vestito rigorosamente in un completo grigio da manager quale egli era.
Si presentava con la sua immancabile valigetta porta pc. I suoi capelli, un po’ troppo lunghi rispetto alla sua immagine inappuntabile erano divenuti prematuramente bianchi, tanto che, volendo essere critici lo facevano sembrare adornato con quelle parrucche del 700’ (che i suoi antenati avevano certamente usato) e stridevano un poco rispetto al contesto molto “elegantemente convenzionale”.
Il nostro fine conoscitore della natura umana sospettava che l’amico utilizzava una retina durante il suo sonno per mantenere una così perfetta forma delle ondulate ciocche apparentemente indeformabili.
Non certo un cicisbeo, ma un verace inquilino di Versailles ai tempi del Re Sole così appariva.

Il suo sguardo azzurro, appena solcato dalle rughe che facevano intendere molto tempo trascorso al sole dei tropici, balenava curioso e allegro nella penombra della casa.

L’ incedere, dritto e fiero nell’intenzione lasciava trasparire una singolare camminata.
Egli spostava il piede destro all’infuori dandogli un certo sentore di vetustà nonostante “anagraficamente” si potesse definire ancora nella età di mezzo.
Ai piedi (sempre dolenti) calzava due mocassini comodi che attrassero subito l’interesse del nostro “enfant terrible”.

“Dove le hai prese” disse senza neanche salutarlo.

Il Marchese non rispose subito, ma inizio una lunga cronistoria dei suoi attacchi di gotta, retaggio molesto del suo lignaggio, che lo avevano fatto abbandonare le scarpe inglesi per queste “ciabatte” oltremodo confortevoli ed a “bon marchè”, come spiegò dopo circa sei minuti di inutili particolari.
Singolarmente egli aveva una collezione di scarpe di pregio in casa (mai adoperate) riposte con cura in una teca sotto vetro che campeggiava nella stanza più remota della sua grande casa milanese, queste scarpe le aveva nascoste alla vista di tutti, quasi che fosse un parente ritardato di cui vergognarsi. Erano oggetto di un suo pernicioso interesse nelle notti solitarie in cui la consorte lo abbandonava per calpestare il palcoscenico.

Egli allora, accudiva con puericultrice devozione la sua piccola figliola e con medesimo impegno le sue scarpe. Solo ogni tanto il suo sguardo sognatore cadeva su una vecchia foto che lo ritraeva giovane ed abbronzato alla guida di una moto rombante.
Il paragone con il suo odierno, fatto di pannolini, suocere moleste e con la sua monovolume familiare (ma full optional), strideva come ghiaccio sul parquet.
Ormai, puntuale come una vaccinazione scolastica, alle 20 di ogni sera spegneva il suo cellulare e dispariva al mondo e agli amici per impersonare questa figura da “papà del mulino bianco”, poi alle 8 della mattina riconnesso alla rete telefonica risorgeva come un “irreprensibile” manager.
Questi due uomini che abitavano nello stesso corpo tra loro non parlavano mai, quasi che tacitamente intuivano che una volta aperto un dialogo sarebbe ricomparso un terzo uomo.
Esso, molto simile ad il centauro della foto, avrebbe mandato volentieri a vaffanculo tutti e due con le loro rispettive vite “irreprensibili”.

Queste considerazioni non erano presenti tra loro in quel momento e il Marchese Alberto
passò quindi con continuità ai “doni” di benvenuto che aveva accumulato nei due anni di lontananza del nostro transfugo.

Estrasse dalla sua gerla diversi oggetti.
Una lanterna magica (acquistata in un mercatino in Val Policella dove era sito il suo “buen ritiro”), alcuni prismi di cristallo e infine una sua creazione artistica fatta di specchi e pietre incastonate (molto bella) che costituivano il suo hobby preferito.
Dispiegava ai piedi del nostro viandante questi regali con consumata grazia, come un re magio alla vista del santo nascituro.
Dei doni sproporzionati rispetto all’assoluta indifferenza con cui spesso erano ricevuti, ma tra loro funzionava così.
Consegnò inoltre, brevi manu, un migliaio di cartoline preparate con la tecnica del collage e adornate di motti e frasi celebri.
Usualmente queste originali missive erano spedite alla residenza Palmaria, ma naturalmente negli ultimi due anni non vi era nessuno che potesse riceverle e goderne il contenuto. Ecco così spiegata la cascata di carta che riempì il corridoio come un fiume impetuoso riempie il suo letto in secca dopo un tardivo disgelo.

Era strano, quasi al limite del morboso, questo suo gusto di soverchiare la casella della posta con questi fugaci e variopinti messaggi a volte dal significato criptico.
Negli anni della loro bella amicizia queste “cartoline” avevano superato il numero di diverse centinaia di migliaia.

Come già dissi, tra loro era così.

Il Conte di Massa spiegò telegraficamente la situazione.
Aveva bisogno di nuovi documenti, altrimenti non sarebbe potuto giungere a tempo al compleanno del suo unico amore, altro al mondo non pareva importargli.

9000, così definito da se stesso a guisa del personaggio del supercomputer Hal del film “Odissea nello spazio” al quale si sentiva (chissà poi perché) intimamente legato, ascoltava contrito.
Freud avrebbe avuto da scrivere molto su entrambi.

Sorgevano infinite difficoltà operative. Bisognava raggiungere gli uffici comunali per avere la carta di identità e poi spingersi fino in Questura per avere il nuovo passaporto ed ancora la motorizzazione per la patente ed infine le carte di credito: necessario lasciapassare per attingere al suo “tesoretto”.
Questo elenco di cose da fare innervosivano il nostro smemorato cui la natura non aveva elargito il dono della perseveranza né quello della pazienza per le umane banalità, ma lui non aveva più nulla che avrebbe potuto confermare chi fosse a parte se stesso.

“Una situazione Kafkiana” sentenzio il nobile amico fissando pensoso il pavimento e sostenedosi il mento con il pugno chiuso.

“Fanculo Kafka” ruggì il nostro uomo dai nervi d’acciaio, “Voglio i documenti, voglio Kiki, capisci!”. Aveva quasi le lagrime agli occhi dal furore.
Sorpreso da una reazione simile il Marchese lasciò l’amico ritrovato con la mesta consapevolezza che la sua presenza era ormai superflua. Uscendo seminò piccole cartoline come lacrime portate via dal vento, sin nell’atrio della portineria condominiale.
Una nota di malinconia scompose la sua naturale signorilità, ma non lascio alcuna traccia sui capelli impomatati.

Al modo di un detenuto nella attesa della visita del proprio avvocato, il nostro prigioniero con lunghe falcate passeggiava nervosamente lungo il corridoio ingombro sino alle sue ginocchia di cartoline.


Era furente. Perché il destino, cinico e baro, lo aveva privato della possibilità di muoversi agilmente in questa Europa già così stretta per lui? Come mai lo aveva privato vigliaccamente dei documenti e del sonno?


L'ansia ad ondate successiva si infrangeva come una mareggiata sullo scoglio del suo io interiore.
Così ricorse al suo solito antidoto innaturale, al suo vaccino contro le umane disgrazie: la connessione internet.
Predispose rapido un collegamento wireless sfruttando il router più vicino per giungere al web gratuitamente. Dopo pochi minuti di ticchettio frenetico sulla tastiera del suo pc casalingo e dopo aver dispiegato un lungo filo che dalla sala giungeva alla cucina (unico punto da cui poteva catturare la linea) riuscì nel suo intento fraudolento, ma il gioco durò solo pochi minuti, i firewall e le correnti elettrostatiche non permettevano un collegamento stabile.

Ecco che nella sua mente contorta si disegnò un piano oscuro.

Come un ninja silenzioso percorse le scale sino alle cantine. Una volta giuntovi trovò facilmente il quadro elettrico generale e lo disattivò solamente per alcuni minuti.

Il nostro hacker in questo modo configurò di default tutti i router nel palazzo. Questo stratagemma gli avrebbe permesso di essere padrone di una linea gratuita di qualche ingaro condomino.

Non immaginava, il nostro criminale, che il vicino del terzo piano era collegato da giorni ad un polmone di acciaio. Solo il funzionamento di questa macchina gli consentiva di vivere dopo un ictus invalidante che lo aveva colpito senza pietà il giorno dopo il suo pensionamento.
L'innocuo gesto del nostro esperto informatico determinò un black out inaspettato che compromise il congegno medico, ma le maledizioni del malato ormai spacciato non lo raggiunsero, poiché la sua presenza era eterea e silenziosa come un'ombra nell'anonimo palazzo ancora addormentato.
Tornato poi nel suo appartamento godette i frutti del suo gesto scellerato con una connessione stabile e insolitamente veloce.

Le ore corsero rapide come gli anni della giovinezza.
Si accorse, solo ed estraneo a tutto, che ora doveva andare e che non aveva dormito per nulla.
Aveva però bisogno di nutrirsi. Fece appello alla sua fonte di sostentamento primaria: la pizza. Ordinò per telefono tre marinare senza origano, ma con i capperi, ed appena consegnate le masticò con livore come il conte Ugolino il cranio di Farinata degli Uberti.
Ristorato e pago decise un piano operativo da attuarsi prima di subito. Per prima cosa avrebbe reclamato la propria identità.
Scalzo cominciò ad avviarsi verso il più vicino ufficio del Comune, mentre colse distrattamente l'ululato di un'ambulanza che si avvicinava veloce, ma il suo unico pensiero era fisso sul suo amore. Questo gli ricordò che era stato infelice senza di lei, ma sino ad ora non se ne era ancora accorto.

Continua….

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